In Italia è boom della
divulgazione Ma nemmeno le polemiche intorno ai casi Pansa e Bocca si
trasformano in attenzione verso ciò che hanno da dire gli addetti ai lavori,
troppo spesso rinchiusi nelle loro torri d’avorio
A quanto sembra, l'Italia sta dividendosi in pansisti e bocchisti: i due
bestseller, rispettivamente appunto di Pansa e di Bocca, dedicati all'Italia
della Resistenza e dell'immediato dopoguerra stanno non solo spopolando
nelle librerie ma anche riaccendendo polemiche d'un tipo che speravamo di
esserci lasciati alle spalle. E via con i soliti tormentoni: il fascismo e
l'antifascismo, il contributo partigiano alla «guerra di liberazione», il
carattere moralmente condannabile o accettabile, se non onorabile, della
scelta di quanti finirono con la Repubblica sociale italiana. Francamente,
si tratta di questioni arcinote e ormai stantie.
Una polemica dello stesso tipo di quella odierna s'impiantò quando videro la
luce i libri di Carlo Mazzantini, che raccontava - e giustificava: nel senso
che contribuiva a chiarire e a far capire - per quali ragioni un bravo e
onesto adolescente allevato nel clima del fascismo aveva potuto nel '43
sceglie re Salò, «per l'onore», davanti allo spettacolo del re in fuga,
della vergogna e del caos generale. Poi c'erano state le esternazioni di
Giorgio Albertazzi e di Dario Fo, anch'essi «repubblichini confessi» sia pur
con differenti motivazioni: e, anche lì, si sollevò un discreto polverone.
In tutti questi casi, tuttavia, brillavano per la loro assenza (e non per
colpa loro) gli storici di professione, i docenti universitari: che, per
quanto politicamente allineati - con poche eccezioni, militavano nelle
sinistre (cattolica, laica o comunista) o le fiancheggiavano - avrebbero
dovuto esser comunque ascoltati per primi.
Fece a suo tempo scalpore la testimonianza d'un grande contemporaneista,
Roberto Vivarelli, anch'egli ex ragazzo di Salò; ma era appunto un
professore, un addetto ai lavori: che noia, e tutto finì lì. L'opinione
pubblica italiana, vale a dire la società civile, non aveva alcun interesse
per il lavoro degli storici: stava a sentire solo i politici e i
giornalisti. Oggi l'informazione è quantitativamente più diffusa ma, sott! o
il pro filo qualitativo, addirittura peggiorata. La gente continua non solo
a leggere pochi libri e a non saperli scegliere, ma ormai dà ascolto quasi
soltanto a pochi anchorman televisivi, di solito biecamente indirizzati
sotto il profilo politico e interessati a far emergere solo alcune «verità»
celandone altre nonché abbastanza disinformati riguardo a chi siano gli
autentici specialisti delle cose che trattano.
Tra gli anni Cinquanta e i Sessanta, chi scrive è stato un ragazzo del Msi.
Fu un'esperienza pulita: avevo tredici anni al tempo di Trieste italiana,
sedici quando nel '56 gli ungheresi insorsero contro il gigante sovietico.
Di famiglia cristiana e socialista, m'iscrissi al Msi soprattutto perché
nauseato della viltà dei «moderati» e dei «benpensanti» che nascondendosi
dietro alla loro pelosa virtù democratica lasciavano massacrare gli
ungheresi. Uscii da quel partito nel '65, deluso, perché mi ero reso conto
che non riusciva ad articolare un autentico discorso politico ri spetto al
mondo attuale: l'attività principale era l'elaborazione del lutto
repubblichino. Ebbene: già allora noialtri ragazzi missini avevamo letto e
riletto gli articoli e i libri di Giorgio Pisanò, forse giornalista mediocre
e personaggio ambiguo, ma che tuttavia aveva con certosina pazienza raccolto
più o meno tutto il materiale che oggi Pansa ripropone. Chi non voleva
voltarsi dall'altra parte e far la politica dello struzzo, sapeva. Ma
politici e mass media facevano quadrato e imponevano silenzio. E la
storiografia universitaria si trincerava dietro l'alibi dell'«ininfluenza»
di certi episodi rispetto al «generale giudizio critico» da fornire su
quegli anni e quegli eventi. Le donne rasate a zero e violentate, i ragazzi
ammazzati, i campi di concentramento come quello di Coltano - dove fu tenuto
chiuso anche Ezra Pound -, le sevizie e le torture, la gente che continuava
a sparire ancora nel '47, la ripugnante spirale della vendetta: tutto era
ininfluente. Per i vinti n on c'erano né giustizia, né misericordia, né
memoria. E non è perché avessero torto, come magari avevano: ma perché erano
vinti. Punto e basta.
Il punto è quindi l'arroganza e la malafede dei detentori del potere
dell'informazione da una parte; l'inadeguatezza, la viltà e la scarsa
visibilità degli storici seri dall'altra; l'ignoranza e la leggerezza
dell'opinione pubblica da un'altra ancora. Rimedi? Carta stampata e tv
dovrebbero imparare a lasciar perdere le solite primedonne, e far invece lo
sforzo di rintracciare gli studiosi di professione, che stanno nelle
università e sono pagati dal popolo per fare ricerca scientifica come
servizio pubblico. Ed essi dovrebbero dal canto loro imparare una buona
volta a far quello che piuttosto bene fanno per esempio i loro colleghi
americani, inglesi e francesi: cioè a non parlarsi soltanto fra loro, ma a
comunicare in modo semplice e diretto con la gente. Solo così potremmo
creare una divulgazione storica in grado di funger da filo diretto tra la
ricerca scientifica e l'opinione pubblica.
Franco Cardini
Fonte: www.avvenire.it
27.10.06
Archivio Storia
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