
In
questi stessi giorni si stanno svolgendo il World Social
Forum ed il World Economic Forum, ieri George W. Bush ha
fatto il suo “discorso sullo stato dell’unione”. Il forum
sociale mondiale che si tiene in questi giorni a Nairobi
segna un momento molto triste per l’altermondismo. Orfano
delle grandi organizzazioni popolari sudamericane, così
come delle folle che nella sovrappopolata India animarono
il forum di Mumbai, il primo social forum in terra
d’Africa è decisamente al di sotto delle più modeste
aspettative, in parte perché la selezione post-coloniale
ha privilegiato la formazione di una classe dirigente poco
sensibile al sociale, in parte perché anche i grandi
movimenti di sinistra che avevano avuto fortuna ai tempi
della guerra fredda, hanno lasciato poche tracce nelle
popolazioni spesso totalmente assorte nella difficile arte
del sopravvivere in Africa. Non è comunque una questione
di numeri o di qualità dei partecipanti, ma piuttosto
dell’umore tendente al depresso, che dopo anni di “War on
Terror” restituisce un movimento decisamente in ribasso,
per quanto non domo.
Paradossalmente. mai come oggi le tematiche altermondiste
avrebbero occasione di trarre forza dalla cronaca.
L’allarme climatico è stato finalmente riconosciuto come
tale da tutti i governi e da tutte le istituzioni globali,
il mercatismo globalizzante ha smesso di promettere
automatici progressi miracolosi e lo stesso ricorso alla
guerra, per quanto mai così massiccio, ha ormai dimostrato
i suoi limiti strutturali anche ai commentatori più
pugnaci. Non per niente il Fondo Monetario Internazionale
è ormai defunto e la Banca Mondiale agonizza
nell’indifferenza sotto la guida di Wolfowitz, mentre gli
incontri del WTO sono ormai riunioni inutili tra sordi.
Purtroppo a tenere basso l’umore è la constatazione che
tutto quello contro cui si batte il movimento
altermondista sia in realtà ancora lontano dall’aver
esaurito la sua energia distruttrice. Di seguito c’è
quella secondo cui, nonostante l’evidente collasso di un
modello fallito, l’immaginario collettivo ancora esita nel
registrare cambiamenti significativi, quasi che di fronte
al fallimento delle ricette neo-liberiste (in realtà
comode etichette per un modello di sfruttamento già ben
conosciuto), le opinioni pubbliche occidentali restino
indifferenti ma disposte a dare fiducia a un sistema di
potere che da un lato persevera nel coalizzarle contro la
minaccia islamica e dall’altro cerca di depauperarle a
favore di pochi: si intravede solo il sorgere di populismi
da due soldi, tristemente più probabile dell’illuminarsi
di un processo democraticamente virtuoso.
Il Forum si tiene a pochi chilometri dall’ultima guerra
che ha scosso l’Africa. L’invasione etiope della Somalia
sta ancora sanguinando, ma tutta l’Africa è percorsa da
conflitti. Conflitti che si possono dividere in di due
tipi: il primo si dispiega all’interno di paesi governati
da un autocrate (o d una autocrazia nel migliore dei casi)
e si sprigiona tra le forze lealiste e le opposizioni
interne o alcune minoranze. In questo primo schema le
opposizioni sono sempre “terroriste” e/o islamiche e il
governo è sempre il responsabile del conflitto in quanto
scelta politica. Nel secondo caso si tratta invece di
conflitti civili che vedono schierati spietati dittatori
dotati di un consenso molto stretto, opposti ad interi
archi costituzionali e porzioni della popolazione
imponenti. Nei due casi questi governi sopravvivono grazie
al sostegno, soprattutto militare, di paesi occidentali.
La particolare etica diplomatica dell’Occidente in Africa
ha generato mostri e genocidi. Fu un dimenticato
genocidio, quello nel quale Leopoldo II precipitò il Congo
in un Olocausto capace di fare impallidire quello
hitleriano, a segnare il confine tra lo sfruttamento
dell’Europa schiavista e la transizione allo sfruttamento
su scala industriale delle ricchezze del continente.
