PREMESSA
La disciplina dell'attivita' medico-sanitaria e del suo fondamento
giuridico, fino anche a quella relativa ai trattamenti di fine vita, si
muove intorno a poche e lapidarie norme, sparse in settori diversi
dell'ordinamento, in fonti di diverso grado e anche di diversa datazione.
Mi riferisco al concorso, o meglio al contrasto (almeno apparente) di
norme :
- gli articoli 13 e 32 della Costituzione sull'autodeterminazione e la
libera scelta terapeutica;
- gli articoli, della parte speciale del Codice penale che individuano
reati che vanno dalle lesioni personali dolose, all'istigazione o
agevolazione al suicidio, all'omicidio del consenziente, all'omicidio
volontario (artt. 575, 579, 580, 582, 590 del Codice penale);
- gli articoli della parte generale del Codice penale, le cosiddette
scriminanti della punibilita' e in particolare il consenso dell'avente
diritto (su cui ruota tutta la costruzione del consenso informato), lo
stato di necessita', l'esercizio del diritto o l'adempimento di un dovere
(artt. 50, 51, 54 del Codice Penale);
- l'articolo 5 del Codice civile che vieta gli atti di disposizione del
proprio corpo che menomano permanentemente l'integrita' del disponente;
- le disposizioni della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo, in
particolare l'articolo 3 che vieta i trattamenti inumani e degradanti e
l'articolo 8 che vieta le ingerenze delle autorita' nella vita privata del
cittadino.
Questo apparente contrasto normativo ha imposto alla giurisprudenza e alla
dottrina recente e meno recente, una scelta ermeneutica (interpretativa)
volta a dirimerlo e superarlo tenendo conto della giustizia sostanziale
che si presentava nel singolo caso concreto e forzando talvolta l'una,
talvolta l'altra interpretazione, piu' che in nome della diritto positivo
scritto, in nome del diritto vivo.
All'incertezza normativa descritta, si aggiunga la crucialita' del tema e
ne vengono, come ne son venute fuori, pronunce dettate dalle sensibilita'
di ogni giudicante e dal segno dei tempi in cui esse sono state emanate.
Insomma, in un magma normativo, il giudice prima decide secondo le proprie
convinzioni, e poi motiva, spesso secondo un percorso induttivo e non
deduttivo, al quale non sono estranee le istanze conservatrici di certa
cultura giuridica paternalistica.
Quindi il terreno e' scivoloso e difficilmente ancorabile ai principi, che
pur ci sembrerebbero acquisiti e ovvi (come l' autodeterminazione e la
liberta' personale e terapeutica), ma che nella prassi medica e
giudiziaria, non sono ancora solidi e solidificati.
Cio' non di meno, se pur frutto di diverse sensibilita', la scelta di
applicare una normativa e di disapplicarne un'altra, cosi' come quella di
interpretare l'una in virtu' dell'altra, puo' essere sottoposta al vaglio
della logicita', della coerenza, alla sistematicita' dell'argomentazione
giuridica, senza la quali saremmo destinati al buio perpetuo. Quindi alla
domanda di Welby occorre tentare di dare risposta, se non certa, quanto
meno fondata sui principi dell'ordinamento, fra cui il principio di non
contraddizione, il principio per cui la legge speciale deroga alla legge
generale, il principio per cui la norma di fonte primaria soccombe di
fronte alla norma costituzionale e alla norma sovranazionale.
Ho diviso in due gruppi gli orientamenti giuridici (dottrina,
giurisprudenza) che si sono venuti a creare proprio in base alla scelta
ermeneutica -e di costume- effettuata per redimere il concorso di norme
succitato. Non e' che uno schema imperfetto per riassumere indicativamente
gli approcci presenti per azzardare, in ultima analisi, le probabili
diverse risposte (in altra sede, ad esempio in sede giudiziaria) alla
domanda di Welby, secondo la scelta in questione.
***
I. Primo orientamento. Ricomprende tesi, teorie, pronunce,
istanze riconducibili sinteticamente alla supremazia della codicistica
sulla normativa costituzionale e sovranazionale sopravvenuta
Norme
Secondo tale orientamento, il contrasto (ammesso che ne rilevino alcuno)
si risolve in favore dell'applicazione, al caso Welby come in altri casi
passati, degli articoli del Codice penale sull'omicidio del consenziente
(579 c.p.) e/o istigazione o agevolazione al suicidio (580 c.p.), dell'art
5 del Codice civile invocato a sostegno dell'indisponibilita' della vita e
dell'invalidita' del consenso o dissenso al trattamento salvavita. I
fautori di questa tesi invocano a sostegno della liceita' dell'intervento
salvavita –e quindi anche dell'illegittimita' dell'interruzione delle cure
di sostegno vitale- le scriminanti generiche previste nella parte generale
del codice Rocco, in particolare l'art. 50 C.p. sul consenso dell'avente
diritto (nei limiti di cui all'art. 5 C.c.), lo stato di necessita'
previsto all'art. 54 c.p., nonche' il diritto e la potesta' medica alle
cure (art. 51 c.p.).
