 Da
Ciarrapico a Tanzi, da Cragnotti alla dark lady Gucci, da Previti a Fiorani.
Fanno la bella vita, abitano in ville da sogno ma risultano non possedere nulla.
E da anni evitano di risarcire le vittime dei loro misfatti
Lo stavano inseguendo da un ventennio. Una lunga ma inutile caccia al tesoro.
Tra residenze di comodo, cavilli procedurali, vecchie bancarotte e nuove aziende
che si rivelano fantasmi legali. Ora i creditori di Giuseppe Ciarrapico, sulla
carta imprenditore con mille interessi, eppure formalmente nullatenente di
fronte alla legge, si preparano a modo loro a festeggiarne l'elezione a
senatore. La sua legislatura rischia di aprirsi con un pignoramento a Palazzo
Madama: «Siamo già pronti a bloccare il suo stipendio di parlamentare.
Finalmente Ciarrapico non potrà più prendere in giro la giustizia». A
preannunciare «con la forza dell'esasperazione» questo attacco finale al
portafoglio del neo-senatore berlusconiano, sono gli avvocati di una sessantina
di vittime del crac dell'Ambrosiano.
Da quella storica bancarotta è passato più di un quarto di secolo. Ma fra i 38
condannati, almeno cinque sono riusciti a non risarcire neppure un centestimo.
Dichiarandosi nullatenenti. Come Ciarrapico. L'imprenditore è stato più volte
indicato, senza contestazioni, come titolare di società editoriali, stabilimenti
termali, cliniche private, alberghi, ristoranti e aziende di acque minerali. Lo
stesso leader di Forza Italia dichiarò di averlo candidato nella convinzione che
fosse «utile perché proprietario di giornali». Errore: anche quei quotidiani
figurano intestati ad altri. Lui invece, nonostante i costi della campagna
elettorale, continua a non avere nulla da offrire ai creditori. E il suo caso,
più che l'eccezione, sembra ormai la regola.
Dopo anni di leggi-vergogna (reati aboliti, verbali annientati, prove dimezzate,
riforme incostituzionali, nullità a valanga, prescrizioni facili e per finire
l'indulto), la giustizia si mostra incapace di far pagare il conto perfino ai
condannati con sentenze definitive per reati che hanno fatto storia.
Dal crack Ambrosiano alle bancarotte Cirio e Parmalat, dallo scandalo dei
giudici corrotti agli omicidi milionari, in Italia il delitto paga.
L'ostruzionismo legale di Ciarrapico fa sensazione, perché riguarda una
bancarotta simbolo del passato: un fallimento da 1.193 miliardi di lire del
1982. Dopo l'omicidio di Roberto Calvi, la più grave condanna definitiva ha
colpito Licio Gelli, il burattinaio della loggia P2, principale beneficiario
della montagna di soldi rubati al Banco. I pm milanesi hanno dimostrato che li
aveva nascosti in Svizzera insieme a 250 chili d'oro. Eppure anche lui ne è
uscito ricco. Già nel '96 il Nuovo Ambrosiano, pur di riavere il grosso del
maltolto, si è rassegnato a lasciare a Gelli 12,5 milioni di franchi svizzeri e
le due ville di Villefranche sur Mer, in Costa Azzurra, e di Castiglion Fibocchi,
la splendida residenza aretina dove ha scontato la pena. Qui i creditori hanno
potuto pignorargli solo gli ultimi lingotti occultati nelle fioriere. Ora i
civilisti Cristina Mordiglia, Gianfranco Lenzini e Alberto D'Aguanno, che
rappresentano gli azionisti irriducibili dell'Ambrosiano, stanno reclamando
risarcimenti da altri cinque pregiudicati. Ciarrapico è il primo della lista
nera. Condannato anche per un'altra bancarotta (Casina Valadier), ha evitato il
carcere grazie a due indulti. E continua a sfuggire ai pignoramenti.
Nel maggio scorso, come informava "Il Sole 24 Ore", l'ufficiale giudiziario si è
presentato nella sua residenza dichiarata, cioè nel capannone accanto alla
tipografia di "Ciociaria Oggi", scoprendovi però «una sola stanza con brandina,
tavolo, piccolo armadio e comodino». Niente di pignorabile, insomma. Anzi, le
parti civili avvertono che «Ciarrapico ha fatto annullare per motivi procedurali
perfino quest'ultimo tentativo di esecuzione forzata». Di qui la soluzione
finale: bloccare un quinto del suo nuovo reddito di parlamentare. Vent'anni dopo
l'Ambrosiano, il primo dei nuovi choc per i risparmiatori italiani è stato il
crack della Cirio. Nel novembre 2002 la gestione di Sergio Cragnotti ha mandato
in fumo obbligazioni (i famosi bond) per 1.125 milioni di euro. Ma anche l'ex re
dei pelati non ha ancora risarcito nessuno. Gli avvocati Nicola Madia e Giuseppe
Niccolini, che rappresentano il fallimento (e indirettamente gli oltre 35 mila
danneggiati), confermano di non avergli trovato «nulla di pignorabile».