Bruxelles è costruita sul sangue di decine di milioni di
morti congolesi, ma non rappresenta altro che la punta
statistica dell’iceberg del razzismo occidentale. Oggi
qualsiasi europeo ha i mezzi per conoscere i crimini
commessi dagli europei in Africa. Ma massacri di neri non
hanno audience nel continente.
Fa quindi sorridere l’auspicio di Human Rights Watch che,
osservando sconsolata quanto nessuno nel mondo ormai parli
più di diritti umani, chiede all’Europa di vestire i panni
che un tempo furono degli Stati Uniti. Una Europa paladina
dei diritti umani potrebbe rappresentare solo una grossa
ipocrisia, visto che gli europei vivono completamente
indifferenti alla loro storia, anche quella più recente.
L’Europa è indubbiamente razzista nei confronti
dell’Africa. L’Africa ha pagato il conto più salato per lo
sviluppo dell’Occidente e dell’Europa in particolare. Non
sarà quindi rivolgendosi all’indifferente Europa che si
otterranno risultati migliori nella tutela dei diritti
umani in Africa.
L’Europa, si diceva, ha grandissime responsabilità verso
l’Africa; la sponda mediterranea dell’Africa è un elenco
senza soluzione di continuità di autocrazie. Dal Regno del
Marocco - dove il re molto progressista ancora perseguita
i Saharawi e fa la gara a difendere il buon nome di Allah
per compiacere i bigotti- fino all’Egitto del faraone
Mubarak impegnato nella transizione dinastica del potere
al figlio. E tra i due estremi c’è di peggio; Tunisia e
Libia sono due buchi neri. In Ciad e Repubblica
Centrafricana sopravvivono due dittatori perché la Francia
li protegge con l’aviazione ed i parà ( molti non sanno
nemmeno dell’esistenza della guerra francese, neanche in
Francia ne parlano, questi europei potenziali paladini dei
diritti umani, ndr). In Sudan c’è un governo di coalizione
islamo-cristiano in vista della divisione del paese a
seguito di un referendum, a latere c’è la tragedia del
Darfur, che agli europei davvero non interessa, come non
interessa al resto del mondo; da tre anni due milioni di
persone sono profughi nel nulla, ma ogni tanto gli mandano
dei biscotti. Ogni tanto qualche politico occidentale e
qualche attore globalizzato vanno in Darfur per farsi
belli e tornano senza lasciare tracce.
Poco più in là c’è l’Etiopia, altra dittatura
militareggiante che forse è più invisa ai propri cittadini
che a quelli dell’invasa Somalia. Però è una dittatura che
piace tanto agli americani e che facendo la parte
dell’esecutore di Washington è riuscita a garantirsi una
certa tranquillità. Un piccolo danno collaterale è che
l’ONU non consegna più gli aiuti umanitari a un governo
del genere, visto che poi non raggiungerebbero comunque i
milioni di etiopi afflitti dalla fame, quella vera.
L’Italia da anni ha tagliato i contributi a questa zona
dell’Africa. Continuando verso Sud la situazione migliora
di poco, ci sono ancora dittatori guineani come Teodoro
Obiang, Lansana Conte (già quattordici giorni di sciopero
generale consecutivo contro di lui; ora la Guinea è un
paese in ginocchio) , Mugabe (l’unico inviso
all’Occidente, che però ha ricevuto sollievo da un accordo
con la Cina), la Nigeria democratica che però è una
cleptocrazia scricchiolante, la Costa D’Avorio che ancora
si lecca le ferite dopo il recente intervento francese.
Molti di questi leader, oltre a perseguire politiche
criminali, sono fisicamente moribondi o addirittura
alcolizzati, pupazzi nelle mani di oscuri personaggi,
spesso stranieri. L’Africa finisce con note d’ottimismo;
il Congo belga che è tornato ad una parvenza di elezioni
(vinte dal candidato di Washington) dopo la Prima Guerra
Mondiale Africana (sconosciuta ai più) , l’Angola (il
Congo portoghese) che non è mai stato meglio e migliora.
In fondo c’è il Sudafrica dove è finita da pochi anni
l’apartheid, una macchia ancora fresca sul curriculum
europeo, ma ora più che mai è residua la speranza di un
potenziale riscatto autoctono.