Insomma tutta la teoria sull'attivita' medica viene qui affidata alla
disciplina generale penale, a norme generali che regolano anche i casi,
come quello di Welby, di per se' speciali e che nulla hanno a che vedere
con l' illecito penale, e in genere tutti i casi di trattamento sanitario.
Probabile inquadramento del caso Welby
Secondo questo quadro desueto ma ancora presente in giurisprudenza, Welby,
ammesso che possa chiedere lo stacco della spina, nella migliore delle
ipotesi potrebbe non esser fermato dal lasciarsi morire rifiutando le cure
(ammesso e non concesso che la respirazione artificiale sia considerabile
come un trattamento vero e proprio) o il cibo. Non perche' ne abbia un
diritto vero e proprio, stante il divieto di disposizione del proprio
corpo, ma solo perche' non lo si puo' coartare nelle cure che non desidera
(art. 32 Cost.) e che coscientemente rifiuta. Il tentato suicidio del
resto non e' reato.
Tutto cio' non significa che chi agevola il suo suicidio o lo determina
causalmente, vada esente da reato di cui agli artt. 579 e 580 c.p. sopra
citati, in quanto la loro condotta non trova alcuna scriminante della
punibilita' valida (ne' il consenso di Welby, ne' l'esercizio di un suo
diritto, perche' non ne avrebbe). Le condotte esterne penalmente rilevanti
possono essere le piu' varie e poco importa che Welby chieda il distacco,
la sedazione terminale, o la morfina in dose letale; cio' che conta e' una
qualche condotta esterna che agevoli, rafforzi, determini il proposito
suicida.
Se poi addirittura Welby chiede la sedazione e perde capacita' di
intendere e di volere, si incorre nel rischio che il consenso perda l'attualita'
necessaria al configurarsi delle fattispecie in questione piuttosto che
nel caso di omicidio volontario o comunque in situazioni da testamento
biologico.
Giurisprudenza
Su questa impostazione si fondano numerose e nemmeno troppo remote
pronunce giudiziarie, fra cui esemplari me ne sembrano due:
1. Cassazione penale sez. I, n. 26446 dell'11 luglio 2002;
2. Cassazione Penale sez. IV n. 28132 del 9 marzo 2001.
In poche parole, dopo la sedazione terminale e l'interruzione del
sostentamento vitale, potrebbe persino intervenire il giudice tutelare che
obbliga alla ripresa del sostentamento. Si ricorda il caso in cui la
signora che rifiutava l'amputazione salva vita della gamba, venne
dichiarata interdetta dal giudice in modo da imporle coattivamente
l'intervento (sigh!).
Critiche
Se pur corposo e solidamente radicato nel tempo nella cultura medica e
giuridica di stampo autoritario e paternalista, l'orientamento in
questione non ha basi altrettanto solide nella lettura logico-sistematica
del nostro ordinamento. Non si tiene in debito conto:
1. della sopravvenienza della Costituzione che ha un impianto
personalistico, e dell'atto che e' fonte sovraordinata e immediatamente
precettiva almeno nella sua parte prima, art. 13 e 32, e che tale norma
sopravvenuta travolge con se' l'impianto vetero-autoritario del codice
Rocco per avere al centro l'individuo, la sua persona e la sua
autodeterminazione;
2. della normativa sovranazionale come interpretata dagli organi a cui
abbiamo convenzionalmente delegato parte della nostra sovranita' (Oviedo e
Corte Europea dei Diritti dell'Uomo);
3. D́del fatto che l'orientamento si ancora su norme generali concepite
per altri scopi che quelli particolari e speciali quali l'eutanasia,
l'accanimento terapeutico e i trattamenti sanitari in genere, e che ormai
non e' piu' relegabile in tale ambito una materia che non ha generalmente
a che vedere con i reati e con le norme generali. E' a tutti gli effetti
una forzatura.
II. Secondo orientamento. Raccoglie le nuove istanze
personalistiche e offre una lettura costituzionalmente orientata della
normativa, individuando nelle fonti supreme del diritto la risposta alla
domanda di Welby. Qui il conflitto lo si ricompone grazie alla seguente
lettura.
