Roma
si è svegliata sugli striscioni della vergogna, apparsi
poco distanti dal Verano, nel cuore della città. Parole
di disprezzo e razzismo sulle vittime di Castelvolturno,
sulla morte del giovane Abdul. Teste rasate e giubbotti
di pelle, una ventina di ragazzi così conciati è quello
che riferisce un testimone. Dobbiamo pensare ai soliti
violenti di estrema destra, agli irriducibili skinheads,
al solito gruppo di cani sciolti giovanissimi e figli
della noia sociale. In ogni categoria, sul filo di ogni
disquisizione nominalistica sono comunque tutti figli
dell’Italia, miseria della patria. Parole pesanti anche
su Schifani, per l’occasione ebreo, ma bastano le parole
di Verdini a nome di tutta Forza Italia a esprimere
fraterna solidarietà per il Presidente del Senato. Non
serve una parola di più. Perché tutta la rabbia è contro
quest’orda di barbari, tutta l’emozione e ogni pensiero
va per queste vittime. Un ragazzo morto sotto i bastoni
impietosi di due mercanti milanesi, e a Castelvolturno
sei giovani uccisi sotto i colpi della gomorra campana.
Casi assai diversi, da guardare ancora meglio.
Accomunati dal nero della pelle. Casuale coincidenza,
fatalità della cronaca, eppure tutti neri. Un
regolamento di conti, vittime e basta, tutto questo lo
diranno le indagini. Ma di sicuro meno difesi degli
altri e tutti morti per mano del carnefice italiano.
Il fiume delle polemiche sulle proteste eccessive dei
ghanesi che hanno distrutto auto e vetrine per difendere
i loro morti, trovano il posto che meritano. Un ruolo
preciso nei colpi di fioretto tra legittimità e
legalità. Da biasimare certamente, ma senza il pretesto
di raccogliere il fatto per nascondere le ragioni. Una
tentazione questa che conosciamo bene. Occultare la
sostanza per inseguire la sfumatura di un nome e di una
diatriba giudiziaria come sempre millenaria. La sostanza
al fondo degli eventi si chiama camorra, criminalità. Le
scene sono quelle di gente che intanto sa scendere in
piazza, che sa gridare, che sa sfidare.
Con la polizia dall’altra parte. Nessuno sta con loro.
Se non sono delinquenti sono stranieri, se sono
stranieri saranno per tutti clandestini. Se sono
italiani, come lo era Abdul e la sua famiglia, uno di
noi, allora semplicemente non sei bianco. E tutto prende
una luce meno accecante, tutto sfuma nella condanna e
nella memoria. E il volgare razzismo italiano, i finti
comunisti, i buonisti della sinistra storica, il finto
cattolicesimo non gridano più niente. Perché niente è
quello che sono diventati.
Mentre sfilano di paese in paese le immagini delle
persiane chiuse e dei criminali invisibili, il Ghana che
è da noi scende in piazza, nelle nostre piazze. Che
oltraggio, sussurra il coro unanime. Tranne qualcuno di
noi che porta un fiore e lascia un biglietto sulla
serranda bagnata di sangue. Perché qualcuno non trova
scuse, né attenuanti nel colore della pelle, né sul
passaporto, né sulla clandestinità.
Allo stesso modo la furia delle sprangate sul corpo di
Abdul non è stata – dicono - alimentata da odio
razziale. Eppure Fausto e Daniele Cristofoli hanno
colpito a morte un giovane sospettato di aver rubato
qualche biscotto dal loro negozio. Eppure Abdul non era
bianco. Eppure sullo striscione c’è scritto “Milano-1”.
Il martire negro si presta bene alle campagne
discriminatorie e fasciste; eppure nessuno si è troppo
distrutto a ragionare sull’efferatezza del delitto, sul
modo criminale con cui è stata ucciso. Ma non è per
razzismo, non è per il colore della pelle, non è perché
fosse nato in Burkina Faso e non sotto i Navigli. Solo
era un negro. Forse un ladro. E questo basta a
dimenticare ogni giorno un po’, e ogni giorno sempre più
velocemente.
Non stupiscono le condanne trasversali che arrivano
sulle scritte di questi poveretti che minacciano notte
tempo gli stranieri, o soltanto gli africani. Da
Gasparri alla Finocchiaro le parole severe di condanna
doverosamente si assomigliano. E come potremmo
raccontare un’altra storia?
Ma quello che impensierisce, la minaccia vera, non è
quella dei ladri di notte, che scrivono- mascherati da
nazisti - striscioni da tifoseria becera. Il nemico vero
cammina ogni mattina nelle strade delle città. Stretto
al fianco dei loro fazzoletti bianchi sui cui stendono
le merci da vendere, o al piano di sotto delle case da
cui esce l’odore del cous cous.
Il nemico vero sono tutti gli assenti al funerale di
Abdul. Quelli che, ancora nel Sud, mettono il viso tra
le mani urlanti, senza muovere un passo sulla via della
legalità. Basta alle prediche vane. Tutti questi sono
quelli che dicono con semplicità e fermezza di non
essere razzisti e che un attimo dopo scrollano le spalle
con sufficienza per la strage dei sei africani e per la
fine ingiusta di Abdul.
Così quel padre negro, pacato e distrutto di dolore, che
chiede giustizia e non vendetta, alla fine cosa vorrà
mai da noi italiani. Tornasse al suo paese. Così non
sarebbe successo mai. E questo autentico razzismo, vero
fino al midollo, vegeta vile sulle spalle di tanti e
purtroppo non sta appeso a caratteri neri su alcuno
striscione. Chi lo condannerà? Chi perdonerà?
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