Se un navigatore approdasse di
questi tempi sul sito www.istat.it e cercasse di sapere quanti
sono gli italiani, troverebbe che all'inizio del 2000 erano
57.679.895, all'inizio del 2001 57.844.017 (164.122 in più), dieci
mesi più tardi 56.995.744 (848.273 in meno), a fine 2001 56.993.742
(solo 2002 abitanti in meno), e a fine 2002 57.321.070 (327.328 in
più).
E se la navigazione continuasse senza incagli, si accorgerebbe che
la stima degli incrementi demografici pubblicata (pagine
"Bilancio demografico nazionale" e "Indicatori demografici") è
completamente diversa da quella rilevata: l'Istat stimava un
incremento del +0,20 per cento tra il 2000 e il 2001 diventato in
realtà un –1,47 per cento e un incremento stimato tra il 2001 e il
2002 del +0,14 per cento diventato del + 0,57 per cento. (vedi a
lato il grafico sugli incrementi registrati)

Popolazione legale e reale
In Italia c'è una legge (Dpr 276/22-5-01, articolo 3, comma 2)
che definisce come popolazione legale quella rilevata al
censimento ed è a questa che per dieci anni ci si deve attenere
ogni qual volta una norma vi faccia riferimento, come ad esempio la
legge elettorale per quanto riguarda la definizione dei collegi
elettorali.
Ma il concetto di "legale" non corrisponde necessariamente a quello
di "reale"; ed è difficile credere che nei dieci mesi precedenti al
censimento sia stata "reale" la diminuzione di 848.273 abitanti, e
sia altrettanto "reale" la crescita di 327.328 abitanti nel 2002.
Qualcosa di "irreale" c'è di sicuro in questi dati.
Il fatto è che in Italia, come in ogni paese del mondo, le
rilevazioni anagrafiche e quelle censuarie non corrispondono: le
prime tendono a sovrastimare la popolazione, le seconde a
sottostimarla. Molti lavori scientifici (Mulry 1993, Breiman 1994,
Maccheroni 2000, Freedman 2001) hanno studiato il problema e hanno
anche suggerito possibili soluzioni per stimare la misura
dell'incompletezza dei censimenti, e in qualche modo, per
correggerli.
Il problema comunque è ancora più grave se questi errori non sono
distribuiti in modo uniforme tra le Regioni: il censimento
2001, ad esempio, ha registrato una popolazione inferiore di 189.889
unità nel Lazio, cioè il 3,58 per cento in meno, e una popolazione
superiore di 1.386 unità, cioè lo 0,1 per cento in più nelle Marche.
Quali potrebbero essere le cause delle diversità tra le
stime anagrafiche e i dati di censimento?
Potrebbe innanzitutto esser sbagliato il dato dei censimento
precedente (cioè del 1991).Oppure, ma questo è davvero improbabile,
le anagrafi potrebbero aver mal registrato i dati relativi alle
nascite o ai decessi. Più credibile è invece che le anagrafi non
abbiano registrato con cura i movimenti tra i comuni italiani, o da
e per l'estero. Infine, l'errore potrebbe esser dato da un mal
funzionamento della rilevazione censuaria 2001.
Errori nella registrazione degli spostamenti tra comuni diversi
sembrano verosimili: leggendo sul sito internet dell'Istat, il
numero dei soli iscritti e cancellati da e per altri comuni italiani
nel 2002, la somma algebrica (+iscritti-cancellati) nazionale non si
avvicina a zero ma è di circa 65mila unità, con le regioni del Nord
che hanno una somma positiva e quelle del Sud negativa.
Di entità minore probabilmente dovrebbero essere gli errori di
mancata cancellazione degli stranieri, il che però sicuramente può
accadere.
In ogni caso, la cosa più probabile è che le disparità di cifre
abbiano più cause. Le analisi post-censuarie dovrebbero segnalare
quale tra quelle elencate è maggiormente responsabile.
Dati e ripartizione delle risorse
L'impatto delle variazioni di cifre relative alla popolazione
diventa particolarmente rilevante se si utilizzano questi dati per
determinare la ripartizione di risorse da assegnare a
ciascuna Regione, come ad esempio accade nella sanità.