Si può continuare a lungo. La Francia è anche in lite con
il Ruanda perché non vuole essere giudicata per
l’olocausto tra Hutu e Tutsi ( a Parigi hanno proposto una
legge per “certificare” il genocidio degli armeni, ma
nemmeno uno per fissare nella storia una qualsiasi delle
stragi compiute dai francesi in Africa o in Indocina). La
Gran Bretagna semina mercenari in combutta con gli ex dei
reparti speciali del regime razzista sudafricano e si può
ben dire che quasi tutti i paesi europei che vi hanno
portato disastri e sfruttamento sono ben lontani dal
dimostrare una qualsiasi presa di coscienza o tracce di un
pentimento attivo. La situazione sembra
immutabile senza un cambiamento dell’influenza
occidentale, anche perché i pochi leader africani di
estrazione democratica non riescono a contribuire in
nessun modo, visto che la maggioranza dei governi che
compongono l’Unione Africana sono in carica senza aver
vinto libere elezioni.
Così il forum di Nairobi è stato all’insegna dei
missionari; tra l’organizzazione e la frequenza, la Tavola
per la Pace ha fatto la parte del leone. Ottima resa
scenica, che ha permesso ai telegiornali italiani di
mostrare qualche esemplare di bianco buono mentre i
giornalisti snocciolavano le piaghe dell’Africa e i numeri
dell’annuale Olocausto con lo stesso tono di chi legge la
schedina due volte alla settimana. Un’ottima occasione per
la chiesa, soprattutto per quella che vede la peste
rivoluzionaria nei tostissimi missionari, di farsi
un’immagine di sensibilità ed empatia con i sofferenti,
rinforzando un potere che in realtà è sempre stato
funzionale al mantenimento del dominio coloniale. Non a
caso la voce del papato si guarda bene dal tuonare contro
le dittature africane. Non bisogna però farne una colpa a
carico di chi è animato da spirito missionario; non sono
agenti del nemico i laici o i religiosi occidentali che si
dedicano veramente a migliorare le condizioni di vita dei
loro simili o a soccorrerli nei disastri. Il fatto,
casomai, che il loro operato sia spesso strumentalizzato
non ne fa dei colpevoli.
Dal punto di vista degli africani convenuti, invece,
l’esperienza è stata sicuramente un evento. Approfittando
dell’occasione molti africani sono riusciti ad
incontrarsi, alcuni si sono accordati per fare rete
(è stata anche l’occasione del primo meeting delle
indymedia africane, prontamente svaligiato dell’hardware),
anche se non hanno potuto fare altro che prendere atto del
disastro e aggiornare le statistiche con dati sempre più
negativi. Ma in Africa non è facile viaggiare, ancora meno
per gli africani. Così anche quest’anno potremo annoverare
che cinque milioni di africani moriranno per fame, che
aumentano quelli che moriranno per malattie, aumenteranno
la povertà e l’inquinamento (provocato anche dai rifiuti
importati dall’Occidente). E che l’unica cosa che potremo
annotare in diminuzione sarà l’aspettativa di vita. Per
non scordarsi poi del dato scomodo secondo il quale
l’Africa è addirittura ricca di spazi e di risorse, un
capitale naturale pro-capite superiore a quello di
qualsiasi abitante di altri continenti, fatto salvo che la
sua popolazione è indubbiamente la più povera.
Evidentemente è l’effetto di uno scambio a condizioni
ingiuste, quando non criminali.
All’alba del 2000 tutti i paesi del mondo presero il
solenne impegno di dimezzare la povertà entro il
2015, nero su bianco. Nessuno dei paesi che dovevano dare
a tale scopo ha dato; nel frattempo i contributi dei paesi
avanzati al soccorso di queste popolazioni sono
praticamente evaporati. Quelli che ancora restano a
bilancio sono in gran parte spesi per assistenza militare.
