Con la decisione delle Regioni di salire sull'Aventino,
rifiutandosi di partecipare agli usuali incontri con i
rappresentanti del Governo, il conflitto tra Stato e Regioni ha
raggiunto livelli di asprezza inusitati, perfino per un paese
abitualmente rissoso come il nostro.
I motivi del contendere
I motivi del conflitto sono molteplici, dalla (mancata)
attuazione del Titolo V, alle nuove proposte di riforma
costituzionale, assai penalizzanti per le Regioni, al blocco delle
addizionali regionali.
Ma su tutti, predominante è il problema del finanziamento della
sanità, che da sola costituisce il 75-80 per cento del totale
della spesa delle Regioni (a statuto ordinario).
Nonostante il finanziamento sia cresciuto negli ultimi anni (vedi
Bordignon Turati), le Regioni spendono per la sanità più di
quanto incassino e fanno fronte alle esigenze di cassa aumentando le
tariffe, razionando i servizi o indebitandosi (o più esattamente,
per vincoli costituzionali e di legge ordinaria, facendo indebitare,
in forme diverse, le proprie Asl).
Il Governo rifiuta di stanziare finanziamenti addizionali,
affermando che la responsabilità dei deficit è delle Regioni,
incapaci di organizzare la produzione dei servizi come dovrebbero.
Le Regioni sostengono invece che la responsabilità è del Governo,
che da un lato impone di offrire i servizi standard del sistema
sanitario nazionale (i cosiddetti "livelli essenziali di
assistenza") e determina i prezzi dei principali fattori produttivi
(i contratti del personale medico e infermieristico), e dall'altro
non garantisce i finanziamenti necessari.
Chi ha ragione?
La domanda è importante per più ragioni.
Ovviamente, per il ruolo estremamente delicato che la sanità
pubblica svolge nel garantire la salute dei cittadini.
Ma anche per il ruolo esemplificativo che il modello di
finanziamento e organizzazione della assistenza sanitaria assume
rispetto alle altre materie che dovrebbero essere devolute alle
Regioni. Sia che resti una materia concorrente (come è nell'attuale
Titolo V) o diventi una materia esclusiva delle Regioni (come nella
proposta della maggioranza in discussione al Senato), infatti, il
modello di organizzazione sanitaria del nostro paese è attualmente,
e sarà in futuro, determinato dall'azione congiunta dei due
governi.
Allo Stato spetta e spetterà la determinazione e il monitoraggio dei
livelli standard dei servizi (lettera m, articolo 117 della
Costituzione), la legislazione quadro e la garanzia ultima che a
ciascuna Regione arrivino risorse sufficienti per garantire
l'offerta degli standard.
Alle Regioni, la gestione e l'organizzazione dei servizi, la
legislazione di dettaglio, e purché autonomamente finanziati, la
possibilità di offrire servizi addizionali a quelli standard
nazionali.
La riforma costituzionale in discussione (che ingloba la devolution
leghista) cambia ben poco in questo schema, eccetto il fatto che in
futuro dovrebbe essere una sola Camera a legiferare sui servizi
essenziali. Col tempo, lo stesso quadro di rapporti tra governi
descritto per la sanità dovrebbe gradualmente estendersi a tutte le
altre materie devolute alle Regioni dal Titolo V, tra cui, in
primis per importanza quantitativa e qualitativa, l'istruzione.
I conflitti tra governi
Che due o più governi interagiscano nella definizione delle
politiche è del tutto normale, specie quando si tratta di materie
così fondanti dell'identità nazionale come l'istruzione o la sanità.
Del resto, non c'è paese, federale o meno, in cui questo non
avvenga. Tuttavia, il fatto stesso che questa interazione esista,
solleva numerosi punti di criticità, ben noti anche a altri paesi.
In primo luogo, c'è un problema di coordinamento (tra Stato e
Regioni, ma anche tra le stesse Regioni).
In secondo luogo, c'è un rischio latente di irresponsabilità
finanziaria. Infatti, poiché su queste materie la responsabilità
politica, in quanto congiunta, non è ben definita, esiste la
possibilità che ciascun livello di governo tenda a scaricare
sull'altro responsabilità e oneri finanziari. I risultati possono
essere conflittualità intergovernativa, aumento dei debiti locali e
esplosione della spesa.
Fenomeni che sembrano tutti presenti nel caso italiano (o almeno
sembrano esserlo stati) per la sanità. E poiché tra breve lo stesso
modello di rapporti tra governi potrebbe estendersi a numerose altre
materie, il decentramento costituzionale italiano preoccupa
organizzazioni internazionali,
Commissione europea e società di rating, che guardano con
crescente sospetto all'accumularsi dei deficit a livello locale.
I numeri
Rischiamo dunque la deriva argentina? Naturalmente, nessuno ha la
sfera di cristallo per prevedere il futuro. Ma si può cercare di
anticiparlo guardando al passato. E l'analisi dell'evoluzione della
spesa sanitaria nell'ultimo quindicennio non autorizza conclusioni
drammatiche. (vedi
Bordignon Turati)
È vero che l'interazione tra i due livelli di governo nella
definizione delle politiche sanitarie ha generato e genera un
complesso gioco strategico, del quale deficit e conflitti
intergovernativi sono parte integrante.
