Furono oltre 37.000 gli italiani deportati nei campi di concentramento nazisti: non solo ebrei
ma anche antifascisti, operai, carcerati, militari, cittadini di origine
slava. Una ricerca presentata a Torino ricostruisce il loro dramma.
Furono oltre 37.000 gli italiani deportati nei campi di concentramento nazisti: non solo ebrei ma anche
antifascisti, operai, carcerati, militari, cittadini di origine slava.
Schedati e trasferiti da un lager all’altro per soddisfare le esigenze
produttive di una Germania ormai allo stremo dello sforzo bellico, con
la complicità, spesso tuttora negata, dello Stato italiano e salodiano.
Ora le loro storie, rigorosamente documentate con nomi e cognomi e gli
spesso tragici percorsi esistenziali, sono state raccolte e studiate
nella ricerca “La deportazione dall’Italia nei campi di sterminio e
concentramento nazisti”. Realizzato da un gruppo di ricercatori
coordinati dagli storici Nicola Tranfaglia e Brunello Mantelli in
collaborazione con Aned, Università di Torino e con il sostegno
economico della Compagnia di San Paolo, lo studio, che sarà pubblicato a
settembre da Mursia in diversi volumi, è di rilevanza mondiale.
“Si tratta della prima ricerca a livello europeo e dunque mondiale,
visto il tema trattato, di ricostruzione della storia di un’intera
deportazione”, ha spiegato Tranfaglia presentando il lavoro al Museo
della Resistenza di Torino. Per la prima volta, infatti, è stata
compiuta una ricerca sistematica su ogni singolo deportato, con una
metodologia nuova che incrocia sia i dati presenti negli archivi
italiani con quelli dei centri di documentazione esteri (tra cui i musei
dei lager, i Gedenkstätten), sia i deportati per motivi razziali con
quelli per ragioni politiche. Cinque anni di lavoro, infatti, sono stati
necessari per arrivare alla catalogazione completa di tutti i deportati
italiani e all’analisi dei dati, che ha dato risultati molto
interessanti. Spiega Tranfaglia: “Abbiamo cercato di rispondere alla
domanda: il lavoro dei deportati aveva un significato economico oppure
no? Che incidenza aveva appartenere ad una categoria sociale piuttosto
che a un’altra? E qual è stato il contributo di ogni singola regione
italiana alla deportazione?”.
Dei 37.665 deportati, l’84% sono uomini e il 55% sono operai e
artigiani. Oltre 21.000, invece, sono oppositori politici ed
antifascisti, ma ci sono anche 781 prigionieri di guerra, ovvero
italiani che dopo il 25 luglio 1943 furono catturati dall’esercito
tedesco che da alleato era diventato nemico, poi 214 carcerati per reati
comuni e 211 emigrati prima della guerra in Germania a cui dopo il ’43
fu interdetto il rimpatrio. Solo 599 sono registrati esclusivamente come
“Jude”, ebreo (Primo Levi, per esempio, era anche nella categoria degli
antifascisti): dei circa 10.000 ebrei rastrellati e portati in Germania,
la stragrande maggioranza non veniva nemmeno registrata all’ingresso dei
lager, perché veniva immediatamente gassata.
A pagare il prezzo più alto fu il Nord Est con il 24,3% dei deportati,
sottoposto tra il 1943 e il 1945 al controllo diretto della Germania, ma
tutta Italia, Sud e isole comprese, pagò il suo tributo alle esigenze
produttive del Terzo Reich che, ormai allo stremo delle forze per lo
sforzo bellico, aveva sempre più bisogno di manodopera per la sua
industria militare. Nelle grandi città industriali come Milano e Torino,
infatti, furono gli operai le vittime designate: una logica razionale
capovolta nei suoi fini ma non per questo meno lucida, come dimostra la
creazione dell’immenso data base costituito dalle schede perforate
Hollerith dell’Ibm, con cui veniva gestita l’allocazione della
“manodopera” nei lager dall’Ufficio centrale di economia e
amministrazione delle Ss, guidato da Oswald Pohl. “Si rivela anche il
nesso tra fascismo del ventennio, la resistenza e la deportazione – ha
sottolineato Mantelli – Analizzando le date di nascita degli schedati
nel Casellario Politico Centrale, la percentuale totale dei deportati
nati tra il 1850 e il 1910, quindi politicamente attivi già sotto il
regime fascista, sale al 4,2%”. I rastrellamenti tedeschi furono 923, di
cui il 31,3% svolti con la collaborazione di reparti militari e di
polizia della Repubblica di Salò. In questo caso, però, “era più facile
incorrere nella morte immediata: i salodiani infatti uccidono subito,
quelli tedeschi no perché deportano”, ha aggiunto Mantelli.
Al di là dei dati, però, quello che emerge è la misura in cui anche
l’Italia è stata direttamente coinvolta, attrice partecipe e non solo
spettatrice, della Shoah: “Gli italiani hanno sempre considerato la
Shoah come un fenomeno che non li ha mai riguardati – ha commentato
Tranfaglia – corroborando la tesi di De Felice secondo cui il nostro
paese è sempre rimasto fuori dal “cono d’ombra” della deportazione.
Questa ricerca, quindi, assume anche un profondo valore civico, in un
momento in cui un revisionismo da salotto e un negazionismo becero
mettono in dubbio il lavoro di studiosi che per anni hanno raccolto
documenti e testimonianze sul massacro sistematico degli ebrei”. Non
basta e non serve certo una legge per imporne il rispetto e tutelarne la
memoria: “È pur vero che si tratta di un progetto di legge europeo, ma
il testo di cui si era parlato non corrisponde quello che è stato
votato. Il problema però è un altro: le leggi non dovrebbero intervenire
in questo campo, ma dovrebbe esserci una coscienza civile che da sola
faccia da argine a certe prese di posizione”.
Archivio Giornata della Memoria
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