Craig
Ewert, 59 anni, malato di sclerosi laterale amiotrofica,
finisce i suoi ultimi istanti di vita ripreso da una
telecamera. Fissa sul suo viso a seguire la scena mentre
beve con una cannuccia potenti barbiturici e strappa con i
denti il polmone artificiale. Succede così che nel piccolo
schermo basta trovare il canale giusto e nel palinsesto
dei programmi ci viene riservato uno spazio per il
racconto di una morte in diretta. Consumata a freddo,
confezionata con un titolo, drammatizzata nei contorni di
un film. Trasmette Sky. La programmazione di quanto
accaduto nel settembre 2006 coincide con la sentenza
britannica del “non luogo a procedere” per i genitori di
Daniel James, paralizzato e aiutato a morire nella stessa
clinica svizzera. Si potrebberoo rintracciare, nelle
motivazioni di una scelta così forte, una sorta di volontà
formativa, di educazione civica ad approcci all’esistenza
umana che appaiono terribilmente sul confine, controversi
nella drammaticità di ogni ragionamento morale che voglia
indagarli nel profondo.
Il regista Zaritsky non vede la sussistenza di un problema
se c’è la volontà del suicida ad essere filmato. E nella
dinamica della liceità non c’è. Il fatto che fa sussultare
gli occhi è altrove. E’ dentro. E’ la violazione
dell’intimità. Il trasferimento in pubblico di un fatto
così terribilmente privato, anche quando avviene onorando
la volontà di chi la vive, porta comunque con sé l’ombra
dolorosa di un’invasione. Affilata, quieta persino, eppure
troppo grande per essere osservata in modo indolore. Una
sofferenza prolungata che vuole spegnersi e il cerchio
degli affetti più cari sul punto estremo di quella vita
vengono incastrati, congelati per sempre in una ripresa
televisiva che deruba a quel momento dell’esistenza ogni
sacro ritiro su di sé.
Perché siamo abituati a vedere reality su tutto. La
quotidianità indagata con dovizia di particolari in ogni
suo lato. Amori e sentimenti sbattuti dietro le
telecamere, veri eppure film. La commistione diabolica dei
reality non ha poi tolto realtà alle cose che accadono, ma
le ha date in pasto alla platea, ha abolito le difese del
privato, ha tolto i confini e il pudore. In una parola ha
banalizzato. E se su questo possiamo tirare fuori commenti
di disapprovazione o al più di distacco, sulla morte di
una persona, su un atto irrimediabile e cosi alto, nella
sua profondità di contenuto, forse si può dire che non si
fa, che non serve. Che il dolore spettacolarizzato è
diseducativo e punto. Che toglie rispetto, che segue le
onde più sbagliate per portare avanti le battaglie più
giuste.
Pensiamo all’Italia e al dibattito di fuoco che ha
generato il caso Englaro. Di Eluana non abbiamo visto una
ruga di oggi, non un suo sguardo, non un profilo del suo
viso, del suo sonno lunghissimo. Eppure, vederla
trasformata dal peso di una sorte tanto ingrata, avrebbe
potuto convincere molti, i più emotivi, quelli che vengono
persuasi più dalle lacrime televisive che non da una
disamina lucida della questione. Suo padre invece sceglie
le sue foto più normali, quelle che potrebbero essere di
mille altre ragazze come lei era in quegli anni. E’ la
scelta di proteggere quel dolore privato, di non
utilizzare scorciatoie, di non lasciare nuda di fronte a
tutti l’esistenza già colpita di una giovane donna.
Perché se pure abbreviasse il corso di un epilogo tanto
atteso, non si fa. Perché in fondo non ce n’è stato
bisogno per pensare e provare a sentire cosa possa
significare quello stato in cui si perde tutto fino a sé
stessi. Perché ci ha raggiunti la necessità di pensare a
quella condizione di vita senza vedere una sola immagine.
Ma il rischio più grande che corre una morte in tv non è
quello di essere giudicata. Né vorremmo incorrere nella
tentazione di farlo. Piuttosto di essere ridotta per
necessità. Per essere vista, osservata da tutti, dovrà
essere necessariamente ristretta, adeguata alla platea di
chi entrerà in quello spazio non avendo alcuna contezza di
quei sentimenti e di quei legami. Nessuna registrazione
sarà mai fedele a quell’evento e ciò che non vedremo di
quell’addio, forse a quell’addio sarà stato tolto per
sempre.
Spiegato, raccontato, visibile a tutti, è faticoso capire
cosa ne è rimasto per lui e per la sua amata moglie. Lì
dove la vita termina, che arrivino le credenza religiose,
la certezza del nulla o la più pallida delle speranze,
quel punto lì non può essere visto. E’ nascosto a tutti,
persino a chi ti stringe la mano mentre vai via. Viene in
mente la lezione di un grande maestro di poesia: Neruda.
Diceva chiaro che ogni cosa, specialmente la più intima,
spiegata troppo e troppe volte sarebbe diventata normale,
forse banale. Assolutamente incapace di destare un
sussulto dentro. In passato morivano in una dimensione
pubblica e corale gli eroi. Morivano al cospetto di
testimoni i martiri. Questo era il profilo delle morti
pubbliche. Raccontate dal sublime dell’epica o dall’arte
degli affreschi nelle prime basiliche.
L’uomo dell’Occidente ha imparato a riconoscere la vita
come fatto privato, anche quando entra nella dimensione di
pubblico interesse. Tutto va ricondotto sempre alla
domanda esistenziale su di sé e sulla cifra della propria
esistenza. Dalla lezione di Socrate alla religione
cristiana, l’uomo si è scoperto in una deliziosa
solitudine esistenziale. Così abbiamo imparato a morire
soli. Circondati dagli affetti privati. Ma la strada è
ancora lunga. Oggi la contaminazione tra scienza ed etica
sta vivendo su questo filo, sottile ma spinato, la prova
più grande. Consegnare all’uomo tutta la sua morte.
Tentando di non abdicare più consenso o divieto ai
paradigmi della fede, o alla legge dello Stato. La fonte
iniziale e autosufficiente sta tutta nel valore che
ciascuno dà alla propria vita, alla sofferenza e alla
dignità. Il criterio non è l’uomo, ma ogni uomo.
E questa trama infinita di significati, rimandi e percorsi
siamo sicuri rimanga ben nascosta nella pellicola che
riprende il commiato di Craig. E’ quasi sicuro che avremmo
imparato di più leggendo una memoria, vedendo un film
sulla sua storia, anche solo leggendo la notizia della sua
scelta. Senza entrare in quella stanza, senza accendere la
tv. Senza l’ingenuità di credere che una telecamera
spiegherà meglio cosa sia entrare in quella notte.
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Archivio Eluana Englaro
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