La bozza Calderoli menziona esplicitamente l'istruzione tra le competenze
regionali da finanziare con la nuova riforma. Contenuti degli insegnamenti e
altre norme generali del servizio scolastico restano funzioni esclusive
dello Stato, alle Regioni sarebbe devoluta la spesa per il personale. Si
potrebbero così risolvere i gravi problemi di coordinamento tra livelli di
governo. E nel lungo periodo arrivare a una definizione territoriale degli
stipendi più in linea con l'effettivo costo della vita. Ma tutto ciò
dovrebbe essere accompagnato da un sistema di sanzioni adeguato e
effettivamente perseguito.
Le proposte di riforma sulla scuola avanzate dal governo e la recente
pubblicazione del Rapporto Ocse hanno riportato all’attenzione
dell’opinione pubblica e della stampa la situazione dell’istruzione
in Italia. Sorprendentemente, però, mentre il dibattito politico sulle
proposte del governo si preannuncia accesissimo, è passato del tutto
inosservato il fatto che è in corso un’altra iniziativa governativa
che pure avrà ripercussioni pesanti sul settore, in prospettiva
probabilmente più rilevanti del “maestro unico” alle elementari.
L'ISTRUZIONE NELLA BOZZA CALDEROLI
Si tratta della cosiddetta “bozza Calderoli”, il disegno di legge
delega in attuazione dell’articolo119 della Costituzione: una volta
approvato dal parlamento sarà poi attuato tramite decreti legislativi
nei mesi successivi. La “bozza Calderoli” infatti, diversamente dal
suo antecedente più prossimo, la proposta avanzata dal governo Prodi
sullo stesso tema, menziona esplicitamente anche l’istruzione tra le
competenze regionali, assimilandola alla sanità e all’assistenza,
funzioni su cui gli enti territoriali hanno già competenze estese. Ora
è ben vero che un maggior ruolo delle Regioni sulla scuola era in
realtà già esplicitamente previsto nel Titolo V della Costituzione,
riformato nel 2001. Ma visto la delicatezza e anche la dimensione
finanziaria del settore, le proposte finora avanzate in merito
all’attuazione dell’articolo 119 avevano teso a evitarlo, rimandandone
un eventuale decentramento a un futuro imprecisato. L’esplicita
menzione nel testo della Calderoli sembra invece prefigurare una
devoluzione della scuola alle Regioni in tempi brevi. È allora forse
utile chiarire quale compito la Costituzione attribuisce ai diversi
livelli di governo nel settore, e più in generale, quali vantaggi e
quali rischi la devoluzione della scuola potrebbe comportare.
I COMPITI COSTITUZIONALI
È bene innanzitutto sgombrare il campo da ogni equivoco in merito a
chi spetti fissare i contenuti degli
insegnamentie le altre norme generali del servizio
scolastico. L’articolo 117 della Costituzione attribuisce alle
funzioni esclusive dello Stato la fissazione delle norme generali
sull’istruzione (lettera n), e comunque, in tutti i casi, la
scuola rientra certamente anche tra le funzioni protette dalla lettera
m, le prestazioni attinenti i diritti civili e sociali, i cui
livelli essenziali devono essere determinati e garantiti sull’intero
territorio nazionale dallo Stato. Inoltre, mentre l’istruzione rientra
anche tra le competenze legislative concorrenti delle Regioni, il loro
ruolo è comunque vincolato, oltre che dall’alto, la legge dello Stato,
anche dal basso, l’autonomia riconosciuta
costituzionalmente alle istituzioni scolastiche. (1)
Dunque, anche in presenza di una devoluzione della spesa per
istruzione alle Regioni, niente assurdi vincoli di residenza per i
docenti e niente corsi regionali sull’economia celtica o la lingua
etrusca. Se c’è una differenziazione dei programmi rispetto a quelli
definiti a livello centrale, questa spetta all’autonomia delle singole
scuole, che difatti possono già ora scegliere liberamente fino al 20
per cento dei contenuti degli insegnamenti.
