Il Governo ha annunciato il taglio di quasi il 20 per cento il Fondo di finanziamento ordinario delle università. Questo ha scatenato una rincorsa alla spesa con quasi 1800 concorsi (per due idonei, dunque più di 3500 assunzioni, il 10 per cento del corpo docente) banditi tra aprile e giugno. Per ridurre le spese del personale, meglio fare meno annunci e incentivare una migliore qualità dell'insegnamento e della ricerca, bene legare le retribuzioni dei docenti a diverse misure di produttività, come quelle elaborate dal Civr.
La manovra economica del governo ha ridotto il Fondo di finanziamento
ordinario delle università del 19,7 per cento in cinque anni. Le strategie
che gli atenei potranno adottare per sopperire alla diminuzione delle
risorse avranno ripercussioni sull'accesso agli studi universitari e sulla
ricerca. Se l'obiettivo era limitare la spesa per il personale, si poteva
intervenire solo sulle sedi che ne hanno in eccesso. Nel frattempo,
l'annuncio dei tagli ha provocato una vera e propria corsa alla spesa.
Il decreto legge 112 del 25 giugno, “Disposizioni urgenti per lo
sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la
stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria”,
riduce il Fondo di finanziamento ordinario delle università di
1.441,5 milioni di euro nell’arco di cinque anni: 63,5 nel
2009, 190 nel 2010, 316 nel 2011, 417 nel 2012 e 455 dal 2013.
Prendendo come riferimento il finanziamento assegnato per il 2008, a
regime si tratta di una diminuzione del 19,7 per cento. Il taglio del
Fondo è in parte compensato dal sostanziale blocco del turn-over
(l’articolo 66 permette di assumere solo il 20 per cento delle
cessazioni dal servizio), dalla soppressione di uno scatto di
anzianità del personale docente (articolo 69), dal congelamento di una
parte del salario accessorio per il personale non docente (articolo
67) e dalla riduzione degli assetti organizzativi di almeno il 10 per
cento già entro il 2008 (articolo 74). COSA ACCADRÀ
Per legge, il gettito delle tasse di iscrizione
universitarie non può superare il 20 per cento del Fondo ordinario.
Pertanto, a una riduzione del finanziamento pubblico dovrà seguire, a
legislazione invariata, una diminuzione delle tasse di iscrizione,
riducendo ulteriormente le entrate degli atenei. Anche immaginando che
le diverse misure (blocco del turn-over, rallentamento della dinamica
retributiva per docenti e non docenti) riducano i costi del 10 per
cento, resta comunque un taglio del finanziamento complessivo in
misura superiore al 10 per cento. (1)
Come potranno gli atenei far fronte alla riduzione delle risorse,
tenuto conto che già oggi circa la metà ha un costo del personale che
supera l’80 per cento del Fondo di finanziamento ordinario? Quattro ci
sembrano le strade percorribili:
(1) ridurre l’offerta formativa. La tabella indica
che il numero di corsi e sedi universitarie è cresciuto
vertiginosamente negli ultimi venti anni, con conseguente aumento dei
costi.
(2) integrare le tasse universitarie con ulteriori attività didattiche
a pagamento libere da vincoli (master, corsi di formazione,
laboratori, corsi di specializzazione).
(3) ridurre l’attività di formazione postlaurea, i
fondi per la ricerca, gli assegni di ricerca e le borse di dottorato.
(4) rafforzare la componente di ricerca e consulenza
per conto terzi. Questo è possibile con intensità molto diversa a
seconda dell’area disciplinare e geografica in cui operano i
dipartimenti.
Ciascuna di queste strategie ha un costo. Le prime
due potrebbero comportare un rallentamento della crescita (o anche una
diminuzione) del numero degli iscritti: mentre nel
1985 la quota dei diciannovenni iscritti all’università era pari al
25,9 per cento, oggi è quasi del 60 per cento. La diffusione
territoriale e la varietà dell’offerta formativa hanno contribuito ad
attrarre nuovi studenti, in particolare provenienti da famiglie a
basso reddito e a rischio di esclusione dall’istruzione universitaria.
Una riduzione dell’offerta formativa potrebbe congelare questo
processo. La terza strada indebolisce ulteriormente la capacità di
ricerca del sistema universitario, rischiando di creare una frattura
generazionale nel processo formativo post-laurea e aumentando
verosimilmente la fuga di cervelli verso l’estero. Anche la quarta
alternativa potrebbe rallentare l’attività di ricerca dei
dipartimenti, dirottando una parte delle energie verso il reperimento
di finanziamenti esterni.
