Dal primo vescovo nel 1788 ai rapporti di oggi.
Nella giornata dell'incontro tra Bush e Benedetto XVI, un excursus nelle
relazioni tra Santa Sede e Stati Uniti: storia di oltre due secoli di
alti e bassi, fino allo scambio di ambasciatori nel 1984.
Era il 1788 quando
papa Pio VI nominò il gesuita John Carroll primo vescovo cattolico degli
Stati Uniti d'America. Il pontefice lo aveva scelto dopo aver preso
contatti con le nuove autorità dello Stato, attraverso il diplomatico
Benjamin Franklin. Secca la risposta del presidente George Washington:
Pio VI avrebbe potuto nominare qualunque vescovo, dal momento che la
rivoluzione americana faceva propria la libertà, a cominciare da quella
religiosa. E' il modello positivo di laicità che Benedetto XVI ha
ricordato ieri durante il suo viaggio, sebbene per molto tempo, la sfera
religiosa (della Chiesa) e quella diplomatica (della Santa Sede) siano
rimastre nettamente distinte.
Per avere uno scambio vero e proprio di ambasciatori si sarebbe dovuto
aspettare altri 196 anni, fino al 1984, con la decisione di Giovanni
Paolo II e del presidente Ronald Reagan di realizzare piene relazioni
diplomatiche. Uno stato di cose creatosi per ragioni di opportunità: da
una parte, lo status particolare della Chiesa cattolica, religione ma
anche organismo con una propria sovranità, dall'altra, la paura delle
amministrazioni americane di compromettere il rispetto di tutte le
confessioni, senza dimenticare le polemiche antipapiste che hanno
segnato parte della storia del Paese. Basti pensare che nel 1928, la
candidatura cattolica del Partito Democratico alle presidenziali (il
governatore di New York, Al Smith), fu bollata come papista, con lo
spettro degli Stati Uniti, governati addirittura dal Vaticano.
In ogni caso, i rapporti tra Usa e Santa Sede non si sono mai interrotti
e il papa ha avuto sempre la possibilità di un confronto con i
rappresentanti dei presidenti. Nel 1848, Jakob L. Martin diventò primo
chargé d'affaires alla Corte del papa, a cui seguì Lewis Cass
Jr. In questo clima, nel 1849, papa Pio IX fu il primo papa a mettere
piede sul suolo americano, ospite della fregata "USS Constitution", nei
pressi di Gaeta. Negli anni successivi, si registrarono fasi alterne:
nel 1867, il Congresso decise la sospensione dei finanziamenti alla
missione diplomatica a Roma, anche se la collaborazione non venne mai
meno.
Una situazione che si intensificò nel '900, specie sotto il presidente
Roosevelt che nel 1939 inviò in Vaticano un suo rappresentante
personale, Myron C. Taylor. Abile diplomatico e mediatore negli anni
della seconda guerra mondiale, Taylor rimase in carica fino al 1950,
sostituito poi dal generale Mark W. Clark, nominato dal nuovo presidente
Truman. L'idea era quella di conferire a Clark l'incarico di
ambasciatore straordinario e plenipotenziario, ma l'ipotesi fu
contestata dall'opinione pubblica e dalle altre confessioni religiose
presenti in America. Relazioni ufficiali con la Santa Sede, era il
ragionamento di molti, sarebbero state incoerenti con quanto sancisce la
costituzione, ovvero il divieto di "istituzionalizzare una religione".
Truman ricevette oltre mille lettere di protesta e tornò sui suoi passi:
nel 1952, Clark ritirò la sua candidatura e al suo posto non fu scelto
nessun altro. Con l'elezione del cattolico John Kennedy, nel 1961, la
questione tornò al centro dell'attenzione, ma anche in questo caso, il
presidente decise di non stabilire relazioni diplomatiche con la Santa
Sede, a tal punto da non inviare nemmeno un rappresentante americano
all'apertura del Concilio Vaticano II del 1962. Il clima cambiò con la
presidenza Nixon nel 1970 e la nomina di Henry Cabot Lodge, come inviato
speciale presso la Santa Sede: una linea confermata anche dal presidente
Carter.
Il successore repubblicano, Ronald Reagan, portò invece a compimento il
cammino iniziato nel 1788. Consapevole del ruolo della Santa Sede e,
soprattutto, di un papa polacco nel contesto della Guerra Fredda, nel
1984 il presidente optò per piene relazioni diplomatiche, nominando
William Wilson, suo amico personale, primo ambasciatore presso la Santa
Sede. La decisione suscitò forti polemiche, specie dai gruppi religiosi
protestanti, che impugnarono la decisione di fronte alla Corte federale.
La querela, tuttavia, fu respinta e la Corte confermò il diritto
costituzionale del presidente di prendere decisioni nel campo delle
relazioni internazionali.
Negli anni '80 i rapporti tra Santa Sede e Usa furono buoni, specie
nella fase di transizione legata alla crisi del comunismo e al nuovo
corso di Gorbaciov. Diversa l'atmosfera degli anni '90, a cominciare
dalla prima guerra in Iraq, condannata dal papa, fino ad arrivare agli
scontri con l'amministrazione Clinton, sulle politiche per la natalità.
Nel 1994, durante la Conferenza dell'Onu sulla popolazione e lo sviluppo
del Cairo, la Santa Sede guidò il fronte contro gli Stati Uniti che
rivendicava l'accesso generale all'interruzione di gravidanza per il
controllo delle nascite. Gli attentati dell'11 settembre 2001
rappresentano un ulteriore spartiacque: la Santa Sede fu vicina
all'America colpita nel proprio cuore, ma condannò senza mezzi termini
la guerra in Iraq del 2003. Oggi si assiste ad un fase di distensione,
anche se pesa l'incognita delle prossime presidenziali, da cui
dipenderanno in gran parte le scelte politiche e strategiche della
potenza americana per i prossimi anni.
Il 29 febbraio scorso, incontrando la nuova ambasciatrice presso la
Santa Sede, Mary Ann Glendon, il papa ha invitato gli Usa a diventare
esempio per le nazioni più giovani nell’ordine sociale. Oggi, aveva
detto, l’obiettivo della riconciliazione tra diversità, la visione
comune, la solidarietà dovuta alla maggiore interdipendenza tra i
popoli, sono alcune delle sfide che l’umanità deve affrontare. Ma è
certo che "il futuro dell’umanità non può dipendere solo da compromessi
politici". Per il pontefice è necessario un profondo consenso di base.
"Sono fiducioso che il vostro Paese, fondato sulla verità evidente che
il Creatore ha dotato ogni essere umano di alcuni diritti inalienabili –
spiegava il papa - continuerà a trovare nei principi della legge morale
comune" una "guida sicura per esercitare la sua leadership in seno alla
comunità internazionale". La richiesta è chiara: impegnarsi ad essere
guida "etica" nel consesso internazionale.
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