Si parla di eutanasia e
aborto terapeutico, dividendo il campo tra difensori della dignità umana
e masochisti amanti della sofferenza. Eppure, non può essere il solo
dolore il termine di confronto. Lecito andare un po' più in profondità?
I temi della vita sono tornati al centro
della scena pubblica. Nell’arco di pochi giorni ci si è confrontati con
la posizione di Piergiorgio Welby sull’eutanasia e con l’appello del
papa contro l’aborto terapeutico (“Anche la vita handicappata – ha detto
- è altrettanto di valore e voluta da Dio”). Il termine e l’inizio della
vita di fronte alla sfida della sofferenza: situazioni complesse che
chiamano in gioco l’etica, ma anche diversi approcci culturali e
religiosi, le convinzioni di chi considera la vita un bene indisponibile
a prescindere, di chi pensa che in fondo è giusto porre fine alle
sofferenze e addirittura prevenirle prima della nascita, di chi mette al
primo posto il diritto di scegliere sempre e comunque.
In questo campo, le posizioni sono inconciliabili, eppure in molte
occasioni, oltre all’asprezza del confronto, c’è il rischio di arenarsi
su un problema di metodo. Quello di non far partire la discussione dalle
motivazioni profonde o dai grandi dilemmi etici, ma semplicemente dalla
sofferenza degli individui. Si crea un presupposto perverso, secondo cui
chi è contrario all’eutanasia o all’aborto terapeutico sia una persona
che in fondo ama il dolore proprio e altrui, sminuisca il disagio di un
malato terminale, gioisca all’idea di mettere al mondo, come spesso si
dice, un “infelice”. La conseguenza di tutto ciò è un Maurizio Costanzo
qualunque che nel suo programma pomeridiano, liquidando con sufficienza
le posizioni a difesa della vita, non sa usare altri argomenti se non la
frase: “Ma avete visto la sofferenza di quest’uomo?”.
Complimenti. Chi si aspettava un salto di qualità dialettica ancora una
volta è rimasto deluso. È un esempio come tanti, per ribadire
l’assurdità di certi pregiudizi, affibbiati soprattutto al
cattolicesimo, a questa Chiesa così retrograda che continua a difendere
imperterrita la vita di chi è inchiodato su un letto e, orrore, anche
“la vita handicappata”. Peccato che ci si ostini a non cogliere i veri
termini della questione. E cioè che la sofferenza è una sfida terribile
sia per un cristiano che per un ateo, così come è difficile accogliere
inizialmente un figlio malato. Tuttavia, è la prospettiva ad essere
diversa, perchè un credente sa che la malattia fa parte del mistero
della vita umana e pur sentendosi mancare il respiro, sa di confrontarsi
con un Dio che ha sofferto per primo.
In un contesto simile, la vita diventa il dono più prezioso da
difendere, perché c’è un senso ultimo o quantomeno la consapevolezza che
di fronte a qualcosa di grande si può solo fare un passo indietro. È la
stessa forza di chi magari non crede, ma riesce ad attaccarsi ugualmente
alla vita, trovando forza nell’affetto dei familiari, nella dignità di
una terapia contro il dolore, nella scelta ultima di rifiutare ogni
forma di accanimento terapeutico.
Dovrebbero essere questi i termini del confronto, senza dividere il
campo tra difensori della dignità umana e masochisti, amanti della
sofferenza fine a se stessa. Non è infatti questo il problema: più
importante chiedersi se è davvero una sciocchezza credere che la vita
meriti sempre di essere vissuta, anche quando non se ne coglie il senso.
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