Sessantatre anni per avere un po’ di giustizia. Proclamata per
colpevoli contumaci, dal valore ormai solo morale e
neppure del tutto esauriente. Qualcosa di importante,
però, per ribadire i valori della Resistenza sui quali è
stata costruita la nostra democrazia. E sottolineare,
ancora una volta, la profonda abiezione morale verso la
dottrina nazista e le sue atrocità, sentimenti robusti che
comunque non hanno bisogno di camere di consiglio per
essere valutati. E’ finito con dieci condanne e sette
assoluzioni il processo, celebrato davanti al Tribunale
Militare di La Spezia, a 17 ex ufficiali nazisti, tutti
ultraottantenni e contumaci, per l’eccidio di Monte Sole,
o strage di Marzabotto come viene ricordata dal maggiore
dei comuni colpiti, la sanguinaria rappresaglia eseguita
dalle truppe naziste in Italia tra il 29 settembre e il 5
ottobre 1944, per far “tabula rasa” dei partigiani. Fra i
caduti, 95 avevano meno di sedici anni, 110 ne avevano
meno di dieci, 22 meno di due anni, 8 di un anno e
quindici meno di un anno. Il più giovane si chiamava
Walter Cardi: era nato da due settimane.
Era il 1944: il feldmaresciallo Albert Kesselring,
scoperto che a Marzabotto agiva con successo il gruppo
della Stella Rossa, decise di infliggere un duro colpo
all’organizzazione, che riceveva l’appoggio e la
collaborazione di numerosi civili. Già in precedenza
Marzabotto aveva subito rappresaglie, ma mai così
drammatiche come quella di quell’autunno di fine guerra.
Capo dell'operazione fu nominato Walter Reder (nella foto,
ndr), il cosiddetto “monco” per aver perso un braccio sul
fronte, capo del 16a battaglione Ss della 16,Ss-Freiwilligen-Panzergrenadier-Division
'Reichsfuhrer SS', già noto per la strage di S. Anna e
sospettato a suo tempo di essere uno tra gli assassini del
cancelliere austriaco Engelbert Dollfuss.
La mattina del 29 settembre, prima di muovere all’attacco
dei partigiani, quattro reparti delle truppe naziste,
comprendenti sia Ss che soldati della Wermacht,
accerchiarono e rastrellarono una vasta area di territorio
compresa tra le valli del Setta e del Reno, utilizzando
anche armamenti pesanti. Quindi, presero ad assalire e
razziare le abitazioni, le cascine, le scuole, facendo
terra bruciata di tutto ciò che incontravano sul cammino.
Nella frazione di Casaglia di Monte Sole, la popolazione
atterrita si rifugiò nella chiesa, raccogliendosi in
preghiera. Ma i tedeschi fecero irruzione, uccidendo con
una raffica di mitragliatrice il prete, don Ubaldo
Marchioni, e tre anziani. Le altre persone, nascoste nel
cimitero, furono mitragliate: 147 vittime, tra le quali 50
bambini. Fu solo l'inizio della strage . Ogni località,
ogni frazione, ogni casolare fu setacciato dai soldati
nazisti e non fu risparmiato nessuno. Dopo sei giorni di
rastrellamenti e violenze il bilancio delle vittime era
cresciuto spaventosamente: 770 morti. Al termine della
guerra Walter Reder fu processato e nel 1951 condannato
all'ergastolo, ma in seguito graziato su intercessione del
governo austriaco. E tutti pensarono che fosse finita lì,
che giustizia non sarebbe mai stata fatta.
Nel 2002 le indagini sulla strage di Marzabotto furono
inaspettatamente riaperte: si scoprì che ex ufficiali e
sottufficiali delle Ss che avevano preso parte all’eccidio
erano ancora vivi. Fino a quel momento i loro nomi erano
rimasti in un archivio del Tribunale Militare di Roma
scoperto casualmente durante le indagini sulla strage
delle Fosse Ardeatine. Il pm che ha condotto l’inchiesta,
Marco De Polis, li ha rintracciati durante una istruttoria
partita dai fascicoli “dell’armadio della vergogna” di
Palazzo Celsi a Roma e poi sviluppata fino, appunto, al
2002. Tra i nomi ritrovati quelli del sergente Albert
Meier, 79 anni, di Essen, del sergente Albert
Piepenschneider, 78 anni, di Braunschweig, del caporale
Franz Stockinger, di Mauth Heinrichsbrunn. I tre
sottoufficiali furono individuati e intervistati dalla
televisione pubblica Ard, ma almeno due dichiararono di
non ricordare nulla. Sia la procura militare della Spezia
che quella tedesca di Ludwigsburg aprirono dei fascicoli
d'inchiesta.
Quello sulla strage di Marzabotto è stato senz’altro un
processo simbolico anche molto difficile sul piano
investigativo, tecnico e procedurale, condotto in porto
con ostinazione e coraggio dal pubblico ministero e grazie
alla collaborazione di un pool investigativo infaticabile
di carabinieri. L'indagine su Marzabotto ha infatti
richiesto numerosi anni, a fronte della mole di documenti
da esaminare e catalogare. L'equipe del procuratore De
Paolis ha indagato complessivamente su 500 nominativi.
