Sette decenni di ferrea laicità, poi dalla metà
degli anni novanta il successo dei partiti dalla forte ispirazione
religiosa. Da Erbakan a Erdogan, la sfida di un Islam politico radicato
nell’amicizia con l’occidente.
Politica e religione, la Turchia come laboratorio storico di nuovi
equilibri. Lo è stata in passato, ottant’anni fa, con il processo di
laicizzazione portato avanti da Ataturk, il padre della Turchia, e lo è
oggi, con l’esperimento politico dell’AKP (il partito del premier
Ergodan uscito vincente dalle ultime elezioni del 2002), interessante
tentativo di conciliare l’Islam politico con un approccio
sostanzialmente filo-occidentale. C’è molto da esplorare nel modo di
porsi – ufficiale e non - della Turchia al mondo contemporaneo: un tema
che trova oggi spazio nell’ambito delle discussioni sollevate dal
viaggio del papa o dal processo di adesione del paese all’Unione
Europea, ma che ha significati intrinseci di grande rilevanza. Ad
iniziare dalle considerazioni che possono essere svolte riguardo al
progetto politico del premier Erdogan, che nel paese che fu di Ataturk
ha avviato un progetto fondato su un’appartenenza all’Islam che si
coniughi politicamente con il dialogo e il confronto con il mondo
occidentale. Un modello che “rischia” di fare proseliti anche in altri
paesi islamici e che non a caso è visto come fumo negli occhi da chi
propugna lo scontro totale fra Islam e Occidente.
Non si tratta della prima volta di un partito dalla forte ispirazione
religiosa al governo: successe già un decennio orsono, nel 1995, quando
le elezioni politiche furono vinte dal partito Refah (Benessere) di
Necmettin Erbakan. Un movimento di ispirazione sunnita, questo, la cui
affermazione metteva fine al periodo di forte instabilità seguito alla
morte di Turgut Ozal, l’uomo che per primo, all’inizio degli anni
ottanta, aveva interrotto la lunga scia di governi kemalisti, improntati
al rigido laicismo di stato voluto da Kemal Ataturk.
L’approccio di Erbakan, chiaramente anti-kemalista in politica interna e
severamente critico nei confronti di Stati Uniti e Israele in politica
estera, con rapporti ravvicinati con i “Fratelli musulmani” – non
conquistò il favore delle élites militari del paese, che il 28 febbraio
1997 misero in atto un colpo di stato. Non fu un sovvertimento totale,
perché Erbakan rimase alla guida del paese, venendo però costretto ad
emanare provvedimenti “correttivi” rispetto alle sue precedenti
decisioni. Fu così che furono promulgate leggi anti-religiose, con
l’arresto di numerosi leader di movimenti fondamentalisti, e lo stesso
partito Refah fu dichiarato fuori legge. Una serie di decisioni che non
ebbero però il sostegno delle masse popolari turche, sempre più
interessate a riportare con forza la religione nell’ambito pubblico.
E’ in questo contesto che emerge Recep Tayyip Erdogan, allora sindaco di
Istanbul: il suo partito Kalkinma (AKP, Giustizia e Sviluppo) si
presenta al voto con un programma politico in cui la shari’a è indicata
come orizzonte di ispirazione per una legislazione islamica e moderna (e
non come la fonte unica e diretta, come invece chiedevano i
fondamentalisti), e in cui anche in un’ottica di contrasto al terrorismo
si proponevano rapporti cordiali con gli Stati Uniti e l’adesione
formale del paese nell’Unione Europea. Il risultato va oltre le
previsioni: 34,2% dei voti (maggioranza relativa) e oltre il 50% dei
seggi parlamentari (maggioranza assoluta). Governare un paese come la
Turchia non è però affatto semplice, tanto meno se l’attualità
internazionale, dalla guerra in Iraq a quella in Libano, fornisce
materiale scottante su cui dividersi. L’esercito rimane alla finestra,
intenzionato a non perdere la sua influenza; gli altri movimenti
politici si riorganizzano, mentre monta la protesta contro l’Unione
Europea che procede con grande cautela nel percorso verso l’ingresso di
Ankara. La maggioranza della popolazione rimane contraria all’adesione
all’Ue, come pure manifesta la sua ostilità verso il viaggio del papa
giudicato colpevole di aver offeso l’Islam con l’ormai celebre discorso
all’università di Regensburg.
Erdogan tiene molto a presentarsi come un riformista, e non gli si può
negare infatti di aver accelerato il processo di liberalizzazione
richiesto dalla Ue e dal Fondo monetario internazionale. Ma se dal campo
economico-politico ci si sposta sul versante socio-religioso, il
giudizio potrebbe cambiare. La maggioranza di governo avrebbe voluto
leggi più "religiosamente orientate", che seppur in parte cassate
dalla Corte Suprema o il presidente Sezer hanno comunque ottenuto
qualche risultato: il divieto del consumo di bevande alcoliche e
l'aggiornamento dei testi scolastici ne sono un esempio. Certo è
comunque che finché l'esercito avrà in Turchia l'influenza che ricopre
adesso, ben difficilmente i principi di laicità su cui si basa il paese
potranno mutare.
Dal punto di vista occidentale l’AKP costituisce un unicum: quello di un
movimento radicato nell’Islam politico che si presenta come partito
democratico filo-occidentale. L’ostilità dei fondamentalisti islamici a
questo progetto è scontata: per l’occidente, invece, l’occasione di
costruire uno spazio per un dialogo franco con un Islam che è esso
stesso minacciato dal terrorismo internazionale legato ad Al Qaeda.
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