AUTONOMIA LIMITATA
In regime di piena autonomia, ciascuna università sarebbe libera di
percorrere la propria strada, scegliendo una delle quattro alternative
(o una combinazione tra loro). Ma l’autonomia è tale solo di nome. Di
fatto, il governo interviene ripetutamente nella vita degli atenei con
direttive centrali (ultima in ordine di tempo quella
che riguarda l’incremento delle borse di studio dottorali, con onere a
carico degli atenei stessi) e disegnando regole del gioco
indifferenziate tra atenei (ad esempio, i titoli di studio hanno tutti
lo stesso valore legale).
In questa occasione è possibile che il governo abbia valutato che la
spesa per il personale è troppo elevata; ne
seguirebbe che il provvedimento più significativo è il sostanziale
blocco del turn-over. Ma se l’obiettivo è ridurre la spesa per il
personale, perché non affrontare apertamente il problema? Se il
governo ritenesse che alcuni atenei hanno un eccesso di personale,
definibile secondo qualche criterio (rapporto studenti/docenti,
laureati per docente, pubblicazioni per docente, valutazioni Civr),
occorrerebbe ridurre alla norma quegli atenei. (2) Il
precedente ministro aveva adottato una norma semplice
ed efficace, stabilendo un numero minimo di docenti per ciascun corso
di laurea (almeno dodici per i corsi triennali e almeno otto per
quelli magistrali), e indotto molti atenei a ridurre il numero di
corsi. Altre norme potrebbero essere basate su indicatori legati ai
risultati conseguiti nell’attività di ricerca.
Senza linee guida sulle priorità da seguire e indicazioni chiare sulle
attività che possono o devono essere dismesse, tagliare la spesa in
modo indifferenziato non riduce gli squilibri del nostro sistema
universitario, ed è controproducente. Come spesso accade nella
pubblica amministrazione, nel timore che in futuro non sarà più
possibile spendere, l’annuncio dei tagli ha provocato
una vera e propria corsa alla spesa: tra aprile e
giugno le università hanno bandito 685 posti di professore ordinario e
1093 posti di professore associato. Poiché ciascuno di questi concorsi
prevede due idonei, nei prossimi anni saranno assunti più di 3.500
professori, circa il 10 per cento del corpo docente. Dato il
contemporaneo blocco del turn over, per i giovani sarà ancora più
difficile accedere ai ruoli universitari.
Evoluzione dell’offerta formativa e del
numero degli iscritti all’università
* dati riferiti al 2007-8
Fonte: elaborazioni da La localizzazione geografica degli atenei
statali e non statali in Italia dal 1980 al 2000 (Cnsvu, 2001) e
Settimo rapporto sullo stato del sistema universitario (Cnsvu,
2006)
(1) Immaginiamo un’università con il bilancio in
pareggio, che riceva 100 dal governo e 20 dalle tasse di iscrizione.
Se il contributo pubblico si riduce a 80, il gettito delle tasse deve
ridursi a 16 (il 20 per cento di 80), con una riduzione complessiva
delle entrate pari a 24. Se i risparmi nel costo del personale sono
pari a 10, il taglio effettivo è di 14.
(2) In sette atenei la spesa per il personale supera
il 90 per cento del Fondo ordinario; altri 25 si collocano tra l’80 e
il 90 per cento (Il Sole 24Ore, 27/7/2008).
05/09/2008 Come ridare risorse ai migliori (Daniele Checchi e Tullio Jappelli, http://www.lavoce.info)
Dalla premessa condivisibile che l'università
italiana disperde risorse preziose e le
utilizza in modo inefficiente, avrebbe dovuto
seguire un piano per stimolare l'impegno dei
docenti e istituire incentivi adeguati.
Invece, ancora una volta si è deciso di
distribuire i tagli in modo uniforme tra tutti
gli atenei. Ecco alcune proposte concrete per
incidere sul potere delle lobby accademiche.
Se attuate, darebbero almeno la speranza che
in futuro la distribuzione delle risorse
premierà il merito.
La manovra di finanza pubblica
predisposta con il decreto legge n. 112
del 25 giugno 2008 contiene misure
rilevanti per le università.
Il perno della manovra è costituito
dalla riduzione progressiva, su un arco
quinquennale, del Fondo di finanziamento
ordinario, collegata al rallentamento
degli scatti automatici di anzianità (da
due a tre anni) e alla limitazione delle
assunzioni di personale a tempo
indeterminato. Queste ultime dovrebbero
essere contenute da parte di ogni
università fino al 2012 entro il 20 per
cento delle cessazioni dal servizio.
