Una singolare
indagine conoscitiva, quella sulla legge 194 del 1978, deliberata il
30 novembre 2005 dalla Commissione Affari sociali. Partita come una crociata
mediatica, si è conclusa il 31 gennaio 2006, quasi in sordina.
Aborti in calo, ma non per le donne migranti
Era stato spontaneo chiedersi, in tempi di risorse
scarse, cosa c’era da sapere che non conoscevamo già sulla legge più
monitorata del nostro paese: abbiamo appreso infatti dalla presentazione
della relazione che il ministro della Salute ha consegnato alle Camere il 19
ottobre 2005, che "la raccolta, il controllo e l’elaborazione dei dati
analitici di tutte le Regioni rappresenta un processo lungo e delicato che
impegna a fondo tutto il sistema di sorveglianza, dalle strutture
periferiche a quelle centrali. Tale sistema, va detto con orgoglio, è per
completezza, accuratezza e tempestività tra i migliori del mondo".
(1)
Eppure, i risultati della relazione non sono privi di interesse. Vi
possiamo leggere che dal 1983 al 2003 le interruzioni volontarie di
gravidanza si sono ridotte in valore assoluto del 43,5 per cento, mentre il
tasso di abortività è passato da 16,9 a 9,6 Ivg per mille donne in età
feconda (15-49 anni) e si configura tra i più bassi non solo d’Europa, ma
del mondo. In realtà, a rallentare la decrescita del fenomeno negli ultimi
anni, contribuiscono notevolmente le donne migranti che rappresentano nel
2003 il 25,9 per cento delle donne che hanno effettuato una
interruzione di gravidanza nel nostro paese. È un dato particolarmente
elevato se si considera che la percentuale degli stranieri residenti sul
totale della popolazione residente ammonta al 4,5 per cento. La relazione
sottolinea poi che "le donne con cittadinanza straniera si trovano oggi
come si trovavano le italiane all’inizio della legalizzazione. Il fatto (è)
che le cittadine straniere ricorrono di più ai consultori familiari rispetto
alle italiane e tenendo conto che tali servizi hanno svolto un ruolo
fondamentale nella riduzione del rischio di abortire, si può ben sperare in
una più rapida riduzione del rischio del ricorso all’interruzione di
gravidanza per le cittadine straniere, se si avrà cura di potenziare i
consultori familiari secondo le indicazioni della normativa vigente (legge
34/96, Pomi e Lea)". (2)
Aborto delle clandestine e aborti clandestini
Maggiore preoccupazione destano i dati sulla
giurisdizione volontaria delle minorenni, riportati nella relazione del
ministro di Grazia e giustizia. Anch’essa registra il progressivo aumento
del numero delle migranti che ricorrono all’interruzione volontaria di
gravidanza con un conseguente abbassamento dell’età media. (3) Spesso
il fenomeno, strettamente correlato al mercato sessuale, acquisisce
visibilità, coinvolgendo anche le clandestine, grazie ai progetti di
riduzione del danno (come livello aggiuntivo delle prestazioni in alcune
realtà territoriali). In riferimento alla giurisdizione penale, ovvero alla
repressione delle violazioni delle disposizioni penali della legge (aborto
clandestino, aborto senza il consenso della donna eccetera), la relazione
del ministro di Grazia e giustizia riporta ovviamente solo i casi
denunciati, ma abbiamo appreso dall’indagine che l’Istituto superiore di
sanità quantifica ancora in circa 20mila i casi di aborti clandestini al
2001 (contro i 100mila stimati al 1982), fortemente concentrati nella "zona
grigia" dello sfruttamento della prostituzione, come è stato osservato
nell’audizione del sottosegretario di Stato per la Giustizia. È evidente
dunque che ci troviamo di fronte a una nuova soggettività, le donne
migranti, che necessita urgentemente di tutela sociale, di servizi che
prevengano "il caso di donne che arrivano alle strutture del servizio
sanitario nazionale in gravissime condizioni di salute a causa del ricorso a
pratiche illegali volte a provocare un aborto".
