“È la politica di Vicenza che ha preso la parola”, ha
commentato il ministro della solidarietà sociale Paolo
Ferrero. «Oggi a Vicenza nessuno parla nel nostro
dialetto: c'è gente in giro che parla solo nel peggiore
romanesco”. è stata invece la sapida valutazione del
presidente della Regione Giancarlo Galan. Probabilmente
sta in queste due dichiarazioni, più che in quelle di
Prodi (“Il governo ha detto e continuerà a dire i suoi sì
e suoi no in coerenza con le linee generali di politica
interna ed estera”) il vero dato politico della
manifestazione di sabato. Ammettere infatti che 200 000
persone (secondo le stima degli organizzatori e di
SkyTg24) sono scese in piazza in una città come Vicenza,
nella più grande manifestazione che il Veneto ricordi, non
è facile per la classe politica locale.
Una classe politica che è nata e vissuta sull’antagonismo
popolare contro Roma, sul mito del popolo sovrano contro i
politici corrotti e del padroni a casa nostra. Non per
niente sabato molti cartelli riportavano proprio questo
slogan, aggiungendo un ironico “Grazie Lega”. Sarebbe
falso dire che la manifestazione di Vicenza è stata
essenzialmente locale e che non ha avuto una
caratterizzazione politica ben precisa. Il popolo che ha
attraversato la città riempiendo il Campo Marzio in uno
spettacolare colpo d’occhio era in gran parte quello delle
manifestazioni per la pace che dal 2002 periodicamente si
ripetono: i partiti della sinistra radicale (Prc, Pdci e
Verdi), le organizzazione storiche della sinistra (Arci,
Legambiente, Cgil, quest’ultima in particolare sempre
fondamentale, con l’immane sforzo organizzativo al di là
dei distinguo politici), il mondo pacifista laico e
cattolico (Movimento Nonviolento, Rete Lilliput, Agesci),
i gruppetti dell’estrema sinistra antimperialista (Pmli,
Fai, Fdca, Carc), i Disobbedienti, gli studenti delle
scuole superiori, sia nelle loro organizzazioni (UdS) sia
soprattutto come presenza costante e diffusa nel corteo.
Ma lo spezzone più lungo, dopo quello della Cgil, era
certamente quello in cui sventolavano le bandiere No Tav,
guidato dalla Madonna del Rocciamelone, simbolo della
difesa delle montagne della Val di Susa, che i comitati
contro l’alta velocità hanno portato in dono al presidio
permanente contro la nuova base militare americana. 22
pullman sono partiti dalla valle, e l’intervento del
rappresentante dei comitati dal palco al termine del
corteo è stato il più applaudito.
“In Val di Susa, il 25 settembre 1970, a Condove, nella
fabbrica Moncenisio, gli operai in assemblea all’unanimità
hanno deliberato che non avrebbero mai più costruito armi.
La Val di Susa è anche questo. Ricordatevelo, si può
convertire l’industria bellica, si può tornare alla pace”
ha strillato il militante piemontese.
Questa fusione tra istanze locali di difesa del territorio
e battaglie globali contro lo sviluppo capitalistico o
contro la guerra è ciò che accomuna Vicenza alla Val di
Susa, ed è anche la lettura più chiara della composizione
del corteo di sabato: gran parte dei manifestanti arrivava
da fuori, anche se principalmente dal Veneto, checché ne
dica Galan, ed era mossa da principi e obiettivi che vanno
oltre il progetto urbanistico Dal Molin.
Ma quella gente è venuta a Vicenza, ha partecipato alla
mobilitazione contro la nuova base mettendo i propri
principi e i propri obiettivi a servizio di questa
battaglia, in modo molto limpido e senza equivoci. “Grazie
di essere venuti per Vicenza e per l’Italia” si legge in
un cartello nei pressi del Campo Marzio. Proprio in questa
capacità di catalizzare in una battaglia locale i grandi
temi globali sta la particolarità di Vicenza, come della
Val di Susa.
La strategia di fondo resta la stessa: una battaglia a
lungo termine, di resistenza. Tutte le iniziative di
questi giorni, prima fra tutte la creazione di un presidio
permanente nei pressi dell’aeroporto Dal Molin, segnano la
volontà di strutturare la mobilitazione sul lungo periodo.
L’obiettivo è resistere un minuto di più degli avversari,
come recitava lo striscione dietro al palco sabato.
Il problema si complica quando si cerca di capire chi sono
questi avversari. Bocciato senza appello è sicuramente il
sindaco Hullweck, visto dai manifestanti come un
amministratore più vicino ai poteri forti che agli
interessi della città.
Ma il vero interlocutore del movimento continua a essere
il governo: non per niente Prodi ha sentito subito il
dovere, a fine corteo, di ribadire la decisione presa. In
una posizione particolarmente delicata stanno i partiti
della sinistra radicale. Erano in piazza sia il segretario
di Rifondazione Comunista sia quello del Partito dei
Comunisti Italiani, impegnati a smentire l’idea di chi
considera la loro vicinanza alla mobilitazione
strumentale, tesa a recuperare il dissenso a sinistra nei
confronti del governo.