Più in generale, è bene sottolineare che il decentramento può essere
tanto più efficace, tanto più è sostenuto da un centro “forte”,
capace di misurare la performance dei decisori locali, sanzionarli o
incentivarli se necessario, e rendere l’informazione pubblica e
accessibile ai cittadini. Nel campo dell’istruzione questo significa
che gli esami finali devono comunque restare
responsabilità dello Stato centrale, e non delle Regioni, e che anzi,
un eventuale ulteriore decentramento della spesa per l’istruzione
rende ancor più necessario e urgente l’introduzione di un sistema
nazionale e universale di misura degli apprendimenti scolastici nelle
singole scuole, come i test già approntati, ma non ancora effettuati,
dall’Invalsi: è un aspetto su cui il paese presenta
un ingiustificabile ritardo rispetto alle migliori esperienze estere.
L’articolo 120 della Costituzione attribuisce allo Stato poteri
sostitutivi nei confronti degli enti territoriali che non garantiscano
l’offerta dei livelli essenziali dei servizi: ma come può lo Stato
adempiere a questo suo ruolo costituzionale se non si attrezza in modo
adeguato per misurare quelli devoluti?
IL RUOLO DELLE REGIONI
Se questi sono i compiti e i vincoli stabiliti dalla Costituzione,
quale ruolo addizionale potrebbero allora giocare le Regioni sulla
scuola? Più precisamente, poiché la maggior parte degli interpreti
sembra concordare sul fatto che l’attuazione effettiva del Titolo V
implicherebbe il passaggio dell’onere del personale, docente e non,
della scuola dallo Stato alle Regioni, quali vantaggi potenziali,
ammesso che ce ne siano, ne potrebbero risultare?
Un primo vantaggio potrebbe derivare dalla risoluzione dei gravi
problemi di coordinamento tra livelli di governo che
oggi affliggono il settore. Gli enti sub-centrali infatti già svolgono
importanti funzioni nel settore scolastico. Le Regioni per esempio,
oltre che della istruzione professionale, si occupano della gestione
dell’intera rete scolastica, mentre gli altri enti
locali sono responsabili della manutenzione degli
edifici. Lo spezzettamento dei compiti ha determinato un pernicioso
effetto di free-ridingtra governi. Le Regioni non hanno
incentivi a razionalizzare la rete scolastica e i comuni non hanno
incentivi a eliminare un plesso inefficiente, anzi resistono a ogni
pressione dello Stato centrale, perché gli eventuali risparmi in
termini di personale docente e Ata affluirebbero allo Stato centrale e
non agli enti territoriali. E non si tratta di problemi di poco conto.
Il Quaderno bianco sulla scuola, per esempio, attribuisce alle
inefficienze della rete scolastica circa un terzo dell’eccesso nel
rapporto tra docenti e studenti che caratterizza il nostro paese
rispetto alla media Ocse, una stima confermata anche dal più recente
rapporto della Commissione tecnica sulla finanza pubblica. Riportare
in capo alle Regioni anche il finanziamento della spesa del personale,
le spingerebbe a interiorizzare questi effetti, conducendo a scelte
più efficienti.
Un secondo potenziale vantaggio è che la devoluzione della spesa per
l’istruzione potrebbe condurre, almeno nel lungo periodo, a una
definizione territoriale degli stipendi più in linea
con l’effettivo costo della vita. Dietro l’attuale inefficiente
distribuzione del personale scolastico sul territorio, che vede più
docenti concentrati laddove ci sono meno studenti, si intravedono
comprensibilissime ragioni economiche. Gli stipendi di maestri e
professori, oltretutto già molto bassi in un’ottica internazionale,
sono uniformi su tutto il territorio nazionale, e quindi, in realtà,
molto diversi in termini reali. Anche senza tener conto dei costi
degli affitti, le stime dell’Istat suggeriscono per esempio che, a
seconda della tipologia di beni di consumo considerati, l’indice dei
prezzi a Milano sia tra il 5 e il 50 per cento più alto che a
Campobasso. Non sorprende che le scuole a Milano facciano fatica a
coprire i ruoli. E che, viceversa, appena maturata la sufficiente
anzianità, gli insegnanti di origine meridionale facciano il possibile
per rientrare al Sud. Naturalmente, non ci sarebbe bisogno di
decentrare la spesa per l’istruzione per ottenere una politica
salariale più aderente al livello effettivo dei prezzi. Parti sociali
intelligenti potrebbero già articolare la contrattazione nazionale
delle retribuzioni per il pubblico impiego in modo da tener conto
delle differenze territoriali nel costo della vita.
