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03/09/2007 Medici sul campo/6. Il prof. Gigli fra testamento biologico, eutanasia e cure palliative
(Daniele Lorenzi, http://www.korazym.org)
Testamento
biologico? "Non serve". Interviste a raffica di Scienza&Vita.
Gian Luigi Gigli è professore di Neurofisiopatologia all’Università di
Udine e direttore del Dipartimento di Neuroscienze all’Ospedale Santa
Maria della Misericordia di Udine. Specialista in disturbi del sonno
ed epilessia, già presidente della Federazione Mondiale Medici
Cattolici, è membro del Consiglio direttivo della Società italiana di
Neurologia e del Consiglio direttivo dell'Associazione italiana di
Psicogeriatria. E' anche segretario dell'Associazione italiana di
Medicina del Sonno (Aims).Fa parte dell'Editorial Board della rivista "Neurological
Sciences". Fra le sue qualifiche, quella di ex membro del Consiglio
Superiore di Sanità. E' anche past-president della World Federation of
Catholic Medical Associations. Attualmente è membro del Pontificio
Consiglio per la Pastorale della Salute e della Pontificia Accademia per
la Vita. E' infine presidente della Fondazione "Morpurgo-Hoffman" di
Udine, con finalità di studio ed assistenza nel campo dei problemi degli
anziani. Non potevano non essere rivolte anche a lui le domande
dell'Associazione Scienza&Vita sulle tematiche del fine-vita.
Che cosa pensa di una norma che sancisca il testamento
biologico?
Assolutizzare, come si intenderebbe fare, il principio di
autodeterminazione, mette a rischio uno dei cardini dell’ordinamento
giuridico (l’indisponibilità del bene-vita) e riduce ad una concezione
contrattualistica la relazione medico-paziente. Illuminanti, sotto
quest’aspetto, sono alcune linee guida pubblicate su autorevoli riviste
scientifiche della Gran Bretagna, dove il living will (dichiarazioni
anticipate di volontà) è già in atto. In base ad esse, laddove manchino
direttive anticipate, scritte o espresse in forma orale inequivocabile e
documentata, colui che fa le veci del paziente incosciente, può assumere
decisioni riguardanti la vita del malato ‘interpretando’ quale avrebbe
potuto essere la scelta o effettuando egli stesso le scelte, sulla base
di quel che ritiene essere ‘il miglior’ interesse del paziente. Malgrado
il fatto che numerosi studi abbiano dimostrato che di fronte alle
ipotesi di decisioni di fine vita, le scelte del fiduciario sono
discordanti da quelle espresse dal paziente.
E negli altri Paesi, cosa avviene?
I dati belgi e olandesi riguardanti le decisioni di fine vita nei
bambini di età inferiore ad un anno, sono molto interessanti. L’assenza
di reali speranze di sopravvivenza o l’aspettativa di una scarsa
qualità, portano a decidere per la fine della vita in circa il 60% dei
bambini. Si rileva, d’altra parte, che il 79% dei medici ritiene proprio
dovere professionale ridurre le sofferenze affrettando la morte
(ovviamente sempre nel ‘migliore interesse’ del piccolo paziente). E
questo in base al principio di autodeterminazione esercitato per conto
di un paziente non in grado di esprimere autonomamente le proprie
scelte. In Colorado, un bambino di 5 anni gravemente disabile (ma in
grado di frequentare una scuola appropriata) è stato fatto morire a
seguito della sospensione di idratazione e nutrizione decisa dai suoi
genitori, con l’autorizzazione del magistrato. In Svizzera e
nell’Oregon, sulla base del principio di autodeterminazione, è stato
legalizzato il suicidio medicalmente assistito e nel novembre 2006
l’Alta Corte di Losanna ha emanato linee guida per le persone affette da
‘disturbi psicologici gravi, permanenti e curabili’: in nome
dell’autodeterminazione del paziente depresso, viene quindi raccomandato
di assecondarne le scelte di morte.
Quale esperienza si dovrebbe trarre da questi casi?
