Condivisibile l'obiettivo di una riduzione del
personale e di una riorganizzazione della rete
delle scuole. E probabilmente ragionevole una
revisione degli orari di insegnamento almeno
negli istituti professionali. Ma nel piano del
governo manca un progetto educativo e non c'è
alcuna valutazione delle conseguenze dei
provvedimenti decisi. Sembra emergere solo la
necessità di far cassa rapidamente. Gli stessi
risultati si potevano ottenere con interventi
alternativi, che non avrebbero colpito
altrettanto pesantemente e casualmente
l'offerta didattica. Il problema del sostegno.
Il piano del governo sulla
scuola prevede la riduzione di
87.400 insegnanti e di 44.500 unità di
personale amministrativo nel triennio
2009-2012, di cui, rispettivamente,
42.000 e 15.000 solo nel primo anno.
Per raggiungere questi obiettivi, si
prevedono interventi sulla rete delle
scuole e sugli ordinamenti scolastici:
riduzione nel numero di ore insegnate
nei vari livelli di scuola e modifiche
nell’organizzazione della didattica, tra
cui la reintroduzione del maestro unico
alle elementari.
Il piano solleva dunque almeno
tre domande: 1) gli obiettivi
sono ragionevoli? 2) gli interventi
previsti consentiranno di raggiungerli e
a che costi? 3) Si poteva fare qualcosa
di meglio? IL NUMERO E LA
DISTRIBUZIONE DEI DOCENTI
Sul primo punto la risposta è sì.
Sulla base delle statistiche
internazionali, l’Italia non spende per
studente in modo molto diverso dagli
altri paesi sviluppati: 2.971 dollari (a
parità di potere di acquisto) in Italia,
contro la media Ocse di 3.072. Tuttavia,
è al ventinovesimo posto in termini di
risultati sugli apprendimenti.
(1) Tra le ragioni, l’abnorme
sproporzione della spesa per il
personale, che è tanto ampia da
finire con il mangiarsi tutte le altre
componenti di spesa, compresa quella per
l’incentivazione e la carriera dei
docenti, oltre che per la valutazione
dei risultati. Gli insegnanti sono più
della media Ocse - il rapporto
alunni/insegnanti è pari a 10.7 nella
scuola primaria e secondaria, contro una
media Ocse di 16.2 e 13.2
rispettivamente -, insegnano meno ore e
sono pagati meno degli altri paesi. Per
l’incapacità di governarne razionalmente
la mobilità, sono anche mal
distribuiti sul territorio
nazionale. Èanche vero che alla base di
questa sproporzione ci sono, tra
l'altro, orari scolastici mediamente più
lunghi per gli studenti e una rete
scolastica eccessivamente frammentata
nei punti di offerta e mai riformata.
Razionalizzare la rete, ridurre il
numero degli insegnanti, e del personale
Ata, e razionalizzarne la presenza sul
territorio, allo scopo di liberare
risorse da impiegare nel settore,
rappresenta dunque una priorità per ogni
politica di riforma seria della scuola
italiana.
LE PROPOSTE DEL GOVERNO
Dunque, le proposte del governo sono
giuste? Qui la risposta è più incerta.
Èpossibile che le politiche scelte sugli
ordinamenti, ma non certo la
razionalizzazione della rete che ha
tempi lunghi, siano utili per tagliare
personale e risparmiare
soldi alla svelta. Anche se è lecito
qualche dubbio, visto che il ministero
fornisce solo cifre aggregate e non
spiega come i vari interventi proposti
dovrebbero incidere sul personale. Per
esempio: non si capisce dove e in che
misura il modello del maestro unico alle
elementari verrà applicato, considerato
che continuano a essere previsti moduli
organizzativi alternativi, compresi
quelli basati sulle 40 ore. Ma in tutti
i casi, oltre a quello di far cassa, non
si capisce quale sia l’obiettivo
formativo sottostante all’azione del
governo. Per esempio, è probabilmente
giusto ridurre gli orari di insegnamento
negli istituti professionali, dove in
alcuni casi si superano le 36 ore,
considerato che sono mediamente più
lunghi di quelli di paesi esteri che
pure funzionano meglio in campo
didattico. Ma non si capisce quale è, e
se c’è, il progetto educativo
sottostante. Perché tre ore in meno alle
medie oppure 30 ore massime ai licei o
32 agli istituti tecnici o
professionali? Quali insegnamenti
verranno sacrificati? E perché?
