Chiunque ricordi i più recenti fatti riguardanti gli episodi di turbativa
dell’ordine pubblico provenienti dal mondo del calcio dagli incidenti di
Avellino del 2003, provocati dalla reazione alla morte di un giovane
napoletano, non può non rimanere impressionato da alcuni caratteri di
guerriglia urbana presenti in questi fenomeni. Aggressioni di massa alle
forze dell’ordine, blocchi stradali, ferroviari, navali, c0rtei notturni con
incidenti programmati e questo per parlare solamente degli episodi di
rilievo che da Avellino a Catania, passando per Firenze o Genova o Messina,
sono circolati impetuosamente sui circuiti delle notizie.
E si tratta di episodi che non hanno riguardato solamente l’area dello
stadio, come a Catania ed Avellino, ma si sono diffusi esportando disordini
su diversi canali del territorio urbano.
Questo fenomeno, legato sia a dinamiche conflittuali tra gruppi, quando
esplode allo stadio, che, negli altri casi, alla necessità di far valere il
peso simbolico della tifoseria in vicende amministrative e disciplinari
della squadra, ha caratteri permanenti. Nel senso che ha fasi culminanti,
spettacolari e visibili il cui ritorno nel cono d’ombra prefigura una
riemersione: magari con nuovi attori, organizzati diversamente o attorno ad
un simbolico nuovo o con altre pratiche ma sempre con la caratteristica
della convergenza tra gruppi che trovano un momento fusionale nella rottura
dell’ordine pubblico.
Se si guarda con occhio storiografico a queste vicende si vede, a partire
dal ritrovamento di una bomba allo stadio di Verona nel ’77 e alla morte di
Vincenzo Paparelli nel ’79, che fasi culminanti e coni d’ombra hanno di
fatto costituito questa trentennale continuità nella produzione di continui
momenti di rottura, anche spettacolare, delle dinamiche di ordine pubblico.
E’ un qualcosa al quale si può applicare grosso modo lo schema
lotte/ristrutturazione/ lotte che la storiografia operaista applicava sul
proprio oggetto di studio: a un periodo di rottura delle dinamiche
dell’ordine pubblico corrisponde uno di ristrutturazione sociale e normativa
che sfocia in un nuovo periodo di rottura. In questo senso finchè lo schema
tiene, e fino ad adesso ha tenuto, possiamo parlare di un fenomeno
permanente.
Non si deve però avere un’idea del fenomeno come quella di uno sciame che
cresce, nonostante le ristrutturazioni, magari fino al collasso di un mondo
come avviene per il pulviscolo di alieni in Ghost of Mars di Carpenter.
Rispetto alla lunga storia di incidenti legati al mondo del calcio
dell’epoca industriale la rottura dell’ordine pubblico nelle nostre società
post-industriali del continente avviene su un terreno urbanisticamente
contenuto, perimetrato ed in episodi quantitativamente più ridotti nel
numero di persone coinvolte e nella tipologia di gravità degli episodi. Con
la differenza che la spettacolarizzazione del gesto della rottura
dell’ordine pubblico tramite la pluralità di piani mediali pone questi
episodi non tanto al centro dell’immaginario delle tifoserie ma di quello
del cervello sociale.
