Una
vita segnata dai controlli. Quelli del Kgb effettuati a
vista e quelli dell’onnipresente comitato per la censura -
il Glavlit - che controllava gli scritti e ne stracciava
le pagine che non rispettavano il sistema, il Cremlino, il
Partito, la società. Praticamente non restavano che le
copertine vuote e senza alcunché di scritto. La sua vita
era trascorsa, all’inizio, in quel vecchio rione moscovita
noto come Zamoskvoreč’e. Vecchie palazzine, sgretolate e
cadenti. Portoni mai chiusi e carichi di una vernice
marrone che ogni anno veniva rinnovata e così gli strati
andavano a segnare gli anni del potere sovietico.
All’interno delle casupole appartamenti in coabitazione.
Con l’ingresso segnato da un tavoletta con su scritti I
numeri degli squilli che bisognava fare per avvertire gli
inquilini. Uno squillo per i Sidorov, due per i Rezin, tre
per gli Astafiev e quattro per i Druznivov che vivevano
nella stanza B1-93-46
Così scorreva la vita in quella Mosca con la donna che
portava il piccolo a spasso nella vicina Piazza Rossa
sussurrando: “Ecco, vedi laggiù quel monumento rosso, lì
riposa lo zio Lenin… Diadja Lenin”. Poi l’inizio della
scrittura. Gli scontri con il potere e con la censura. E
così il personaggio - critico letterario, pedagogista,
autore teatrale - era riuscito a pubblicare le sue prime
opere durante il regime stalinista. Subito bollato come
dissidente, era stato più volte censurato finendo per anni
sotto lo stretto controllo del Kgb. Nonostante la
radiazione dalla potente Unione degli scrittori sovietici,
con il conseguente veto alla pubblicazione di qualsiasi
scritto, continuava però a diffondere i suoi scritti
clandestinamente. Tutto battuto a macchina con l’uso della
carta carbone e poi, con la diffusione a mano. Una
gestione in proprio delle cose che andava scrivendo.
Ma questo fino, al 1985, quando il testo del suo lavoro
intitolato Angeli sulla punta di uno spillo finì
nelle mani del Kgb, durante una perquisizione in casa di
un amico. Arrestato, e minacciato di finire in un
manicomio criminale (perché il potere non accettava la
diversità intellettuale) fu salvato da una petizione
internazionale cui parteciparono intellettuali del calibro
di Bernard Malamud, Kurt Vonnegut, Arthur Miller, Elie
Wiesel. E fu solo grazie a queste pressioni che Gorbaciov
decise di lasciarlo andare. Riparò prima in Italia e poi
negli Usa, dove gli fu offerta la cattedra di Letteratura
russa all'Università della California. Ora arriva la
notizia della sua morte.
E così finisce la grande avventura di Jurij Druznikov,
scomparso a 75 anni nella sua casa di Davis, in
California, per le conseguenze di una grave polmonite.
Viveva negli Usa dal 1985 ed era conosciuto da noi
sopratutto per il suo romanzo Angeli sulla punta di uno
spillo, pubblicato da Barbera nel 2006, un lavoro
menzionato dall'Unesco come miglior romanzo in traduzione
nel 2001. Avevamo letto, soffrendo con lui, anche quei
suoi libri intitolati Il primo giorno del resto della
mia vita, la raccolta di racconti Là non è qua.
Ed ora, post mortem, veniamo a sapere tanti particolari
della sua incredibile vita sovietica. Escono pagine di
diario con Jurij che racconta: “A risolvere i problemi
della nostra vita moscovita ci pensò la Seconda Guerra
Mondiale. Nell’evacuazione ad Udmurtia (Votkinsk, Iževsk)
imparai a scavare le patate, ad andare a cavallo e a
portare i cavalli ad abbeverarsi, nonché a suonare il
buben (sorta di tamburino) in un’istituzione che si
chiamava “Casa per l’educazione artistica dei fanciulli”.
