Negli articoli di scienza giuridica spesso troviamo sostegno alle tesi
contrarie all'eutanasia come al suicidio assistito o persino alle
direttive anticipate di trattamento (testamento biologico) assumendo come
assioma che "la vita non è un bene disponibile". Nei manuali di
diritto, spesso lo si legge con frasi apodittiche e indiscutibili.
Ma cosa vuol dire intanto "bene disponibile"? E sulla base di quale norma
di diritto positivo certi giuristi affermano indisponibilità della vita?
Un bene o un diritto disponibile è, secondo il nostro
diritto civile, un diritto che ognuno di noi può vendere, alienare,
trasferire, cedere a qualunque titolo ecc…Al contrario un bene o diritto
indisponibile è ciò che non può esser validamente venduto,
alienato, trasferito, ceduto…o meglio, ciò che non può esser oggetto di un
contratto o di atto giuridicamente coercibile e vincolante. Naturalmente
nella vita reale, diversamente da quella giuridica, ognuno fa dei propri
beni e diritti indisponibili ciò che vuole, ma non riceverà alcuna tutela
giuridica da parte dell'ordinamento né da parte di alcun giudice. Ad
esempio, il diritto alle ferie è per il lavoratore un diritto
indisponibile, e in quanto tale non trattabile o barattabile con denaro
perché posto a tutela dell'integrità psico-fisica dello stesso. Ovviamente
se vuole lavorerà lo stesso, nessuno lo multerà o glielo impedirà con la
forza, ma ciò non potrà esser oggetto di accordo-contratto fra lui e il
datore di lavoro.
E' questo il senso dell'art. 5 del codice civile, invocato a
sostegno di chi nega la possibilità per ognuno di noi di decidere cosa
fare della propria vita e del proprio fine vita, o per chi nega la
possibilità che nel nostro ordinamento possa trovar spazio il testamento
biologico, tanto più se contenente disposizioni che accelerino la propria
fine. La presunta "impossibilità giuridica" si fonda spesso su questo
articolo : "Gli atti di disposizione del proprio corpo sono vietati
quando cagionino una diminuzione permanente della integrità fisica, o
quando siano altrimenti contrari alla legge, all'ordine pubblico o al buon
costume".
Poiché si verte in tema di diritto civile, ossia di diritto fra
i privati, detto divieto non è da leggersi quale "divieto!" come lo
sarebbe se contenuto nel codice penale o nel codice della strada, al quale
evidentemente seguirebbe chiara e tassativa la pena o la sanzione in caso
di inosservanza (cosa che qui manca, appunto in quanto norme che regolano
i contratti ed i rapporti fra privati). Detto divieto sancisce solo che
l'ordinamento non offre tutela giuridica, ossia che in caso di
inosservanza di un contratto che ha ad oggetto l'integrità fisica, non ne
imporrà l'attuazione coatta. In altre parole, se avrò venduto un
braccio per 3.000 euro non posso pretenderne l'adempimento ad opera della
giustizia, che riterrà la vendita nulla.
Quei giuristi che fondano, dunque, sul divieto di cui all'art. 5 codice
civile, le proprie teorie contrarie alla possibilità di rifiutare le cure,
di disporre per il futuro dei casi in cui vorrà rifiutarle ma non potrà
farlo, operano, ad avviso di chi scrive, una mistificazione giuridica di
scarsa onestà intellettuale. Ciò è ulteriormente avvalorato dal fatto che
detta norma, non solo è situata in un campo non idoneo ad un diritto quale
quello in oggetto, ossia il diritto alla scelta terapeutica, alla
libertà individuale, al divieto di trattamenti sanitari obbligatori,
che trova invece la sua sede naturale -nonché piena ed esaustiva tutela -
nella Costituzione (art. 13 e 32), ma che anche altre norme di pari
e di superiore rango individuano il soggetto quale "disponente" della
propria vita ed esistenza.
Si pensi infatti al diritto penale. Il tentato suicidio non è "reato". Ma
se così è, allora perché dovrebbe vietarsi "civilisticamente" ciò che
poi si autorizza penalmente e si tutela costituzionalmente?
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