La reazione del mondo universitario
(senati accademici, conferenza dei
rettori, singole prese di posizione) è
stata univoca: il taglio va respinto
perché determinerà una crisi
finanziaria degli atenei e il
Fondo va ripristinato al livello
precedente. Al di là delle affermazioni
di principio, raramente dagli atenei si
alza una voce che indichi concretamente
quali riforme e quali regole
potrebbero modificare i comportamenti
del corpo docente, con quali modalità
sarebbe possibile premiare il merito,
come combattere le logiche corporative e
il nepotismo. UN'OCCASIONE PERSA
L’effetto deleterio del taglio non è
tanto legato ai singoli provvedimenti di
riduzione o rallentamento della spesa,
quanto piuttosto al fatto che è
distribuito ancora una volta in modo
uniforme tra tutti gli atenei, così come
in altre occasioni l’aumento del Fondo
ordinario. Dati i meccanismi di governo
degli atenei, basati sul potere
di veto di piccole e grandi
corporazioni, non è difficile prevedere
che anche all’interno di ciascuno di
essi il taglio non sarà selettivo, con
attenzione al merito e ai risultati
conseguiti da ciascun ricercatore o
gruppo di ricerca. Sarà a sua volta
distribuito in modo pressoché uniforme
tra facoltà, dipartimenti, altre
strutture accademiche.
Anche questa volta si è deciso dunque di
non utilizzare la revisione delle
modalità di finanziamento pubblico delle
università per introdurre qualche
principio di differenziazione
meritocratica, modificare le
regole di comportamento degli atenei,
istituire incentivi che in futuro
possano portare a miglioramenti di
efficienza. Il risultato sarà
plausibilmente che le logiche
corporative continueranno a prevalere.
Basta citare un esempio: mentre il mondo
universitario protesta per i tagli, tra
aprile e giugno sono stati banditi molti
nuovi concorsi per
professore ordinario e associato. Si
tratta (al 27 luglio) di 685 posti di
professore ordinario e di 1.093 posti di
professore associato. Ciascuno di questi
concorsi prevede due vincitori (o
idonei). Se questi concorsi fossero
stati banditi dopo il 30 giugno
l’idoneità sarebbe stata una sola.
CONSEGUENZE DELLA DOPPIA IDONEITÀ
Perché gli atenei si sono affrettati
a bandire i concorsi entro il 30 giugno?
La risposta è semplice: perché con
due idoneità si hanno
maggiori probabilità di promuovere i
candidati interni, indipendentemente dal
merito. Facendo finta di non sapere che
la seconda idoneità verrà prima o poi
premiata da un altro ateneo, che
inserirà l’idoneo nei propri ruoli, con
il conseguente innalzamento della spesa.
Così, con il meccanismo delle due
idoneità entreranno in servizio
3.556 nuovi docenti, circa il
10 per cento dell’attuale corpo docente
(ordinari e associati); magari non
subito, perché il blocco parziale del
turn-over rallenterà le immissioni in
ruolo.
A questo si aggiunga che una quota
consistente di concorsi (circa il 10 per
cento) è stata attivata dalle
università telematiche,
istituzioni senza alcuna tradizione di
ricerca scientifica. (1)
Anche questi concorsi naturalmente
prevedono due idoneità, ed è altresì
noto che in alcuni casi nessuno dei due
vincitori prenderà servizio presso la
sede che li ha banditi. Nemmeno le
università più prestigiose hanno
rinunciato alle due idoneità.
Complessivamente, le dieci università
che si sono
proclamate di eccellenza, tra cui
Bologna, i Politecnici di Milano e
Torino, Padova, Milano Bicocca, hanno
bandito 497 concorsi, per un totale di
quasi mille idonei, il 28 per cento del
totale, in buona parte concentrati
presso i Politecnici di Milano (94
concorsi e 188 idoneità) e Torino (81
concorsi e 162 idoneità). Nemmeno le
università private hanno saputo
resistere alla tentazione delle due
idoneità: l’Università Cattolica, ad
esempio, ha bandito complessivamente 27
concorsi. Il meccanismo della doppia
idoneità era stato abolito dal ministro
Moratti, ma è stato reinserito da un
emendamento parlamentare nella
Finanziaria per il 2008, in attesa dei
decreti attuativi sui nuovi concorsi
nazionali. Alla vigilia delle riduzioni
dei finanziamenti si è persa quindi
l’ultima, preziosa occasione di
rinnovare il corpo docente su base
maggiormente meritocratica.