Per tutta la guerra portavo con me Mark Twain sotto forma
di Tom Sawyer e due edizioni belliche che erano giunte in
provincia: “Il libro del giovane agente segreto” e “Come
imparare rapidamente a guidare l’automobile”. Le
esplorazioni le facevo nel bosco alla ricerca di bacche e,
a causa della mancanza di una bussola, mi orientavo, come
diceva il libro, grazie al muschio sugli alberi. Da
automobile fungeva una sedia rotta a cui era stata
aggiunta la ruota di una carrozzina per bambini. Il
ricordo più chiaro è la fame, quanto sognavo una pagnotta
di pane nero che mi venisse data tutta per me da
mangiare!”
E ancora: “Alcuni dettagli di quell’epoca in seguito
rientrarono nel romanzo Il passaporto per ieri,
nel violinista di San Francisco, ma considerare
autobiografico questo romanzo scritto sul destino di tre
generazioni; significa semplificarne l’intero sistema
della visione artistica della realtà circostante e della
fantasia di uno scrittore a mero espediente letterario. A
partire dai dieci anni circa ho cominciato a riempire i
quaderni di scuola, uno dopo l’altro, di poesie a
imitazione di Lermontov. Perché proprio lui, tutt’ora non
lo capisco. Ma non è stato comunque inutile, perché una
volta cresciuto ho portato queste opere con me durante le
scampagnate: su di esse era facile far prendere fuoco alla
legna umida. A Mosca tornammo nel ’45. La nostra casa era
stata bombardata. Grazie ad una bustarella ci assegnarono
un appartamento che non esisteva. Per quindici anni
vivemmo occupando un cantuccio altrui. Portavo cenci
rattoppati, il cappotto della nonna rivoltato, del quale
mi vergognavo molto, ma un altro non ce l’avevo. Eppure
misi le mani su una proprietà particolare: una macchina
per scrivere tedesca Messerschmidt di prima della guerra
con le lettere dell’alfabeto russo appiccicatevi sopra.
Per un anno accantonai i soldi e la comprai, scassata, in
un negozio dell’usato, l’accomodai da me e non me ne
separai per metà della mia vita. Chissà perché, mi piaceva
studiare e lo facevo con ardore. Della prosa di Gogol’
ricordavo interi capitoli. Sapevo metà dell’Evgenij Onegin
a memoria, me la cavavo bene in matematica e fisica.
L’inglese l’imparai tramite la BBC: un mio
compagno di classe mise insieme un ricevitore a onde corte
e l’ascoltavamo per ore e ore. Dopo il liceo venni a
sapere che quel bravo artigiano era stato arrestato per
spionaggio: il suo vicino di casa gli aveva chiesto di
fabbricargli un ricevitore per ascoltare la radio estera,
ma si rivelò essere una spia. All’età di quindici anni
circa decisi di leggere tutti i classici, soprattutto
quelli occidentali”.
Prosegue: “Leggevo senza posa e non singole opere, bensì
intere raccolte, dal primo volume all’ultimo. Di fare
grandi viaggi non lo sognavo neppure, ma avevo sempre Jack
London sotto al cuscino. Poteva passarmi per la mente che
quarant’anni dopo mi sarebbe capitato di trascorrere una
parte significativa della mia vita nella California del
nord, non lontano dalla sua casa e dalla sua tomba a Glen
Ellen? Fin dall’infanzia mi è rimasta in mente questa
citazione da Jack London: “Meglio essere cenere che
polvere. Meglio che la mia scintilla avvampi spegnendosi
piuttosto che si spenga nel grigiore. Preferisco essere
una meteora che divampa piuttosto che un pianeta
eternamente dormiente. Il destino dell’uomo è di vivere,
non di esistere. Non ho intenzione di sprecare i miei
giorni al solo fine di prolungarli. Voglio cogliere il
tempo che mi è stato concesso”. Si chiude così la storia
di Jurij Druznikov. Ed anche questa è storia dell’Urss.
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