Nel mezzo di un’estate già prodiga di tragiche notizie,
gli italiani sono venuti a conoscenza del rischio che in tempi brevi si
sviluppi una pericolosa pandemia influenzale con costi in vite umane
comparabili a quelli delle più gravi epidemie del secolo scorso (Spagnola,
Asiatica, Hong Kong). Il virus A(H5N1), responsabile
dell’influenza aviaria, dal lontano Sud-Est Asiatico in cui prosperava da
quasi un decennio, ha raggiunto e infettato allevamenti in Russia e
Kazakhstan, e con l’approssimarsi della stagione migratoria dei volatili si
accinge ad arrivare fin nel cuore dell’Europa. Si tratta di un’emergenza
molto seria e di dimensioni planetarie, che merita attenzione non soltanto
per individuare e attuare le misure idonee a limitare i rischi, sanitari ed
economici, oggi così evidenti, ma anche perché interrogarsi sulle ragioni
del ritardo con il quale si sta intervenendo equivale ad occuparsi di un
tema cruciale: l’apparente inadeguatezza dei governi e dei mercati ad
affrontare eventi molto incerti, ma potenzialmente catastrofici.
Due possibili strade
La storia del virus A(H5N1), nelle sue tappe essenziali,
è ormai nota: isolato, per la prima volta, più di un secolo fa, proprio in
Italia, nonostante la sua carica infettiva e la capacità di mutare
combinandosi con i virus che colpiscono altre specie animali, non destò
particolari preoccupazioni, in quanto ritenuto incapace di compiere il salto
della barriera di specie necessario per il contagio umano. Tuttavia, nel
1997 a Hong Kong, è stata documentata l’insorgenza dell’influenza aviaria
tra il pollame e 18 casi, di cui 6 mortali, di contagio umano. Nonostante le
numerose prese di posizione di scienziati e organizzazioni sanitarie (OMS)
che mettevano in guardia sull’eventualità di una possibile trasmissione
diretta da uomo a uomo del virus A(H5N1), confidando nel fatto che solo
l’esposizione diretta al virus potesse determinare l’infezione, nessuna
azione fu intrapresa per la produzione di un vaccino efficace. Allo stesso
tempo, i governi nazionali non ritennero opportuno costituire scorte
sufficienti dell’antivirus (oseltamivir phosphate, prodotto e
commercializzato con il nome di Tamiflu dalla Roche) capace di prevenire gli
effetti collaterali connessi al contagio. Tuttavia, nel settembre dello
scorso anno in Thailandia si è avuto quello che potrebbe essere il primo
caso di trasmissione umana. I dubbi, al riguardo, sono ancora oggi irrisolti
ma appare oramai indiscutibile che il virus possa evolvere in modo da
trasmettersi tra gli uomini - dunque, non soltanto per contatto con pollame
vivo - dando luogo a una drammatica pandemia.
Una strategia di riduzione dei rischi dovrebbe, naturalmente,
prevedere interventi sui canali di diffusione geografica dell’influenza
aviaria e un’opportuna informazione delle popolazioni sulle più importanti
cautele. C’è da sperare che i governi nazionali e sovranazionali compiano
passi efficaci, e con tempestività, in questa direzione. Ben più complesso è
il discorso riguardante i farmaci, giacché rispetto a questo tema affiorano
quelli che potrebbero chiamarsi i fallimenti di precauzione rispetto a
rischi catastrofici.
Le terapie farmacologiche possibili dell’influenza aviaria sono di due tipi:
l’assunzione di un antivirale al manifestarsi dei primi sintomi e/o una
campagna preventiva di vaccinazione. Il Tamiflu, del cui brevetto è
proprietaria la Roche, è un antivirale considerato efficace contro il virus
A(H5N1). La produzione di questo farmaco è concentrata in uno stabilimento
in Svizzera. La Roche, di fronte alle critiche per una produzione
insufficiente mosse da tempo dall’OMS, ha risposto che l’assenza di una
domanda certa di mercato – non adeguatamente sostenuta da una politica
di costituzione delle scorte da parte dei governi - rendeva assai poco
conveniente investire nell’ampliamento della capacità produttiva. Gli
effetti di un’offerta limitata dalle capacità produttive potrebbero
rivelarsi in tutta la loro drammaticità allorchè le autorità sanitarie
nazionali cercassero di incrementare le scorte di Tamiflu.
Il discorso sul vaccino è assai più complesso, coinvolgendo aspetti di
ricerca, di normative e di mercato. All’inizio del mese di agosto dagli
Stati Uniti è giunta la notizia di una forte risposta immunitaria in 113 dei
452 volontari sani di età inferiore ai 65 anni, sottoposti dall’industria
farmaceutica Sanofi-Pasteur a un vaccino sperimentale. Pur trattandosi di
una notizia positiva, il prof. Fauci, che sovrintende le sperimentazioni, si
è affrettato a chiarire che si tratta di evidenze preliminari e che allo
stato non c’è alcun piano per la produzione di massa di un eventuale
vaccino. Inoltre permangono, dati anche gli alti dosaggi ipotizzati rispetto
ai comuni vaccini influenzali, i problemi connessi a una
produzione-somministrazione su vasta scala.
Incentivi e nuove regole
Gli eventi brevemente riportati testimoniano come la
mancata applicazione del Principio di Precauzione si sia tradotta in un
colpevole ritardo nell’avvio della ricerca di vaccini specifici contro il
virus A(H5N1) e nell’adeguamento della produzione di antivirali efficaci.
L’OMS ha inviato per tempo segnali allarmanti ma governi e imprese hanno
scelto un diverso corso di azione. In particolare, il comportamento
dell’industria farmaceutica (Aventis, Chiron, Sinovac, Roche) mostra
l’indisponibilità delle imprese private a sostenere i rischi connessi
all’incertezza sulla domanda futura. Non sarebbe stato allora compito dei
governi (nazionali e sovranazionali) provvedere alla copertura dei costi
necessari a indurre gli agenti privati a comportarsi in accordo con un
criterio decisionale precauzionale?
In presenza di una domanda di mercato incerta e/o insufficiente, le autorità
pubbliche dovrebbero negoziare con le imprese private i meccanismi
incentivanti atti all’attivazione delle linee di ricerca e di
produzione. Nella valutazione dei costi di tali contratti, le
autorità pubbliche dovrebbero dotarsi di strumenti moderni, in grado di
superare i limiti e l’inaccuratezza delle procedure standard. In
particolare, la trattazione dell’ambiguità o incertezza scientifica richiede
l’applicazione di nuove regole decisionali che mostrano come
l’ottenimento di risultati migliori in termini di benessere pubblico non sia
necessariamente associato a più alti costi per l’incentivazione.
La questione, come visto, è complessa ma va direttamente al cuore del
Principio di Precauzione, giustamente invocato di fronte a eventi
incerti ma potenzialmente catastrofici. Ai governi europei e, soprattutto,
all’Unione Europea - che del Principio di Precauzione si è stata fautrice -
occorre chiedere, anche adesso e per quello che è ancora possibile, se sono
pronti a sostenere i costi che la razionale applicazione di questo principio
comporta.
Per approfondimenti: Basili-Franzini, 2005, The Avian Flu
Disease: A Case of Precautionary Failure, Quaderni del Dipartimento di
Economia Politica 454, Siena, http://www.econ-pol.unisi.it/quaderni.html.).
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