Queste affermazioni potranno risuonare strane a chi si trova investito da
sequenze di piani immagine riguardanti gli scontri come quelli di Catania,
montate con un commento ansiogeno o partecipativo del lutto di chi è rimasto
vittima degli incidenti: l’impressione che se ne ricava è che la “violenza”
sia dappertutto. Ma tra le modalità di diffusione degli incidenti provocati
da tifoserie nell’epoca industriale e quelle del post-industriale la
differenza è enorme: nel primo caso sul piano urbanistico veniva investito
fisicamente il territorio anche nella sua interezza e in una parte
significativa della sua popolazione, nel secondo ad essere investiti sono,
anche in caso di incidenti al di fuori dello stadio, settori “specializzati”
di popolazione e operatori professionali dell’ordine pubblico, in canali in
qualche modo dedicati a queste pratiche in un territorio perimetrato,
compartimentato dalle varie funzioni d’uso sociale o da pratiche di
controllo. Il rimando ai circuiti delle immagini nel momento degli incidenti
è sia l’altra grande differenza rispetto all’epoca industriale che l’aspetto
profondamente delegittimatorio del sistema sociale attraverso il quale
circolano queste immagini. Infatti, per quanto possa sembrare paradossale
gli incidenti tra tifoserie dell’epoca industriale che potevano investire,
agli albori del ‘900, intere città ma non l’immaginario di una nazione. Oggi
investono, oltre allo stadio, zone “dedicate” del tessuto urbano ma, grazie
alla produzione di immagini su una molteplicità di canali ad impatto
capillare, finiscono per circolare dritto nel cervello sociale. E questo
avviene nel momento in cui la produzione di simbolico a causa questi eventi
è quanto mai delegittimante per una società di controllo: là dove il
consenso lo si ottiene tramite le politiche securitarie, la diffusione
spettacolare dell’impotenza degli operatori dell’ordine pubblico diviene un
problema che riguarda la stessa messa in crisi della legittimazione della
forza dello stato che altri non è che la fonte in ultima istanza del
giuridico e del politico.
Ecco quindi che gruppi di ultras impolitici, o di gruppi politicizzati in
modo ideologicamente minoritario rispetto al corpo della società, finiscono
per produrre eventi che mettono in discussione la legittimazione stessa
degli apparati amministrativi e istituzionali proprio perché oggi questa si
dà prevalentemente in quanto capacità di erogazione di “sicurezza” e non di
diritti o di servizi sociali. In questo contesto gli gli stadi, in quanto
zone di produzione di grandi eventi nelle quali convergono quote
significative di popolazione, sono zone di massimo controllo e di diffusa
elusione del controllo, zone dove si cerca di esercitare le tecnologie della
pacificazione e dove si pratica un livello di scontro. E non deve neanche
deve stupire il fatto che l’ottica del potere, che oggi si concretizza nelle
tecnologie televisive sia a circuito chiuso (per l’esercizio di pratiche di
polizia) che in chiaro o criptato (per la riproduzione delle pratiche
mediali di legittimazione) si focalizzi su dettagli microfisici o
insignificanti. Quando sulle prime pagine dei giornali e nelle edizioni dei
tg finiscono per essere rappresentate come un pericolo anche isolate scritte
sui muri, e provenienti da città medio-piccole, riguardanti le vicende di
Catania significa che l’ottica del potere si fa microfisica ben oltre la
mera necessità del controllo: perché quando un potere non è più in grado di
erogare diritti e servizi ma solo “sicurezza” non resta che l’ossessione
della vigilanza ben oltre il suo concreto significato.
Stiamo parlando quindi di un contesto dove convergono anche convulsamente le
necessità di rappresentazione degli incidenti sui circuiti mediali, gli
effetti della messa in discussione simbolica della forza legittimante dello
stato, e le esigenze di espansione dell’ottica del potere fino
all’inutilmente microfisico. Sono tutti fenomeni che egualmente appartengono
alle dinamiche di comportamento dei poteri amministrativi e statuali, quando
non dello stato come soggetto politico, di fronte alle dinamiche di rottura
dell’ordine pubblico negli stadi o grazie alle tifoserie. L’ansia da parte
dello stato nell’erogazione, quasi sempre solo simbolica, di “sicurezza” fa
parte sia delle risposte istituzionali a questi fenomeni che dei tentativi
di sostituzione di una politica dei diritti e dei servizi di fatto
inerogabile in una società neoliberista.