Il ruolo dei consultori a sostegno della genitorialità
Molto importante è poi il fatto che, come è stato
ricordato dal rappresentante delle Regioni, le interruzioni di gravidanza
occupano mediamente meno del 10 per cento dell’attività dei consultori,
contro il 30-40 per cento relativo alla procreazione cosciente e
responsabile, un 20-30 per cento all’attività di prevenzione oncologica, e
un altro 20-30 per cento rivolto al percorso nascita e alla preparazione
all’ingresso per il parto in ospedale. Senza alcun dubbio, si deve quindi
riaffermare l’esternalità positiva generata dai consultori nella loro
attività di prevenzione e di sostegno alla genitorialità, tanto è che
l’Organizzazione mondiale della sanità considera i nostri consultori
familiari come il modello di riferimento dei servizi di primo livello per la
salute della donna, soprattutto per l’approccio multidisciplinare seguito.
Nel documento conclusivo approvato dalla Commissione Affari sociali,
riemergono problemi da tempo ben noti. Sapevamo già, e l’indagine lo ha
riconfermato, che "l'attuale sistema di monitoraggio sulla rilevazione
delle Ivg e delle caratteristiche degli interventi appare valido e
scientificamente molto affidabile", ma sapevamo anche in che condizioni
si trovano oggi a operare le nostre meritevoli équipe di esperti con
riferimento a "l'assenza delle risorse finanziarie e la fatiscenza delle
strutture; la scelta di utilizzare personale precario, con contratti di
breve durata, oppure di impiegare personale «ad ore», senza un rapporto
stabile e continuo con la struttura", condizioni queste peraltro comuni
ad altri comparti della pubblica amministrazione.
Il vivace dibattito della Commissione è stato dunque attraversato
positivamente dalla sfilata delle audizioni, che hanno sottolineato la
necessità di finanziamenti aggiuntivi per rilanciare queste
importanti strutture pubbliche, e hanno permesso di ricondurre l’attività
"deficitaria" dei consultori al fatto che le innumerevoli norme della
Finanziaria che riguardano il comparto sanità né oggi né ieri ne hanno
disposto il potenziamento con risorse umane e finanziare aggiuntive per
raggiungere l’obiettivo di un consultorio ogni 20mila abitanti, previsto
dalla legge 34/96 e ancora lontano, specialmente al Sud.
Donne sotto tutela o un’adeguata tutela per le donne?
Alle polemiche sollevate a proposito del ruolo da
riconoscere a talune associazioni di volontariato, l’indagine ha
dovuto rispondere che il loro aiuto può essere richiesto liberamente dalle
donne che affrontano una "maternità difficile dopo la nascita" (articolo 2,
legge 194/78). Quanto alla tutela delle donne (ma non solo delle donne),
maggiori sforzi dovrebbero essere spesi nell’attuazione della legge 328 del
2000 sulla rete dei servizi sociali.
A chi voleva le donne sotto accusa, si potrebbe forse consigliare una nuova
indagine sul perché la percentuale dei parti cesarei sul totale dei
parti sia così alta e in progressivo aumento nel nostro paese: il dato
nazionale del 2003 (l’ultimo disponibile sul sito del ministero della
Salute) raggiunge il 36,7 per cento con una variabilità compresa tra
il 20 per cento della provincia di Bolzano e il 58 per cento della Campania.
Dati che hanno fatto salire al terzo posto nel 2003 "il parto cesareo senza
complicazioni" nella graduatoria dei primi 10 Drg (raggruppamenti
diagnostici omogenei), contro la quinta posizione nel 2001. (4) Sarà
una questione di tariffe? La domanda, così importante per la libertà
di scelta e la salute delle donne, attende una risposta.
(1) Atti parlamentari, 2005, doc. XXXVII, n. 9, p.
6.
(2) Atti parlamentari, 2005, doc. XXXVII, n. 9, p. 23.
(3) Atti parlamentari, 2005, doc. XXXVII, n. 8.
(4) Ministero della Salute, Rapporto annuale sull’attività di
ricovero ospedaliero, dati Sdo 2003
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