Mediamente per ogni residente una Regione riceve poco meno di 1.400
euro (pur con un sistema che prevede un aggiustamento del valore
secondo parametri demografici ed epidemiologici): se all'improvviso
si trovasse con 190mila abitanti in meno (come il Lazio), avrebbe
una decurtazione di 266 milioni di euro.
In realtà, il calcolo corretto è un po' diverso in quanto la
riduzione dell'assegnazione non risulterebbe determinata dal calo
assoluto della popolazione, bensì dal calo relativo che nel caso del
Lazio sarebbe il 3,58 per cento/1,47 per cento (1,47 per cento è il
calo medio italiano) cioè il 2,43 per cento corrispondente a circa
180 milioni di euro.
È chiaro che nessun sistema sanitario, data la sua ana-elasticità
sul versante dell'offerta, potrebbe reggere a una tale diminuzione
improvvisa del suo finanziamento. È per questo motivo che l'accordo
tra le Regioni per la ripartizione delle risorse disponibili nel
2004 ha scelto di non utilizzare il dato di censimento e ha invece
continuato a riferirsi al dato, ormai obsoleto, della popolazione
anagrafica del 31/12/2000.
Non si potrà certo pensare di continuare però a usare questi dati
anche nei prossimi anni. E allora che fare?
Sarebbe innanzitutto opportuno che l'Istat, pur difendendo anche a
oltranza la validità legale dei dati di censimento (che vengono
rilevati con il concorso dei comuni), accetti di fornire, come
accade in molte altre nazioni, una stima delle perdite del
censimento rendendo pubblici i risultati dell'indagine di
completezza che ha effettuato.
In tal modo, si avrebbe almeno una misura dell'affidabilità dei dati
di censimento.
L'incremento elevato di popolazione negli anni successivi ai
censimenti (lo 0,57 per cento nel 2001) evidenzia come le
regolarizzazioni anagrafiche post-censuarie dimostrino
l'incompletezza dei censimenti. Peraltro, il censimento è
indispensabile per poter eventualmente rilevare il mal funzionamento
di certe anagrafi che non hanno corretto i loro elenchi depennando
coloro che non sono più residenti. Chi può dire con certezza, ad
esempio per il Lazio, se era sbagliato il dato anagrafico o è
sbagliato il dato di censimento?
Infine, per usi quali la determinazione delle quote di
accesso al finanziamento per la sanità, sarebbe comunque necessario
che il trend dell'ammontare della popolazione possibilmente non
fosse affetto da variazioni importanti troppo repentine, siano
queste vere o erronee. Parrebbe allora opportuno procedere a uno
smussamento delle variazioni nel tempo: una possibile soluzione
semplice potrebbe essere quella di adottare come popolazione di
riferimento la media delle popolazioni anagrafiche degli
ultimi tre anni disponibili. A fine 2004, ad esempio, si potrà avere
la media delle popolazioni di fine anno del 2003-2001.
Per evitare fraintendimenti, è opportuno riaffermare la
convinzione che i censimenti realizzati dall'Istat sono di elevata
qualità statistico-organizzativa, almeno pari a quella dei migliori
censimenti europei.
Ma è appunto per questo che l'Istat non dovrebbe arroccarsi nella
difesa strenua della "verità legale". Più opportuno sarebbe
riconoscere gli inevitabili errori di ogni censimento e fornire agli
utenti istituzionali una stima quantitativa di questi.

Incrementi calcolati sulla tabella precedente e incrementi
(calcolati o stimati) pubblicati dall'Istat su Internet. Il
censimento evidentemente ha stravolto i valori stimati.
Per saperne di più
Mulry M. H., Spencer B. D., Accuracy of 1990 Census and
undercount adjustement, JASA, 88 (1993), 1080-1091.
Breiman L., The 1991 Census adjustement: undercount or bad data?,
Statistical Science, 9 (1994), 458-437.
Freedman D.A., Wachter K.W., Censud Adjustement: statistical promise
or illusion?, Society, 39 (2001), 26-33.
Maccheroni C., Incoerenze fra risultanze anagrafiche e censuarie nei
comuni italiani al 1971, 1981 e 1991, Studi Demografici,
11 (2000), Università Bocconi, Istituto di metodi quantitativi.