Incontriamo Amos Luzzato, presidente
emerito dell'Unione delle comunità ebraiche italiane. "Se
abbiamo bisogno di una legge - dice - questo vuol dire che la
società nel suo insieme non è ancora pronta a condannare
l’antisemitismo".
TORINO -
“L’Olocausto ha insegnato che quando la società isola una parte
di se stessa, poi perde il senso del limite”. Amos Luzzato,
presidente emerito dell’Ucei, nonostante gli anni che passano e
le sempre più numerose parole che si spendono sulla Shoah,
riesce sempre a colpire per la pacatezza del tono e la forza del
pensiero. A Torino per assistere alla presentazione della
ricerca su
“La deportazione dall’Italia nei campi di sterminio e di
concentramento nazisti”, realizzata da Aned e Università di
Torino con il sostegno della Compagnia di San Paolo, Luzzato fa
meditare con le sue riflessioni che cadono in un clima in cui
più che la memoria storica sembra regnare la confusione.
Cosa ne pensa di tutte le polemiche, sorte anche
all’interno della comunità ebraica, suscitate dalla legge
approvata l’altro giorno che prevede la condanna a 12 anni di
carcere per chi nega l’Olocausto?
“Negli scorsi giorni sono state dette cose inesatte,
una discussione male impostata su un progetto conosciuto solo a
grandissime linee e poi modificato. Il vero pericolo è che si
trasformi in una battaglia fumosa: non si è parlato realmente di
nulla e ci si è divisi, perdendo di vista il problema reale.
Peccato, perché è stata persa un’occasione importante. Speriamo
di recuperare”.
Ma che valore ha o può avere una legge di questo tipo?
“Ci sono dei momenti in cui è necessario fare leggi che
prevengano la mobilitazione delle forze peggiori della società,
ma se abbiamo bisogno di una legge questo vuol dire che la
società nel suo insieme non è ancora pronta a condannare
l’antisemitismo: di fronte a certe cose, ci dovrebbe essere un
sussulto di tutto il paese, immediato e fisiologico. Io non sono
contrario in principio a una legge, ma il rischio è di scivolare
sull’altro crinale, la censura che impedisce la libera
circolazione delle idee”.
In Germania succede la stessa cosa?
“Qualche tempo fa ero a Berlino: era prevista una
manifestazione naziskin e una contromanifestazione antinaziskin.
La polizia era tutta mobilitata per mantenere i due cortei
separati, ma non ce n’è stato alcun bisogno: oltre 100.000
persone hanno partecipato a quello antifascista, poche centinaia
a quella naziskin. Con mia piacevole sorpresa, ho assistito alla
nascita di una nuova Germania: questo significa essere capaci o
meno di fare i conti con il proprio passato”.
L’Italia invece non è ancora stata in grado di farlo?
“Noi ci siamo troppo adagiati lungo il percorso. Non è
vero che l’Italia non è stata toccata da quello che da alcuni
storici è stato definito il “cono d’ombra” della Shoah, e i
pericoli di questa mancanza di consapevolezza stanno ora
serpeggiando nella società: si sta assistendo ad una
deformazione dei fatti del passato”.
Su quali basi si sta costruendo allora la società del
futuro?
“Prima bisogna porsi la domanda: cosa sta succedendo
oggi? Perché altrimenti domani potremmo trovarci davanti alla
responsabilità di non aver preso misure affinché certe
situazioni non si ripetano più. Abbiamo il dovere di cercare di
capire se l’uso dell’antisemitismo come strumento nella lotta
politica attuale è ancora presente, e se pertanto esiste un
allarme reale davanti al quale dobbiamo mobilitare le coscienze
dei giovani e le forze democratiche”.
Se guardiamo per esempio alla linea politica dell’Iran,
la risposta parrebbe essere affermativa.
“In realtà, la domanda da porsi è di tipo politico:
perché il negazionismo è usato come strumento politico proprio
oggi e proprio a Teheran? La nostra analisi deve rivolgersi al
piano internazionale, dove ancora una volta l’incitazione contro
gli ebrei può diventare un modo per contarsi e mobilitarsi. Ma
il vero problema è un altro: un mondo ricco contrapposto ad un
altro povero. Non dobbiamo risolverlo cercando capri espiatori
di comodo ma con un’equa allocazione delle risorse. Risolverli
con l’estremismo religioso di qualunque tipo, come si sta invece
succedendo, non è confortante per noi anziani: che mondo ci
stiamo lasciando alle spalle?”
Eppure i giovani sembrano proprio i primi non solo a non
ricordare, ma nemmeno a sapere…
“Infatti il primo problema è la scuola: si deve stendere un velo
pietoso sull’insegnamento della storia in Italia, soprattutto
quella del Novecento. È un paradosso, perché noi siamo figli del
’22, del ’38, del biennio ‘43-’45. Ci sono persino docenti
negazionisti nelle università, dove dovrebbe risiedere il grado
più alto del sapere. Ma non mi stupisce, visto che io ho dovuto
organizzare un dibattito per spiegare ad uno dei più importanti
uomini poltici italiani che Mussolini non organizzava vacanze in
alberghi di lusso per i suoi oppositori”.
Che senso ha in questo contesto la Giornata della
Memoria?
“È proprio un appello ai giovani, a cui si può “chiedere” solo
in misura in cui si contestualizza L’altro giorno ero al
Quirinale, c’erano parecchie scolaresche attente, emozionate…
lasciavano ben sperare, anche se devo dire che gli anni passati
ho visto produzioni teatrali, pittoriche e poetiche più
originali. Ma chissà, forse è stata solo l’annata un po’ così…”
Archivio Giornata della Memoria
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