Quel che accomuna questi casi così disparati è l’assolutizzazione di un
concetto di libertà che finisce per non riconoscere più il valore della
vita, fondamento dell’autonomia stessa e ha bisogno di negare e
contraddire la vita per affermarsi. In Italia, molti dei sostenitori
dell’autodeterminazione assoluta si dichiarano, in totale buona fede,
contro l’eutanasia, riconoscendo come eutanasia solo quella attiva. Per
tale mentalità, l’eutanasia per omissione non esisterebbe e la
sospensione dell’assistenza di base (incluse idratazione e nutrizione) –
benché capace di portare a morte certa il paziente – sarebbe solo
un’affermazione di autonomia che il medico sarebbe chiamato a
rispettare. La consapevolezza di quanto è accaduto e sta accadendo
all’estero in nome di un principio di autodeterminazione assunto a
idolo, dovrebbe allora portare i suoi sostenitori italiani, se davvero
in buona fede, a far sì che ogni eventuale intervento legislativo in
materia di dichiarazioni anticipate di volontà (che non ritengo
auspicabile) venga comunque blindato in modo tale da contemperare
l’autonomia delle scelte con il valore sociale del bene vita.
Che cosa intende per accanimento terapeutico?
Si tratta di interventi che non hanno più speranza alcuna di portare un
giovamento per le condizioni di vita e salute del paziente. Sono
destinati a soddisfare aspettative irrealistiche da parte del paziente o
dei familiari in un delirio di onnipotenza del medico.
Che cosa intende per eutanasia?
Intendo qualunque azione od omissione che per sua natura, e nelle
intenzioni, è destinata ad abbreviare la vita del paziente con lo scopo
di ridurne le sofferenze.
Nel codice deontologico ci sono le risposte necessarie a questa
problematica?
A mio avviso, sì. Viene delineato un metodo di comportamento, che tende
a rifiutare in ogni caso un approccio eutanasico, anche se non è detto
chiaramente che ciò riguarda anche l’eutanasia da omissione di
intervento e viene delineato un metodo decisionale fondato sulla
responsabilità del medico, il rispetto del paziente e dei suoi
orientamenti e il rifiuto dell’accanimento terapeutico all’interno di
una relazione che non è né di paternalismo né di autodeterminazione
assoluta, ma di alleanza terapeutica.
C’è e in che cosa consiste il conflitto tra volontà espresse in
precedenza dal paziente e posizione di garanzia del medico?
Il conflitto si determina solo laddove l’autodeterminazione del paziente
viene a costituire un valore assoluto, anche a scapito del bene primario
della vita, che è indisponibile. Inoltre il conflitto è più facile a
determinarsi laddove le decisioni dovessero essere sostenute
nell’interesse del paziente da un cosiddetto fiduciario, autorizzato ad
interpretarne la volontà.
Nel corso della sua professione ha mai avuto problemi, nel senso
di denunce legali, nel caso di interventi contrari alle indicazioni del
paziente che pur hanno consentito di salvare la vita o di ristabilire un
equilibrio di salute o di sospensione di terapie sproporzionate da cui è
derivata la morte del paziente?
No, è avvenuto semmai il contrario.
Può indicare la differenza tra testamento biologico e
pianificazione dei trattamenti, contestualizzata nella relazione
medico-paziente?
Pianificazione dei trattamenti è qualcosa che si colloca all’interno
della relazione di alleanza terapeutica; prevede la discussione con il
medico dei trattamenti più opportuni relativamente a criteri di
efficacia, efficienza, tollerabilità da parte del paziente.
L’implementazione delle cure palliative e dell’assistenza
domiciliare, delle strutture di lungodegenza e degli Hospice possono
essere una risposta all’eutanasia e all’abbandono terapeutico? Come si
presenta la sua realtà geografica da questo punto di vista?
Certamente sì, anche se si tratta di una risposta parziale che prevede
comunque una scelta precisa di rispetto per la vita. Laddove questo non
ci fosse, anche un reparto di cure palliative può trasformarsi in un
luogo di abbandono terapeutico o di eutanasia. Si tratta quindi di
riaffermare a monte il valore primario e l’indisponibilità del bene vita
e la collocazione della libertà di decidere del paziente all’interno
dell’oggetto in discussione nella scelta e del valore sociale della
stessa.
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