PROPOSTE CONCRETE
Dalla premessa condivisibile che
l’università italiana disperde risorse
preziose e le utilizza in modo
inefficiente, avrebbe dovuto seguire un
piano per stimolare l’impegno dei
docenti e istituire incentivi adeguati,
annunciando che in futuro cambierà
radicalmente la distribuzione del
finanziamento pubblico. Ecco qualche
proposta concreta:
1. Già nel 2009 una quota
consistente del Fondo di
finanziamento ordinario, dei posti di
ricercatore, dottorati di ricerca e
assegni di ricerca si potrebbe ripartire
sulla base del punteggio assegnato dal
comitato nazionale di valutazione della
ricerca (il Civr). Lo stesso Civr,
che ha operato molto bene per la
valutazione della ricerca nel triennio
2001-2003, dovrebbe essere prontamente
messo in grado di funzionare e valutare
la ricerca del triennio più recente.
2. Invece che prevedere una riduzione
delle progressioni di carriera per tutti
i docenti, si potrebbero bloccare le
retribuzioni dei
professori ordinari per adeguare agli
standard europei quelle dei ricercatori,
che sono invece scandalosamente basse e
una delle cause della massiccia e
perdurante fuga dei nostri giovani verso
l’Europa e gli Stati Uniti.
3. Andrebbe una volta per tutte definito
lo stato giuridico dei
docenti, con indicazioni precise sul
carico didattico e verifiche periodiche
della produttività scientifica, cui
condizionare la progressione economica,
adesso solo basata sull’anzianità di
servizio. Per limitare il nepotismo, i
concorsi dovrebbero però prevedere
alcune semplici regole di
incompatibilità – ad esempio che non sia
possibile assumere un ricercatore nelle
università in cui si è conseguita la
laurea o il dottorato.
4. Si potrebbe uniformare l'età di
pensionamento dei
docenti (70 anni) a quella degli altri
paesi europei (tipicamente 65 anni, con
facoltà di estensione fino a 67 o 68
anni per i docenti attivi nella ricerca
che ne fanno richiesta), proseguendo
nella direzione già iniziata dal
ministro Padoa Schioppa di abolire
l’istituto del fuori ruolo.
5. Una parte delle risorse pubbliche
potrebbe essere utilizzata per
finanziare cattedre di ricerca
sul modello del
Consiglio europeo della ricerca.
Quelle cattedre offrono la possibilità
di finanziare per cinque anni scienziati
di qualsiasi nazionalità, già presenti
in Italia o provenienti dall'estero,
siano essi o meno nei ruoli delle
università. Le domande potrebbero essere
vagliate dagli stessi comitati
scientifici di area istituiti dal
Consiglio europeo delle ricerche, che
utilizza come unico criterio la qualità
del programma di ricerca. La dotazione
di ciascuna cattedra potrebbe variare
dai 100 ai 200mila euro annui, a secondo
che si tratti di giovani ricercatori o
di scienziati già affermati sul piano
internazionale; il finanziamento
dovrebbe essere utilizzato
esclusivamente per retribuire il
ricercatore e le spese collegate al
progetto. Se ogni anno 150 milioni di
euro fossero attribuiti a tale
programma, stimando un costo medio annuo
di 150mila euro per ciascun progetto,
sarebbe possibile finanziare circa mille
cattedre, premiando i ricercatori
migliori e gli atenei che li ospitano, e
instaurando un sano principio di
concorrenza tra le sedi universitarie.
In questo modo, si aiuterebbero anche
gli atenei a far fronte alla riduzione
del personale che emergerà in seguito al
blocco del turn over.
Questi provvedimenti naturalmente non
rappresentano un progetto di riforma
organico, ma incidono sul potere delle
lobby accademiche. Se
attuati, darebbero almeno la speranza
che la distribuzione delle risorse
future premierà il merito. Chi oggi
propone solo tagli indifferenziati di
risorse non ha la consapevolezza dei
problemi dell’università né il coraggio
di superare gli ostacoli posti dai
conservatori dello status quo.
(1) Si tratta di 93
concorsi e 186 idoneità (il 10 per cento
del totale), così distribuiti: 19 presso
l’Università E-Campus, 32 presso la
Marconi, 23 presso la Uninettuno, 11
presso la Pegaso, 5 presso l’Università
Telematica delle Scienze Umane e 3
presso la Mercatorum.
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