Norme e istanze
- artt. 32 e 13 della Costituzione costituiscono il nucleo della
normativa;
- il consenso al trattamento medico sanitario non e' piu' fondato sul
generico e generale consenso scriminante il reato di cui all'art. 50 c.p.
e che come tale incontra -se non altro per esser fonte di pari grado- i
limiti dell'art. 5 c.c. Al contrario il consenso e il dissenso derivano
direttamente e precettivamente dagli articoli 13 e 32 della Costituzione e
come tale supera ogni ostacolo derivante da normativa inferiore (579 c.p.,
580 c.p., 5 c.c.). La Costituzione ha sancito l'incoercibilita' del
vivere;
- il consenso del paziente e' l'unico fondamento alla liceita' dell'attivita'
medica, in assenza del quale si incorre in violenza privata e in lesioni
dolose (610, 582, 590 c.p.). In assenza di consenso informato il sanitario
non puo' piu' invocare l'utilita' sociale, la potesta'/diritto alle cure o
quant'altro di paternalistico sia stato in passato posto a suo esclusivo
fondamento.
Sentenze
L'orientamento trova fra i suoi principali riferimenti (oltre che nella
dottrina maggioritaria), anche pronunce importanti fra le quali:
- Cassazione penale sez. IV dell' 11 luglio 2002 n. 1572 (rovesciamento di
prospettiva sul consenso);
- ancor piu' esplicita la Corte d'Appello di Milano nel caso Englaro
(salvo poi non riconoscere la natura di trattamento sanitario
all'alimentazione e idratazione artificiale!);
- Caso Pretty Vs.Gran Bretagna della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo
del 29 aprile 2002 (caso analogo al caso Welby, in cui la Corte nega il
diritto all'eutanasia attiva, ma legittima ed eleva a diritto protetto
dagli articoli 3 e 8 della Convenzione, in modo esplicito l'eutanasia
passiva).
Probabile inquadramento del caso Welby
Secondo questa lettura delle norme, Welby puo' (ed e' suo diritto)
sospendere in qualsiasi momento il suo trattamento di sostentamento vitale
in quanto:
a) poco importa che lo si consideri cura o intervento caritatevole; sempre
intrusione nella sua persona e', e come tale, non e' consentita senza il
suo consenso;
b) la sua non e', come nell'orientamento del primo gruppo, una mera
situazione di fatto (non impedibile ma non tutelabile), bensi' un diritto
soggettivo fondamentale costituzionalmente protetto;
c) L'atto materiale con cui si concreta fisicamente il diritto al rifiuto
alle cure non e' che una modalita' che passa in secondo piano. Nel senso
che, se intende porla in essere ma non puo' per ragioni fisiche, non per
questo il diritto viene meno;
d) dove c'e' un diritto c'e' necessariamente la tutela dello stesso. In
tale prospettiva, se nessuno si offre volontario per staccare la spina,
per ragioni di obiezione di coscienza, Welby potrebbe chiedere ad un
giudice l'attuazione materiale della sua decisione;
e) anche senza scomodare un giudice, chi si offrira' per l'adempimento del
diritto di Welby non ne sara' che un mero esecutore materiale, non
punibile in quanto scriminato dall'esercizio di un diritto di Welby di cui
e' solo esecutore;
f) in tale ottica costituzionalmente orientata l'ordinamento giuridico non
puo' tollerare che un diritto costituzionalmente garantito quale quello di
Welby alla sospensione delle cure sia ostacolato dalla malattia
invalidante e, in ossequio alla formulazione di cui tanto ci si vanta,
quella dell'articolo 2 della Costituzione, occorre "rimuovere l'ostacolo"
al compimento della propria scelta terapeutica.
Dunque una volta risolta positivamente la questione sul "se" interrompere
le cure, non sara' certo il "come" di ostacolo all'esercizio del suo
diritto.
E la condotta dell'aiutante non sara' inquadrata come aiuto a morire ma
come aiuto a sospendere il trattamento, a prescindere dal fatto (non
interessa perche' questione privata, di privacy, protetta dall'art. 8
della Convenzione Europea sui Diritti dell'Uomo) che da questo ne derivi
morte. Il caso Pretty su richiamato sancisce proprio questo.
Ma cosa succede se Welby non muore istantaneamente? E se nel passaggio
rischia la sofferenza? Si puo' intervenire attivamente con una iniezione
letale?
No, evidentemente, perche' cio' non e' diritto protetto di cui agli art.