Ma siccome, anche per ragioni ideologiche, è assai difficile che
questo accada, né è mai accaduto, ecco che il decentramento potrebbe
condurre allo stesso risultato, dando gli incentivi appropriati ai
livelli locali.
In termini pratici, il meccanismo potrebbe funzionare
così: lo Stato attribuisce risorse alle varie Regioni (basi imponibili
su tributi erariali o trasferimenti perequativi) sulla base del
calcolo di un fabbisogno standard di personale valutato a un costo
definito a partire dal contratto nazionale, che rimarrebbe uniforme.
Le singole Regioni, usano le proprie risorse addizionali, tributi
propri e spazi di manovra sui tributi erariali, per condurre una
contrattazione regionale integrativa, assumendosene la responsabilità
nei confronti dei propri cittadini e dunque pagandone il relativo
costo politico.
I RISCHI
Se questi sono i potenziali vantaggi, è però opportuno sottolineare
che ci sono anche almeno due ostacoli. In primo luogo, il
decentramento presuppone che il centro abbia a disposizione
informazioni e capacità adeguate per poter calcolare un budget
efficiente di personale scolastico per le varie Regioni, budget che
costituirebbe la base per il decentramento delle risorse in una prima
fase, e per la contrattazione tra governi in prospettiva, quando
eventuali modifiche nei livelli essenziali e nelle norme generali da
parte dello Stato lo richiedano. Il problema è che il ministero della
Pubblica istruzione ha perso da tempo, o forse non ha mai avuto,
questa capacità di programmazione generale del
servizio; piuttosto, si è sempre limitato a gestire l’esistente con
interventi di breve periodo. Mancano banche dati, uffici studi e
capacità adeguate, per esempio, per poter stimare il fabbisogno degli
insegnanti di matematica tra cinque anni in Toscana, oppure per
calcolare gli effetti sul fabbisogno di docenti nelle varie Regioni a
seguito di interventi normativi sui programmi nelle scuole superiori.
Che si decentri o meno, è difficile che il sistema scolastico italiano
possa essere ricondotto a livelli di maggior efficienza se il
ministero non si dota di queste competenze, predisponendo strumenti e
uffici studi adeguati.
La seconda difficoltà è insita nelle caratteristiche del servizio
stesso. Gli elementi di efficienza che potrebbero derivare da un
decentramento presuppongono l’esistenza di un vincolo di
bilancio rigidoa livello regionale; cioè, presuppongono che
le Regioni non si aspettino un intervento compensativo da parte dello
Stato nel caso di uno sfondamento di bilancio. Ma la scuola, al pari
della sanità, è un servizio politicamente sensibile e le pressioni sul
centro nel caso di incapacità degli enti locali a garantirlo sarebbero
fortissime. Il rischio di irresponsabilità finanziaria è dunque
elevato, e la pratica dei finanziamenti ex post dei disavanzi sanitari
delle Regioni non lascia ben sperare. Come minimo, ciò implica che il
decentramento della spesa per l’istruzione dovrebbe essere
accompagnato da un sistema di sanzioniadeguato e
effettivamente perseguito, che preveda, per esempio, oltre a punizioni
nei confronti degli amministratori incompetenti, anche la sospensione
della sovranità per le Regioni inadempienti. A questo proposito, la
bozza Calderoli presuppone il decentramento del servizio a tutte le
Regioni senza distinzioni. Ma è sensato decentrare anche l’istruzione
a Regioni che hanno già mostrato un’incapacità di gestire il sistema
sanitario? Non sarebbe invece meglio condizionare eventuali nuove
devoluzioni di funzioni al raggiungimento di condizioni sufficienti di
capacità amministrativa e di rispetto dei vincoli finanziari nelle
funzioni già devolute?
(1) Questo è sicuramente vero per la scuola
dell’obbligo e l’istruzione secondaria. I rispettivi ruoli sono invece
meno chiaramente definiti nel campo dell’istruzione professionale, che
è una funzione esclusiva delle Regioni, per quanto ancora soggetta
alla lettera m).
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