Non ci voleva certo un giudice, nello specifico Angela
Salvio del Tribunale Civile di Roma, a ricordare che, in
Italia, non esiste il diritto legislativo di chiedere
l’interruzione di “cure” che nulla hanno a che vedere con
la salvaguardia della salute di un paziente, ma insistono
solo su un accanimento terapeutico privo di qualsivoglia
speranza. Era dunque quasi attesa quella sentenza di
inammissibilità che ieri è stata depositata in
cancelleria, dopo quattro giorni di camera di consiglio, e
che ha respinto la richiesta di interruzione del
trattamento terapeutico presentata da un Piergiorgio Welby.
Un uomo ancora capace di intendere e di volere al punto da
costruire sulla sua sofferenza fisica una battaglia
lacerante per le coscienze di tutti e, allo stesso tempo,
impossibile da eludere ancora a lungo per convenienze
politiche o dubbie esigenze confessionali e di palazzo.
Coraggiosamente, tuttavia, i giudici del Tribunale Civile
di Roma hanno inserito tra le righe del dispositivo anche
una forte chiamata di correità nei confronti della
politica, la cui inettitudine pregressa, unita alle
recenti fiammate teodem, non è stata capace di
colmare con una forte iniziativa legislativa, un abissale
vuoto normativo in materia di un diritto non meno
importante di quello legato alla vita: quello di morire
con dignità.
“Solo la determinazione politica e legislativa, - si legge
nel provvedimento del tribunale - facendosi carico di
interpretare l’accresciuta sensibilità sociale e culturale
verso le problematiche relative alla cura dei malati
terminali, è in grado di dare risposte alla solitudine e
alla disperazione dei malati di fronte alle richieste
disattese, ai disagi degli operatori sanitari e alle
istanze di fare chiarezze nel definire concetti e
comportamenti; solo la politica può colmare il vuoto di
disciplina anche sulla base di solidi e condivisi
presupposti scientifici che consentano di prevenire abusi
e discriminazioni. Allo stesso modo in cui intervenne il
legislatore nel definire la morte cerebrale”.
Una sentenza senza appello, quindi. Ma dove il condannato
non è certo Welby, ma uno Stato inchiodato alla croce di
un credo niente affatto collettivo e per giunta orbato,
sul fronte della crescita civile, da una classe politica
colpevolmente immobile davanti ai temi etici perché
ostaggio di pochi a discapito di molti. Ancora il giudice,
a proposito del diritto del malato a chiedere di “staccare
la spina”, ha illuminato con il diritto fino a che punto
Welby (e tutti quelli nelle sue condizioni) poteva
aspirare a vedere accolta la richiesta dell’interruzione
della respirazione assistita, previa somministrazione
della sedazione terminale. In pratica nessuno. Con spirito
apparentemente beffardo, il giudice ha informato che Welby
aveva certo tutto il diritto di chiedere, “ma trattasi di
un diritto non concretamente tutelato dall’ ordinamento”.
Ma è il passaggio successivo a questa banalità giuridica a
colpire nel segno il vuoto legislativo e l’inettitudine
politica nel colmarlo. Scrive il giudice Salvio: “Non si
può parlare di tutela se poi quanto richiesto dal
ricorrente deve essere sempre rimesso alla totale
discrezionalità di qualsiasi medico al quale la richiesta
venga fatta, alla sua coscienza individuale, alle sue
interpretazioni soggettive dei fatti e delle situazioni,
alle proprie convinzioni etiche, religiose e
professionali”.
Non si può, insomma, far pesare sulla coscienza di un
medico, che prima di essere tale è una persona come tutte
le altre, la responsabilità di una scelta tra cosa è vita
e cosa non lo è più. E, soprattutto, sul quando
considerare venuto meno il senso stesso del proprio
ufficio. Così come è stato stabilito che lo stato di morte
celebrale può far scattare l’espianto degli organi ai fini
della donazione, non si capisce per quale motivo la morte
di un organismo minato da una malattia incurabile
all’ultimo stadio non possa smuovere il legislatore alla
creazione di una legge che consenta di assecondare la
ferma volontà di una “vittima” di porre fine
dignitosamente ai propri giorni. Cautela e prudenza sono
d’obbligo. Ma non quando, come in questo momento storico
italiano, i due modi d’agire vengono strumentalizzati da
una falange politica sempre più consistente. Che non
sembra agire nel nome della laicità dello Stato, ma é
decisa a garantire la sopravvivenza di quel potere
temporale della Chiesa che la storia ha sepolto e
condannato, ma l’Italia no.
Come c’era da aspettarsi, dunque, la politica si è ancora
divisa sull’ultimo capitolo della triste vicenda Welby.
Contrastanti gli stati d’animo con cui i diversi
protagonisti hanno accolto la sentenza del giudice Salvio.
Rassegnazione da parte di quei parlamentari consapevoli
dei “tempi lunghi” della politica che mai potranno
“coincidere con quelli di Welby”. Indignazione per i
radicali, che non si danno per vinti e rilanciano: dopo
questa sentenza saranno “ancora più determinati di prima”
ad aiutarlo a staccare la spina con un atto “di obbedienza
Costituzionale”. Soddisfazione, infine, da parte di
(quasi) tutto il centrodestra e di larghe frange della
maggioranza, per aver riportato il dibattito in
Parlamento. Che - sono certi e se ne fanno un vanto - non
permetterà “mai all’eutanasia di entrare nel nostro
ordinamento”.
Registriamo, per dovere di cronaca ma non solo, due
differenti prese di posizione che, a ben guardare,
fotografano con nitidezza, all’interno della medesima
maggioranza, chi si muove nel rispetto del mandato dei
propri elettori (per quanto lacerante a livello personale)
e chi, invece, risponde ad un potere diverso (per niente
toccata almeno da un flebile senso della vergogna). La
prima è quella della ministra della Salute, Livia Turco.
Da cattolica contraria all’eutanasia, si è detta comunque
“disponibile a colmare il vuoto legislativo”, assicurando
anche il proprio “impegno personale a portare la questione
all’attenzione del Parlamento”. Il secondo è invece quello
della “pasionaria teodem” Paola Binetti della Margherita.
Che, incurante delle necessità degli uomini e del proprio
mandato, ma ossequiosa solo agli ordini del Vaticano, ha
ribadito imperiosa che “qualsiasi legge possa essere
licenziata dal Parlamento, essa non potrà mai e in nessun
caso contenere un diritto alla morte dolce”. Se mai,
dunque, si celebrerà un dibattito politico per colmare
quel vuoto legislativo sulla questione invocato dai
giudici di Roma, questo non potrà che essere drogato da un
male più pesante e subdolo di quello che ha colpito
Piergiorgio Welby e che metterà sempre più in evidenza la
realtà in cui viviamo. Quella di uno Stato costretto
all’immobilità da chi non lavora per la civiltà e per il
diritto. E neppure per Dio.
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