13 e 32 Cost. ed e' stato negato alla Sig.ra Pretty un qualunque aiuto a
morire che non sia il mero aiuto alla sospensione al trattamento
terapeutico. Con l'iniezione si verterebbe, giuridicamente, in un atto di
disobbedienza civile.
La sedazione
Si puo' tuttavia ricorrere alla sedazione con l'uso di oppiacei concessi
dalla legge n. 12, 8 febbraio 2001, che introduce "Norme per agevolare
l'impiego dei farmaci nella terapia del dolore". Non sono mai state poste
in dubbio la piena legittimita' e la legalita' della sedazione, che e'
trattamento generalmente praticato per il recupero del paziente.
Tale sedazione e' legittima purche' non causi essa stessa la morte e
consentirebbe a Welby di dormire fino al trapasso e di non soffrire o
accorgersi dello stesso.
Naturalmente, tanto piu' tempo passa dalla sedazione alla morte, tanto
piu' si rischia di scivolare nell'inattualita' del consenso e nelle
ipotesi in cui si rende necessario il testamento biologico. Tuttavia,
nella chiave personalistica e in ottica di autodeterminazione, salvo lassi
di tempo eccessivi, la sedazione e' una modalita' terapeutica alla quale
Welby subordina -e con la quale esercita- il diritto alla sospensione
della respirazione. E' pertanto da leggere in chiave unitaria (un
trattamento unico con la sospensione della respirazione al di la' del dato
temporale concreto).
Se poi la sedazione o la morfina (per i tempi o le modalita' con cui sara'
effettuata) fossero idonee a causare la morte, il pubblico ministero avra'
l'onere della prova su cosa (fra il distacco della spina e la morfina)
abbia realmente cagionato la morte. Se non ne verra' a capo, si incorrera'
o nell' insufficienza di prove (530, secondo comma, Codice di procedura
penale) o nel reato impossibile. Come e' accaduto nel caso dell' ingegner
Forzatti, finito davanti alla Corte d'Assise d'Appello di Milano (21
giugno 2002) per aver staccato il respiratore artificiale della moglie poi
deceduta.
Critiche
Tale nuovo e recente orientamento ha il pregio (che ci auguriamo sia
sempre piu' riconosciuto dalla magistratura) di avere alle spalle una
lettura inconfutabile e rigorosa su come si riconduce ad unita' il
sistema, sulla applicazione delle regole di superamento del contrasto fra
norme:
- fonte superiore contra la fonte inferiore;
- legge speciale contra legge generale;
- legge sopravvenuta nel tempo (Costituzione contra codice Rocco).
Ha il difetto di incontrare le resistenze, di carattere prevalentemente
religioso-paternalistiche e autoritarie ancora tutt'altro che non superate
in giurisprudenza. Inoltre, risolvendo il contrasto fra norma
costituzionale e primaria, un giudice:
a) o compie l'opera ermeneutica come descritta non applicando al caso le
norme penali di cui agli articoli 579 e 580 c.p., o ritenendo escluso il
reato per l'esercizio del diritto di Welby (articolo 51 c.p.);
b) o applica direttamente, come potrebbe e dovrebbe, gli articoli 3 e 8
della Convenzione Europea sui Diritti dell'Uomo cosi' come interpretate
nella caso Pretty;
c) oppure dovra' sollevare la questione di legittimita' costituzionale
degli articoli dei codici penale e civile (aumentando, a mio avviso, le
probabilita' di conservatorismi e vecchie logiche
autoritario-paternalistiche), dilazionando la decisione nel tempo e
rischiando una pronuncia che metta fine, in positivo o in negativo, alla
questione risolvendo il contrasto.
Naturalmente in mezzo ai due orientamenti descritti c'e' tutta una zona
grigia e di cui fanno parte i giudici che decidono di non decidere (vedi
caso Englaro).
CONCLUSIONI
1. Sedazione e interruzione di alimentazione, idratazione e
respirazione artificiali:
Primo orientamento: si rischia reato omissivo dell'omicidio del
consenziente.
Secondo orientamento: assoluzione per esercizio del diritto
costituzionalmente garantito e inviolabile.
2. Eutanasia attiva, ovvero overdose letale di farmaci:
Condanna sicura, ovunque in Italia e in Europa, per omicidio del
consenziente.
3. Stacco respiratore e sedazione idonea a provocare morte immediata
per soffocamento:
Possibile assoluzione per insufficienza di prove e/o reato impossibile nel
caso non sia possibile accertare la causa della morte.
Condanna sicura per omicidio del consenziente se si accerta il nesso di
causalita' fra overdose di sedativi e evento morte.
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