Viene inoltre da dire che se qualcuno in queste dinamiche da stadio di
rottura dell’ordine pubblico, vi cerca le banlieue italiane le trova. Le
trova sicuramente sul piano della morfologia sociale, ogni periferia è la
spina dorsale di una curva in una città italiana, e su un piano della
capacità di attrarre nelle proprie pratiche ampi strati “centristi” della
società cosa che alla banlieue francese non riesce più di tanto in quanto
perimetrata fisicamente nella struttura delle città. Quello che diversifica
le dinamiche da stadio italiane dalla banlieue francese è l’armamentario
culturale: innestato nella società dei consumi o spoliticizzato, o
politicizzato prevalentemente dentro un vuoto simbolico di destra, quello
italiano e pienamente immerso nelle dinamiche della autoproduzione delle
culture musicali quello francese. In questo modo la stessa contrapposizione
italiana tra periferie e istituzioni, che si gioca negli scontri sul piano
concreto come su quello simbolico, non ha la forza di farsi riconoscere né
la qualità necessaria per essere ancora effettivamente riconosciuta come
tale. Per quando si giochi concretamente la contrapposizione con la polizia,
che è ben più di una “banda” sul territorio rappresentando simbolicamente lo
stato, per quanto sia evidente l’uso della cultura dello spettacolo, nel
caso italiano il calcio in quello francese la musica, come veicolo di un
confronto che va oltre lo spettacolo nello specifico italiano i significati
di questa contrapposizione con l’autorità non hanno ancora raggiunto quello
possibile di “una generazione di esclusi contro il potere” come in Francia.
E questo avviene prima di tutto perché il livello di autoproduzione della
cultura calcistica italiana, condizionata dai grandi stili di consumo, non è
ancora paragonabile in termini di qualità, che genera intensità di
comportamenti e riconoscimento dall’esterno, con la scena musicale francese.
Ma ci sono anche altri due fenomeni che spiegano lo specifico culturale
delle curve e introducono al rischio che queste vicende della rottura
dell’ordine pubblico da stadio rimangano entro dinamiche esclusivamente
repressive con una profonda ricaduta sull’intera società.
Questi due fenomeni sono la pluridecennale spoliticizzazione e riduzione ad
enclave di consumo delle periferie italiane, quelle complessive non solo
quelle da stadio, e il netto spostamento della sinistra italiana verso il
linguaggio, i temi culturali e politici dei ceti medi e medio-alti
“civilizzati”. Le profonde mutazioni del politico in Italia, proprio a
partire dall’avvento della società post-industriale, hanno talmente
allontanato la sinistra, di tutti i generi, dalle periferie che se questa
decidesse di penetrarci di nuovo avrebbe di fronte a sé un lavoro politico
di mappatura, di acquisizione dei linguaggi, di metabolizzazione dei
comportamenti che non potrebbe dare frutti che nel prossimo trentennio. In
questo modo pur producendo fenomeni di scontro che riguardano la sfera
politica, sul piano della delegittimazione simbolica dello stato, le
periferie non solo non sono neanche in grado di capire effettivamente cosa
stiano facendo mentre la sinistra, di ogni genere, temendo di perdere
contatto con i ceti medi e medio-alti impauriti dal comportamento delle
periferie si mantiene ben lontana dal delegittimare le pratiche securitarie.
Insomma, in vicende come quella di Catania si riflette la deriva delle
periferie italiane: impoverite economicamente e cognitivamente, lontane da
un linguaggio collettivo, anche nello scontro simbolico con lo stato che
avviene su terreni generati dallo spettacolo, abbandonate dalla stessa
sinistra che ha altri livelli strategici di rappresentanza, l’opinione
pubblica come sostituzione del radicamento sociale in epoca mediale, si
ritrovano avvolte da dinamiche sempre più securitarie e tecnologiche nel
silenzio e nella mancanza di concettualizzazione di questo problema da parte
delle sinistre. Il problema sta tutto nel fatto che la società di controllo,
il disciplinamento e la privazione tecnologica delle libertà complessive sul
piano universale della norma, alimenta la propria presa sull’intera
morfologia sociale proprio a partire da scontri simbolici, e mediatici, come
quelli aperti a Catania. E che quindi la sinistra non è attualmente in
grado, proprio perché segue le evoluzioni di una opinione pubblica impaurita
dall’ossessione dalla “sicurezza” prodotta da un piano mediale che
oltretutto non governa, di produrre efficaci anticorpi e zone di resistenza
all’evoluzione della società di controllo.
