Atmosfera da metropoli occidentale nella seconda
città della Turchia: fast food e kebab, traffico e grandi testimonianze
di un passato storico. Fra i locali notturni e il gran bazar, la gente
sopporta i disagi e attende che tutto torni come prima.
Da uno dei nostri inviati a Istanbul.
ISTANBUL – Orgogliosamente indifferente, non solo al papa ma anche
a tutto ciò che gli sta attorno: la città spalmata su due continenti,
unica al mondo a poter vantare simile primato, non mostra interesse per
quanto le sta capitando. Più che altro sopporta, sapendo che l’ondata
passerà e arriverà presto il momento in cui i riflettori dei media
internazionali si spegneranno, facendola ripiombare nella sua consueta
normalità.
Forse non entrerà nell’Unione Europea, ma Istanbul è già oggi una città
europea, e non solo in senso geografico. Le banche e i ristoranti, i
fast food e gli uffici si alternano alle testimonianze storiche lasciate
dai fasti dell’impero bizantino prima e di quello ottomano poi: bellezze
artistiche che città di oggi – pur non riconoscendovisi affatto -
conserva con sincera fierezza. Fra le vie della Istanbul odierna c’è
poco dell’Islam ottomano e nulla del cristianesimo, ortodosso o
cattolico che sia: il processo di laicizzazione della società voluto
settant’anni fa dal fondatore della patria Kemal Ataturk (i suoi
ritratti abbondano nei luoghi strategici) ha dato frutti innegabili,
consegnandoci un popolo in cui l’indifferenza di fronte alla visita del
papa di Roma fa il paio con la bassa percentuale di cittadini che
frequentano i riti delle moschee. E di conseguenza, rimanda anche
alle difficoltà del visitatore che – abituato a pensare all’Islam
secondo le categorie del mondo arabo – si sorprende di fronte alle
ragazze che passeggiano per strada con i capelli sciolti e ai giovani
che sguaiati fanno la fila al McDonald’s quando ormai si è fatta
mezzanotte, poco prima di fare un salto al Live Night Show, il
locale dietro l'angolo dove a lavorare sono le ragazze provenienti dai
paesi dell'est europeo.
Una metropoli di diciassette milioni di abitanti non può non convivere
con il traffico, annoso problema a queste come ad altre latitudini:
quello di Istanbul è a suo modo regolare e ordinato, per nulla caotico,
perfino in giornate come queste, con strade bloccate e transenne a
volontà. Per le vie attraversate dal papa ci sono poliziotti ogni poche
decine di metri: passano ore intere ad osservare e chiacchierare, senza
fare molto altro. Servono certamente a scoraggiare gesti inconsulti da
parte di isolati contestatori, ma soprattutto sono parte di un
dispiegamento immane che somiglia molto ad una prova di forza voluta dal
governo, per nulla preoccupato di affiancare alla “sicurezza” anche la
“discrezione”. Non c’è traccia delle bandiere gialle e bianche (i colori
del Vaticano) protagoniste dell’atmosfera di altri viaggi papali, mentre
abbondano quelle rosse con la mezzaluna, a ricordare che il nazionalismo
è un tratto connaturato all’essenza stessa di questo paese.
Ma la gente di Istanbul fa finta di nulla: impegnata nelle attività di
ogni giorno, non ha tempo né voglia di curiosare, men che meno di
interessarsi a ciò che le accade intorno. La rete tranviaria e quella
funicolare – trasporti pubblici che farebbero invidia a molte delle
nostre città – pullulano delle facce pazienti di chi si reca al lavoro e
di chi si dirige verso il Gran bazar, come pure di quelle dei pescatori
che sui ponti che attraversano il Bosforo gettano le loro canne per
tirar su qualche pesce e poterlo cucinare chissà come.
E fra un kebab a pranzo e un mix di carne di pollo e manzo a cena, i
turisti che percorrono in lungo e in largo il centro storico, con la
solita, immancabile, inimitabile carica di giapponesi “armati” di
telecamere ad alta definizione. Loro principale obiettivo, una foto fra
Santa Sofia e la Moschea blu, le due grandi costruzioni che testimoniano
la grande influenza religiosa che un tempo caratterizzava questa città.
Struttura imponente la prima (basilica cristiana per mille anni a
partire da Costantino, poi moschea per cinquecento, infine semplice
museo per volere di Ataturk); edificio ancor più grande il secondo, con
quattro minareti e un ampio spazio interno per la preghiera. Visitare
questi due luoghi uno dopo l’altro significa passare dai flash sui
versetti del Corano posti accanto ai mosaici cristiani, agli scatti di
chi – dopo aver minuziosamente liberato i piedi dalle scarpe – immortala
l’inchino del devoto rivolto alla Mecca. Momenti che puoi trovare solo
qui dentro: per le strade laiche della Turchia, i pensieri sono altri.
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