Il leader dei Disobbedienti Luca Casarini, come sempre
durissimo con chi mette in discussione il suo preteso
monopolio sui movimenti, non l’ha mandata a dire: “Quando
tornano in Consiglio dei Ministri devono decidere che cosa
fare, questa enorme moltitudine è un funerale di prima
classe per Prc, Pdci e Verdi” ha dichiarato.
La sua non è la voce del movimento, ma nessuno sembra
disposto a concedere cambiali in bianco: alla sinistra
radicale si chiede un impegno forte, costante e a lungo
termine. “Misureremo la buona fede dei parlamentari dai
fatti. – spiegano al presidio – Devono venire con noi a
bloccare le ruspe, come i sindaci della Val di Susa”.
Gran parte di quei sindaci non appartenevano al mondo
della sinistra radicale. E anche a Vicenza il fronte dei
contrari è ben più ampio. La quasi totalità del
centrosinistra veneto è nettamente schierata contro la
realizzazione della nuova base e sabato nello spezzone
Cgil non sono mancate le bandiere dei Democratici di
Sinistra. In piazza c’era anche un gruppo di militanti e
dirigenti della Margherita, dietro allo striscione:
“Governo, guardaci”.
Il successo della manifestazione sembra in ogni caso aver
ricomposto molte delle fratture che iniziavano ad apparire
nel fronte No Dal Molin. Le tensioni tra il centrosinistra
istituzionale, egemonizzato dai post-democristiani, e i
gruppi radicali, su cui pesa l’ipoteca di una presenza
ingombrante come quella dei Disobbedienti, maestri
nell’intervento egemonico in situazioni di conflitto,
avevano portato a due appelli diversi e a due
concentramenti separati per sabato, ma il corteo si è
immediatamente fuso.
Sembra sconfitto, almeno per ora, il tentativo di separare
movimento e rappresentanza, approfittando del fatto che si
tratta di terre tradizionalmente legate al centro-destra,
per mettere a rischio il consenso trasversale
faticosamente conquistato nel corso di mesi, agitando lo
spettro del radicalismo. Neanche la resurrezione a mezzo
stampa delle defunte Brigate Rosse è riuscita nel suo
intento. La notizia si sgonfia di ora in ora: solo uno tra
gli arrestati si è dichiarato prigioniero politico, e la
sua storia personale resta l’unico collegamento concreto
tra il gruppo degli arrestati e le Brigate Rosse. Nessun
elemento denota alcun tipo di continuità organizzativa tra
le Br e il “Partito Comunista Politico-Militare” di cui
farebbero parte gli arrestati. Con la pubblicazione delle
intercettazioni si è sgonfiato anche il clamore sugli
attentati: Pietro Ichino, identificato nelle prime ore
dopo gli arresti come il successore di D’Antona e Biagi,
da colpire entro Pasqua, era a malapena tenuto sotto
controllo dal gruppo, che ignorava addirittura che avesse
una scorta. Anche i progetti di attentato al quotidiano
Libero e a una casa di Berlusconi si rivelano,
secondo i dati resi pubblici, poco più che fantasiose
chiacchierate.
Ciò che sembra emergere dalle indagini è l’esistenza di
una cellula armata, solo parzialmente clandestina, dedita
a esercitazioni e autofinanziamento. Nessuna notizia, ad
oggi, sul ruolo della maggior parte degli arrestati, che
restano semplici nomi sotto una fototessera. L’imputazione
di “banda armata”, un capolavoro del nostro ordinamento
giuridico, lascia spazio ad ogni possibilità.
In questa situazione di incertezza e ambiguità, in cui
nessuno si è ancora preoccupato di delineare i confini tra
militanza politica, estremismo e terrorismo, ha avuto buon
gioco un altro tipo di terrorismo, che ha concentrato la
sua attenzione, tra tutti i soggetti possibili, proprio
sul Centro Popolare Occupato Gramigna di Padova, a due
passi da Vicenza, e sulla Cgil, l’unica grande
organizzazione impegnata a sostenere il movimento contro
la base militare americana, seppur con i distinguo di cui
sopra.
Dopo il corteo, il governo appare schiacciato tra la
pressione dell’opinione pubblica (“Ascoltare la base, non
costruirla” era scritto sulle bandiere di Rifondazione) e
quella del potente alleato americano. Il ministro Pecoraro
Scanio prova a tirar fuori dal cilindro il coniglio della
valutazione d’impatto ambientale, per fornire una base
formalmente inoppugnabile a un eventuale ripensamento
governativo.
A Vicenza, in ogni caso, si godono la parziale vittoria e
si preparano a tener duro. La strategia resta tenere alto
il livello della mobilitazione il più a lungo possibile, e
sfidare comune, governo e americani in un’estenuante gara
di resistenza.
Archivio Base di Vicenza
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