Inesistente anche la valutazione delle
conseguenze. Ridurre il tempo prolungato
nella scuola primaria produrrà
sicuramente risparmi in termini di
organico docente. Tuttavia, l’evidenza
ci dice che stare più ore a scuola alla
primaria aumenta la probabilità di
completare la scuola secondaria, un
effetto che compensa lo
svantaggio relativo dovuto
all’istruzione dei genitori. Sono stati
presi in considerazione questi danni
potenziali in termini di eguaglianza
nelle opportunità?
ALTERNATIVE POSSIBILI
Criticare è però fin troppo facile.
La domanda vera, visto che l’obiettivo
della riduzione del personale è
condivisibile, è se c’erano interventi
alternativi che non colpissero
altrettanto pesantemente e casualmente
l’offerta didattica. La risposta è sì.
Il capitolo sull’istruzione del rapporto
della Commissione tecnica sulla finanza
pubblica ne descrive alcuni (LINK).
Per esempio, il numero eccessivo di
insegnanti alle elementari e medie
dipende in larga misura dal modo in cui
le classi sono ora formate, cioè a
livello di singolo istituto. Riportare
la decisione a un livello più alto, per
esempio, i bacini di utenza,
spostando se necessario tra scuole
limitrofe gli studenti in eccesso,
sarebbe di per sé sufficiente a ridurre
fortemente il numero delle cattedre, con
costi limitati per le famiglie. Ancora,
il numero elevato di insegnanti dipende
anche dalla presenza di deroghe
eccessivamente generose sui numeri
minimi di studenti necessari per formare
le classi. Quella sui comuni montani,
per esempio, pensata per garantire il
servizio scolastico in situazioni
estreme, interessa in realtà oltre il 20
per cento della popolazione studentesca.
Più in generale, le proposte del governo
sembrano soffrire di un vecchio vizio
ragionieristico; quello di credere che
sia sufficiente scrivere una norma
perché questa venga poi applicata. In
realtà, l’esperienza del passato
dimostra che non è così. Coloro che
prendono le decisioni che davvero
incidono sul personale scolastico (enti
locali e Regioni per la rete scolastica,
dirigenti di istituto per l’organico)
hanno ampi spazi di azione, garantiti
dalla normativa e dalla specificità del
servizio scolastico, per
annullare gli interventi
centrali. Perché questi funzionino, è
necessario che gli incentivi tra centro
e periferia siano allineati. Oggi, è
vero l’opposto. Se un comune chiude una
scuola inefficiente, oppure se un
dirigente scolastico riesce a
risparmiare sull’organico nella
formazione delle classi, ne paga solo i
costi senza alcun beneficio, perché
tutti i risparmi in termini di personale
vanno al centro. Idee innovative, come
il budget prefissato di
insegnanti a livello di provincia e di
singola scuola, introdotte dal
precedente governo e che avrebbero
consentito di superare il problema, sono
scomparse nelle proposte attuali.
CARENZA
C’è infine una curiosa assenza nelle
proposte governative. Non è possibile
pensare di intervenire in modo efficace
sulla spesa del personale docente in
Italia se non si affronta con coraggio
anche il problema della tutela degli
studenti con handicap. Gli
insegnanti di sostegno sono
l’unica categoria ad aver mostrato una
crescita incessante nell’ultimo
decennio, fino a raggiungere l’11 per
cento del totale nel 2007, con un costo
complessivo per le finanze pubbliche che
può essere stimato, in difetto, in oltre
4 miliardi di euro. In più, la loro
distribuzione territoriale è sospetta.
Lo stesso numero di studenti disabili
produce il 50 pr cento in più di
insegnanti di sostegno al Sud rispetto
al Nord. Le politiche relative alla
tutela devono essere riviste,
introducendo criteri più rigorosi
nell’accertamento della disabilità,
protocolli che specifichino l’utilizzo
del personale per tipologia di
disabilità e che consentano di
verificare l’efficacia delle politiche
di integrazione. I primi a essere
beneficiati sarebbero proprio gli
studenti più bisognosi di tutela.
(1) Per la spesa si
veda Education at a glance
2008, tabella B7.2. Per gli
apprendimenti ci riferisce a Pa 2006,
competenze scientifiche.
Rapporto revisione spesa pubblica
http://www.lavoce.info
Archivio Decreto Gelmini
Archivio Scuola Università
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