Eppure se la vicenda del poliziotto ucciso a Catania è una sorta di 11
settembre del calcio italiano, di un crollo improvviso di un’architettura
dell’organizzazione dello spettacolo e del rapporto sociale, la tifoseria
del Catania rappresenta è una sorta di Al-Qaeda. Non tanto in una qualche
fantascientifica idea di sfida allo stato intrapresa da qualche tifoseria.
Ma in quello che vuole la tifoseria catanese in un rapporto contrattuale e
di cooperazione con istituzioni e ceti politici del suo territorio. Insomma
la tifoseria catanese sarebbe, in questo senso, una sorta di Al-Qaeda
sfuggita di mano agli stessi referenti politici ed istituzionali che
comunque o l’anno coltivata o ne hanno riconosciuta la presenza. Lontana
dall’idea dell’essere una scheggia impazzita del mondo giovanile aliena dal
territorio e dal rapporto con partiti ed istituzioni la tifoseria catanese,
e su questo facciamo fede a numerose fonti empiriche anche di tipo
scientifico, sarebbe piuttosto un elemento regolatore dei rapporti di potere
in quella città e sul territorio sfuggito nel giorno del derby allo stesso
ambiente di regolazione. Allo stesso tempo non è da sottovalutare il clima
politico, e l’idea che il ceto politico ha della società in questo contesto.
Le affermazioni del presidente del consiglio sul “paese impazzito”, in
quanto refrattario alla ristrutturazione finanziaria, non possono non
trovare uno sbocco sul piano delle politiche sociali. E lo sbocco lo trovano
nella animalizzazione di alcuni settori di società, praticata nella
rappresentazione mediale, alla quale corrisponde l’erogazione di pratiche e
di normative d’emergenza.
E si tratta di politiche di emergenza che quanto più provengono da settori
amministrativi e politici in crisi, la federcalcio commissariata e il
governo sul filo del consenso, tanto più cercano di mostrarsi radicali come
strumento di risoluzione della crisi delle istituzioni che le promuovono. Al
momento i tentativi di promozione di politiche di emergenza, che finiscono
per valere sul piano normativo e delle politiche concrete su tutta la
società, si appoggiano molto sul mito inglese. Sull’idea cioè che una
profonda ristrutturazione urbanistica degli stadi e un pacchetto di leggi
d’emergenza finisca per stroncare il fenomeno. A parte il rischio per la
vita di tutti di una impetuosa crescita delle tecnologie e delle normative
di controllo, il caso inglese è differente dall’attuale italiano. Le
tifoserie britanniche hanno subito un processo di adattamento di pratiche
nate durante l’epoca industriale poi scontratesi con i processi di
ristrutturazione securitaria dell’Inghilterra post-industriale della
Thatcher. L’Italia, anche per la differente organizzazione interna delle
forze securitarie, sembra essere un caso differente molto di più di quanto
la retorica sul caso inglese faccia pensare.
In una situazione come questa, ove si chieda che fare, la risposta non può
che essere: neutralizzare le funzioni del controllo ovunque ci si trovi e
cooperare per questo scopo e lavorare per intrecciare quel tessuto di
anticorpi al controllo fatto di intreccio tra culture “alte” sul piano
critico e culture underground. Si tratta di produrre dal piano linguistico a
quello politico, ogni dispositivo simbolico che non permetta di funzionare
ai dispositivi di potere e, soprattutto, alle loro evoluzioni tecnologiche.
Chi sa guardare oltre l’apparenza dei fenomeni, senza cedere alle retoriche
del dolore e a quelle dei barbari alle porte può intraprendere questa
strada. Ne va delle garanzie reali alle nostre libertà collettive.
Mcs
Fonte: http://www.senzasoste.it
Link
05.02.2007
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