Ovviamente il bilancio della guerra mondiale alla povertà
è una frazione infinitesimale di quello dedicato alle
guerre vere e proprie. Il Millennium Goal ( la
meta del millennio), pomposo nome del solenne impegno, si
allontana invece di avvicinarsi. L’Africa generosa, culla
dell’umanità, continua a produrre ricchezze incredibili;
non è stato esaurito ancora tutto il legno, nell’ultimo
secolo ha dato di tutto e adesso è sfruttata anche per il
petrolio. Ricchezze scambiate con armi, almeno a giudicare
dalla loro abbondante presenza, armi che qualcuno continua
fornire e a vendere con il consenso dell’Occidente.
Quello che emerge dopo anni di analisi dei perversi
effetti dell’applicazione delle teorie pseudo-liberiste, è
l’elevata facilità con la quale si possono verificare
apparenti paradossi, che però paradossi non sono in quanto
il loro esito è invariabilmente nefasto per la controparte
economicamente più debole. L’ultimo fronte del disastro ha
l’affascinante nome di biocarburante. Secondo la
leggenda il biocarburante sarebbe ad impatto zero dal
punto di vista dell’effetto-serra.
Il biocarburante non rappresenta una alternativa al
petrolio, non fosse altro che per sostituire il petrolio
con biocarburanti servirebbe una superficie coltivabile
sette volte superiore a quella che c’è sulla Terra. I
biocarburanti sono così diventati un sistema per dare
sussidi ai contadini dei pesi ricchi sotto una forma
nuova.
Il problema è che destinando alla produzione di carburanti
gran parte della produzione agricola, un paese come gli
Stati Uniti deve importare, pur essendo tradizionalmente
un forte esportatore alimentare. Con le sovvenzioni per i
biocarburanti, conviene coltivare vegetali da destinare
alla raffinazione. Il bisogno di importazioni alimentari
negli Stati Uniti ha comportato un aumento del prezzo del
grano, in particolare nel vicino Messico. Dove la dieta
nazionale dei poveri, a base di tortilla di grano,
all’improvviso è venuta a costare il triplo gettando la
popolazione nella disperazione. Dunque, ogni volta che in
Occidente si fa il pieno di biocarburanti, si toglie
letteralmente il cibo di bocca a qualcuno nel Sud del
mondo, dopo aver bruciato quello che c’era nel sottosuolo;
ora, quindi, si vorrebbe bruciare nei serbatoi anche la
superficie agricola (perché così non si inquina),
pur di non mettere in discussione un sistema fondato sugli
idrocarburi e sul nucleare, anch’esso in tumultuosa
espansione. Era quindi inevitabile che G.W. Bush
diventasse un paladino dei biocarburanti
A Bush rispondono da Davos, proponendo una improbabile
alleanza per il clima tra le grandi corporation al fine di
ridurre l’inquinamento globale. La ricetta anche qui è già
vista quanto inefficace. I principali inquinatori del
pianeta dovrebbero inquinare meno in cambio di maggiori
profitti. Anche in questo caso non si pensa a punire chi
danneggia l’ambiente, ma si cerca di costruire un
meccanismo per il quale non ci siano sanzioni, ma solo
ulteriori possibilità di guadagni in cambio di
provvedimenti dalla dubbia efficacia. Guadagni per le
grandi corporation, ma a spese di chi? La risposta è
scontata.
Fino a che la politica mondiale non cambierà l’approccio
al problema energetico e fino a che non si riconosceranno
le responsabilità dell’Occidente verso il Sud del mondo,
non si potranno considerare risolvibili quegli infiniti
paradossi che ci costringono ad interrogarci sulla
sostenibilità dello status quo. Considerazioni inevitabili
nel momento nel quale un forum sociale è un corpo
completamente alieno ed ignoto alle istituzioni e riesce
ad impattare quasi esclusivamente su chi vi partecipa.
Considerazioni scontate ormai da decenni, ma che non
riescono a dispiegare effetti positivi capaci di andare
oltre il forum dei missionari nella terra della
disperazione. Il giorno che l’Europa dedicherà un Giorno
della Memoria ai popoli africani che ha sterminato
cancellandone pure il ricordo, sarà un gran giorno per
tutti; misurare la distanza che ci separa da quel giorno è
uguale a misurare la distanza che ci separa da un altro
mondo possibile.
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