Alla fine sono stati individuati 22 imputati
ultraottantenni, un elenco che, per decessi e stralci, si
è poi ridotto a 17. Nessuno di loro oggi era in aula alla
Spezia. C’erano invece tanti familiari ed alcuni
superstiti delle stragi che vanno sotto il nome di
Marzabotto; c'erano le istituzioni (Regione Emilia
Romagna, Provincia di Bologna, Comuni di Marzabotto,
Grizzana Morandi e Monzuno); c'erano i ragazzi della
Scuola di pace di Montesole, il parco che è stato
istituito dalla Regione Emilia Romagna come luogo della
memoria; c'era soprattutto la speranza, di tutti, che
questo processo (''non alla Storia - come ha sottolineato
l'avvocato di parte civile per la Regione Emilia, Giuseppe
Giampaolo, - ma alla microstoria dei carnefici'') possa
contribuire alla costruzione della cultura del rispetto
dei diritti altrui.
Durante il processo sono stati ricostruiti i movimenti dei
tedeschi che portarono alla strage del 29 settembre 1944,
la tragica tappa finale di una “marcia della morte” che
era iniziata in Versilia. L’esercito alleato, si legge nel
dossier di Arrigo Petacco sul portale della guerra di
liberazione mostrato in aula, indugiava davanti alla Linea
Gotica e il maresciallo Albert Kesserling, per proteggersi
dall’ “incubo” dei partigiani, aveva ordinato di fare
terra bruciata alle sue spalle. Kesserling fu il mandante
di una strage che nessun’altra superò per dimensioni e per
ferocia. L'esecutore, si è già detto, si chiamava Walter
Reder; Kesserling lo aveva scelto perchè era considerato
uno "specialista" in materia. In Lunigiana si erano uniti
alle SS anche elementi delle Brigate nere di Carrara e,
con l'aiuto dei collaborazionisti in camicia nera, Reder
continuò a seminare morte. Gragnola, Monzone, Santa Lucia,
Vinca: fu un susseguirsi di stragi immotivate. Nella zona
non c'erano partigiani: lo dirà anche la sentenza di
condanna di Reder: "Non c'erano combattenti. Nei dirupi
intorno al paese c'era soltanto povera gente
terrorizzata...". A fine settembre, "il monco"si spinse in
Emilia ai piedi del monte Sole, dove si trovava la brigata
partigiana Stella Rossa. Per tre giorni, a Marzabotto,
Grizzana e Vado di Monzuno, Reder compì la più tremenda
delle sue rappresaglie. Nella frazione di Castellano fu
uccisa una donna coi suoi sette figli, a Tagliadazza
furono fucilati undici donne e otto bambini, a Caprara
vennero rastrellati e uccisi 108 abitanti compresa
l’intera famiglia di Antonio Tonelli (15 componenti di cui
10 bambini). A Marzabotto furono anche distrutti 800
appartamenti, una cartiera, un risificio, quindici strade,
sette ponti, cinque scuole, undici cimiteri, nove chiese e
cinque oratori.
Infine, la morte nascosta: prima di andarsene Reder fece
disseminare il territorio di mine che continuarono a
uccidere fino al 1966 altre 55 persone. Complessivamente,
le vittime di Marzabotto, Grizzano e Vado di Monzuno
furono 1.830. Dopo la liberazione Reder, che era riuscito
a raggiungere la Baviera, fu catturato dagli americani.
Estradato in Italia, fu processato dal tribunale militare
di Bologna e condannato all’ergastolo. Dopo molti anni
trascorsi nel carcere di Gaeta, fu graziato. Morì pochi
anni dopo in Austria senza mai essere sfiorato dal
rimorso.
Sempre nel corso del processo, uno degli imputati, il
comandante di plotone Kusterer, ha inviato ai magistrati
una lettera per proclamarsi innocente e il suo avvocato,
uno a cui piacciono le provocazioni, ha portato a sua
volta in aula una foto di Papa Ratzinger con la divisa
tedesca: “Se basta essere appartenuti alla Gioventù
hitleriana per essere ritenuti corresponsabili delle
stragi naziste – ha arringato i giudici – allora dobbiamo
processare anche Papa Ratzinger e Gunter Grass”. Il
giudice, dopo qualche battibecco, quella foto gliel’ha
fatta rimettere in tasca rapidamente.
Un episodio, certo. Che tuttavia rende l’idea del clima in
cui si è celebrato questo processo, nonostante i sessant’anni
trascorsi “dall’epoca dei fatti”. E dimostra – se fosse
ancora necessario – che il tempo può trascorrere, che la
giustizia, alla fine, può diventare anche solo simbolica e
morale, ma l’arroganza e la ferocia dei nazisti di ieri
non ha perso smalto. Ci si può chiedere, ancora oggi,
quale ragione li abbia mossi a Marzabotto a mettere in
atto la più agghiacciante delle stragi che non ha
risparmiato 216 bambini, neonati inclusi. E la risposta è
banale, come troppo spesso lo è il male assoluto; le Ss
sapevano, come gli italiani, che la guerra era perduta, ma
non potevano dirlo. Si sono limitati a scatenare verso i
nostri connazionali l’odio più feroce. E per sessant’anni
l’hanno pure fatta franca. Fino a ieri.
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