
Test di ingresso e numero programmato all’università sono strategie
adottate per migliorare la qualità del processo formativo. Secondo uno studio
hanno un effetto positivo sulle interazioni tra studenti e con i docenti. È
dunque una questione di risorse?
Numeri chiusi e test d’ingresso
Con l’ordinanza n. 04478/2017 il
Tribunale amministrativo della Regione Lazio ha sospeso l’efficacia del
provvedimento con cui l’Università Statale di Milano intendeva limitare
l’accesso ai corsi del primo anno in alcune discipline umanistiche.
La notizia
ha avuto una certa eco, riproponendo al di là dei problemi tecnici del caso
specifico, la questione del “numero chiuso all’università” nel nostro paese.
Le prospettive di crescita e sviluppo delle economie sono legate
all’accumulazione di conoscenze e competenze da parte delle giovani
generazioni. Per produrre queste competenze le famiglie investono risorse
oggi. In Italia e in moltissimi altri paesi il sistema di istruzione terziaria
vede un sostanziale intervento di risorse pubbliche (statale o non statale che
sia il singolo organismo che presiede alla fornitura del servizio).
In questo quadro, il cosiddetto “numero chiuso” serve a stabilire il
seguente principio: se le risorse pubbliche sono limitate, non può che essere
limitato il numero dei candidati che è possibile ammettere.
Ovviamente, il principio si scontra con quello delle uguali opportunità,
principio su cui sono fondate le moderne democrazie liberali, Italia inclusa,
almeno nelle aspirazioni espresse nelle loro costituzioni. Il principio non ha
solo fondamento su questioni di uguaglianza, cioè prossime all’etica. Dal
punto di vista economico, contano questioni di efficienza: esistono giovani, e
possono essere molti, il cui retroterra familiare non può permettere
l’investimento di risorse adeguate e, in genere, i mercati del credito non
consentono di sanare questo problema di
allocazione. Ciò è tanto più vero quanto più disuguale è la distribuzione
del reddito o della ricchezza.
Il problema che si pone col numero chiuso è quindi duplice: 1. Quanti
studenti è opportuno (o efficiente) abbiano accesso? 2. Chi può avere accesso?
La risposta alle due domande ovviamente influenza le istituzioni
universitarie e la qualità del processo formativo dei singoli. In genere, per
stabilire chi può avere accesso vengono utilizzati test volti a misurare la
motivazione o il talento dei candidati per uno specifico corso.
In Italia fino al 1994 non vigeva alcun limite d’accesso, con l’eccezione
di alcune università pubbliche non statali e delle scuole di medicina). Ora la
normativa contempla la possibilità per le singole istituzioni di adottare il
numero chiuso. La decisione sull’accesso è, tendenzialmente, decentrata e la
prendono i singoli dipartimenti o facoltà sulla base di criteri stabiliti per
legge. È su tale decisione che è intervenuto il Tar del Lazio. Per quanto
riguarda chi può avere accesso, singole università hanno adottato il criterio
dei test, con il fine dichiarato di migliorare i risultati degli studenti e la
qualità del loro curriculum.
Esistono le basi per affermare che maggiore selettività in entrata basata
sul criterio dei test migliora i risultati degli studenti? La letteratura
economica non dà una risposta univoca e l’evidenza empirica è controversa.
Alcuni studi riscontrano che i test di ammissione all’università sono
buoni predittori dei risultati degli studenti a prescindere da informazioni
sulla storia pregressa (il voto al diploma o il background familiare).
Altri sottolineano come il test di accesso selettivo sia informativo solo
se vengono tenuti in considerazione anche i voti del diploma secondario.
Altri studi hanno invece rilevato che una volta considerato il background
dell’istruzione secondaria, l’uso di un test selettivo di ingresso è
ridondante.
Nessun effetto sulle performances degli studenti è stato trovato dalla
rimozione di un test di accesso selettivo in università non statali, dove
presumibilmente sono già all’opera meccanismi di autoselezione.
I riflessi sulla classe
In un recente studio, abbiamo stimato gli effetti causali dovuti a una
riforma delle politiche di accesso all’Università di Salerno. Nella ricerca
abbiamo sfruttato l’introduzione del numero programmato nella facoltà di
Economia per misurare gli effetti dei test selettivi su indici di performance
individuali, tassi di abbandono e media ponderata dei voti.
Abbiamo verificato che l’introduzione del test ha portato a una riduzione
di circa 14 punti percentuali del tasso di abbandono degli studenti e a un
miglioramento della media ponderata dei voti di circa un punto, al termine del
primo anno di studi. In sintesi, nel caso da noi analizzato, l’introduzione di
limiti all’accesso sulla base del test genera migliori risultati di studenti
(e università).
Ma questo avviene semplicemente perché i test hanno selezionato i migliori
studenti o perché, essendosi modificata, la composizione della classe ha
permesso una migliore interazione tra gli studenti e con i docenti? La
risposta è cruciale per il disegno delle politiche sotto molti aspetti.
Focalizzando l’attenzione su un gruppo di “trattati” e gruppo di
“controllo” con simili qualità individuali (punteggio simile allo stesso test,
utilizzato però con finalità non selettive), ma che interagiscono in classi
con differenti qualità (in media), i risultati mostrano che il miglioramento
delle interazioni sociali a livello di classe rappresenta il principale
meccanismo alla base dell’effetto causale dovuto al cambiamento della politica
per l’accesso alla facoltà. Dal punto di vista più generale, il nostro studio
suggerisce che la domanda da porsi non è tanto a quanta mobilità sociale e
uguaglianza delle opportunità si è disposti a rinunciare utilizzando i test,
ma quante risorse si è disposti a mettere in gioco per migliorare la qualità
dell’interazione in classe (infrastrutture, quantità e qualità del personale).
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