C’è chi sogna di andare in nazionale e c’è chi
invece lo rifiuta: storie di calciatori che declinano la convocazione,
in un calcio sempre più a portata di club e sempre meno attento alle
squadre nazionali.
C’è chi dice no, e
tocca stare al gioco. Il loro gioco. Alessandro Nesta e Francesco Totti
rinunciano alla nazionale, il primo (pare) definitivamente, il secondo
(sembra) provvisoriamente, e la loro decisione riporta in primo piano il
tema un po’ romantico e un po’ datato del rapporto con la maglia
azzurra. Un tempo era considerata il traguardo di una vita, la meta
massima per un giocatore di calcio: chi ne era escluso covava la
delusione, a chi era concessa non restava che gioire: considerazioni che
si sprecano ormai da anni, come pure quelle che sottolineano l’orgoglio
che si provava nell’essere chiamati a rappresentare il proprio paese.
Certamente, oggi molto è cambiato: il calcio ruota soprattutto intorno
ai campionati di calcio e alle competizioni internazionali per club, e
le nazionali riescono ad elettrizzare solamente nel corso delle fasi
finali dei tornei continentali e dei campionati mondiali. Quando ci
riescono, beninteso. Il resto ruota tutto attorno alla forza (e alla
prepotenza) dei club e dei loro interessi, che calpestano senza tanti
complimenti le legittime aspettative dei commissari tecnici e forse
anche della federazione. I calendari calcistici sono stilati senza
prestare troppa attenzione alle esigenze della nazionale e le società di
calcio individuano nelle partite in maglia azzurra più dei pericoli che
delle opportunità: per un club un calciatore è anzitutto un patrimonio,
pagato a peso d’oro o quasi, e vederlo andare al tappeto a causa di un
infortunio in azzurro è visto come una sventura. Chi risarcisce il club
per il danno economico subito?
Naturalmente, ogni medaglia ha due facce, e il valore di un calciatore è
tanto più alto quanto più egli si è saputo fare onore con la maglia
della propria nazionale. Ma al giorno d’oggi, il cammino in nazionale è
fatto di brevi e intensi momenti di attenzione globale (le fasi finali
di europei e mondiali) seguiti da lunghi e noiosi intervalli (le fasi di
qualificazione e le gare amichevoli): troppo facile dunque esserci ai
primi e disertare i secondi, quando diventano più una noia che un onore.
In fin dei conti, meglio un giocatore motivato che uno a mezzo servizio,
che saltella per il campo senza affondare neppure un contrasto per paura
di farsi male. Però, almeno una regola andrebbe imposta: o dentro o
fuori. Una nazionale di calcio non è solamente l’insieme dei giocatori
più forti: è una squadra, un collettivo, un gioco, una mentalità, una
consapevolezza di gruppo. Serve a poco mettere dentro i più bravi, se
ognuno gioca per suo conto: sarà pure cambiato, ma il calcio resta
ancora (fino a prova contraria) un gioco di squadra. Dunque,
fondamentale è anche il rapporto fra tecnico e giocatori, il clima,
l’intesa, la lealtà reciproca. E allora forse sarebbe saggio non
mostrarsi disponibili ad andare appresso alle esigenze di ciascuno (oggi
posso, domani non posso, dopodomani forse), per quanto ragionevoli
essere possano essere: alla lunga rendono ingovernabile la situazione.
Che in maglia azzurra nessuno avesse il posto assicurato lo si è sempre
saputo. Ma che nessuno abbia la facoltà di entrarne e uscirne a suo uso
e consumo, quasi fosse il bar all'angolo sotto casa, sarebbe altrettanto
utile puntualizzarlo.
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