Ma è anche vero che nonostante questi il sistema si è dimostrato
finora in grado di funzionare, garantendo controllo della spesa
e un accettabile livello di qualità dei servizi. Naturalmente, ciò
non significa che il sistema non possa essere migliorato.
Federalismo vero e annunciato
Ma se le cose stanno così, allora perché il conflitto Stato e
Regioni ha raggiunto oggi toni tanto aspri ? Per due ragioni
fondamentali.
Primo, perché siamo in un periodo di vacche magre, o meglio
scheletriche, e le Regioni temono che risorse addizionali per la
sanità questa volta non ci siano davvero.
Secondo, perché esiste una contraddizione sempre più marcata e
stridente tra il federalismo continuamente annunciato e la
realtà dei fatti. Alcuni esempi.
Nel 2001 il Governo ha messo in piedi un complesso meccanismo di
incentivi sulla sanità, mettendo a disposizione risorse addizionali
per il triennio 2001-2004 se le Regioni si fossero fatte carico (in
parte) dei deficit pregressi, utilizzando se necessario a questo
fine le proprie risorse tributarie. Benissimo. Peccato però che lo
stesso Governo, a seguito dell'incremento risultante nei tributi
propri regionali (Irap e addizionale Irpef) avvenuto nel 2002, abbia
poi deciso di bloccare le addizionali regionali, rendendo
perciò irraggiungibile l'obiettivo per una buona parte delle
Regioni. Ancora. Il Governo nel 2002 ha definito, come doveva, i
livelli essenziali di assistenza. Si è tuttavia guardato bene da
quantificarli in termini di bisogni di spesa, con il risultato che
non esiste relazione alcuna tra questi livelli e il finanziamento
assegnato alle Regioni.
Né, del resto, si è ancora definito come questi Lea vanno
interpretati, cioè non si è ancora definito qual è il grado
effettivo di autonomia delle Regioni nell'organizzazione relativa a
questi servizi.
Il Governo, poi, si appresta a affrontare il problema della
determinazione del contratto dei medici ospedalieri, senza
coinvolgere le Regioni, come è suo diritto. Tuttavia, sono poi le
Regioni a dover pagare questi contratti, e non esiste nessun
meccanismo automatico che garantisca la copertura finanziaria degli
aumenti contrattuali.
Si potrebbe continuare a lungo con gli esempi.
Il punto fondamentale è che non si può continuare a dichiararsi
federalisti a parole, avanzando addirittura nuove e più marcate
riforme costituzionali nel senso del decentramento, e nello stesso
tempo andare nella direzione opposta, eliminando gli spazi di
autonomia, sui tributi e sull'organizzazione dei servizi, che le
Regioni avevano conquistato alla fine della passata legislatura.
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23-03-2004 15:52:00 |
Gino Spadon |
Spesa sanitaria: risparmi possibili |
Ho visto che in questi giorni avete prestato particolare
attenzione ai problemi strutturali che incidono sulla spesa sanitaria. Al di
là di questi problemi di ordine generale vorrei segnalarvi una prassi che,
riguardando almeno il 40% degli assistiti, comporterebbe, una volta
corretta, ragguardevoli risparmi. Sia il caso, comunissimo, di un assistito
indirizzato dal suo medico di base presso uno specialista e da questi
invitato a effettuare un esame diagnostico (di laboratorio o strumentale) al
fine di dare più ampio fondamento alla diagnosi. Questo semplice iter, che
implica defatiganti attese per l'ottenimento di 3 impegnative e per l'
effettuazione di 3 prenotazioni presso i centri Ulss, comporta anche, da
parte dell'assistito, il pagamento di 3 ticket e, da parte del Servizio
Sanitario Regionale, il versamento di un doppio compenso per il medico
specialista: uno per la visita e uno per la lettura del referto relativo
all'esame diagnostico da lui stesso prescritto. Ora, è proprio l'assurdità
del secondo pagamento che io ho segnalato all'Assessorato Regionale alla
Sanità
del Veneto, il quale mi ha risposto giustificandolo con il fatto che,
essendo la visita specialistica e la lettura del referto due atti distinti,
essi vanno distintamente remunerati. Giustificazione evidentemente capziosa
poiché i due atti, diversi per successione temporale, sono in realtà
strettamente solidali: senza la visita, infatti, non ci sarebbe esame
diagnostico, senza lettura del referto la visita rimarrebbe tronca di senso.
Del resto, a testimonianza di questa interdipendenza dei due atti sta il 3°
comma del DGR della Regione Veneto n°4776 del 30.12.1997 il quale statuisce
di "ricomprendere nella visita medica o nella prestazione principale ogni
procedura accessoria, ma qualificante la buona pratica medica".
Se così stanno le cose, perché non procedere come segue? Una volta ritirato
il referto dell'esame diagnostico, l'assistito potrebbe inoltrarlo (per via
postale, via fax, o direttamente) allo specialista che l'ha prescritto. Solo
quando questi (ma è ben lungi dall'essere sempre il caso) ritenesse
necessario o un nuovo esame diagnostico o una nuova visita, l'assistito
verrebbe invitato a ripresentarsi al centro specialistico previa nuova
impegnativa e pagamento di nuovo ticket. Questa soluzione di buon senso
concorrerebbe a disintasare i centralini di prenotazione, a sfoltire le
liste di attesa e a ottenere un grande risparmio di tempo, di fatiche e di
denaro sia pubblico che privato.
Gino Spadon |
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