Il tribunale civile di Roma, il 5 febbraio, ha condannato Cragnotti a un
risarcimento immediato di oltre 300 milioni di euro per l'affare Eurolat: un
bidone rifilato alla Parmalat con la presunta regia della Banca di Roma guidata
da Cesare Geronzi, che dopo due rinvii a giudizio e una condanna in primo grado
per bancarotta è diventato presidente di Mediobanca. Ora proprio il suo gruppo
Unicredit (con tutti gli azionisti) rischia di subire il maxi-pignoramento. Gli
avvocati del crack, infatti, hanno potuto collegare a Cragnotti solo conti
lussemburghesi pieni di bondspazzatura. Eppure basta un clic su Internet per
verificare che l'azienda agricola Corte alla Flora, 90 ettari di vigneti doc e
oliveti a Montepulciano, continua a essere controllata dalla famiglia Cragnotti:
come gestore si presenta il figlio Andrea, che è coimputato di papà.
Questa tenuta con maxi-villa, secondo la Procura di Roma, fu comprata da Sergio
Cragnotti con almeno 3,5 milioni di euro rubati alla Cirio. In attesa che
cominci il primo dei tre gradi di giudizio penale, l'azienda agricola resta
intestata alla moglie, Flora Pizzichemi, pure coimputata. Il colmo è che dopo il
crack, secondo i pm di Milano, Cragnotti avrebbe tentato di ricomprarsi la Cirio
con altri soldi sottratti alla Cirio e nascosti in paradisi fiscali: da 20 a 100
milioni di euro. Un'accusa fermamente respinta dai difensori (ne ha cambiati
quattro, tutti di valore) del nullatenente con tenuta.
Anche Calisto Tanzi è uno strano nullatenente, con villa e moglie milionaria.
All'ex patron della Parmalat va riconosciuto di aver confessato le sue colpe
nella storica bancarotta da 15,5 miliardi di euro, sacrificando subito le
società personali, la sua flotta di jet privati, due yacht e una tenuta
agricola. La Guardia di finanza gli ha sequestrato altri 816 mila euro su 12
conti italiani, 9,3 milioni in titoli alla Popolare di Lodi, 129 mila dollari
alle Isole Cayman, due Balilla e una Range Rover, che Calisto però conserva come
«custode». Il problema è che Tanzi e i suoi manager, dal 1990 al 2003, hanno
sottratto alle casse della Parmalat l'incredibile cifra di 928 milioni di euro.
E altri 1.346 milioni di dollari sono scomparsi in Sudamerica. «Non esiste alcun
tesoro di Tanzi, che ha già pagato con tutti i propri beni», insiste il suo
avvocato Gianpiero Biancolella. Dopo tre mesi di carcere e sei ai domiciliari,
il cavalier Calisto attende in libertà la fine dei processi e ha già ottenuto il
primo patteggiamento. A cinque anni dal crack, vive sempre nella villa di
famiglia, tra Parma e Collecchio, che le parti civili confermano di «non poter
pignorare». Tirando le somme, Tanzi ha risarcito circa due millesimi del buco
nero di Parmalat. Continua a vivere in un grande rustico ristrutturato con un
vasto giardino. E, a differenza dei risparmiatori, non ha problemi economici:sua
moglie, Anita Chiesi, è contitolare di una grossa industria farmaceutica.
Cambiando l'ordine dei reati, il prodotto non cambia.
Tra i delitti di sangue, il sostituto pg milanese Laura Bertolé Viale, che
ottenne le condanne definitive, cita come «scandaloso» il caso Gucci. Ultimo
proprietario italiano della grande casa di moda, Maurizio Gucci fu assassinato
il 27 marzo 1995 a Milano. Prima di scappare, il killer si trovò di fronte il
custode del palazzo, Giuseppe Onorato, 64 anni, che al processo diventò il primo
testimone d'accusa. «L'assassino mi ha puntato la pistola a un metro dalla
faccia e ha sparato due colpi», ricorda Onorato: «Ho alzato un braccio,
d'istinto, e l'osso ha deviato la pallottola che poteva uccidermi. Guardi qui le
cicatrici... Ho dovuto operarmi più volte, ma il braccio non è più quello di
prima. I medici dicono che devo rassegnarmi a un'invalidità permanente ».
Come mandante è stata condannata a 26 anni (ridotti a 23 dall'indulto) Patrizia
Reggiani, la moglie separata di Gucci. Nella sentenza il giudice Ferdinando
Pincioni dimostra che la signora decise di far uccidere «il padre delle sue
figlie» anche per un «movente economico». «La stessa Reggiani non ha negato né
il particolare attaccamento ad alcuni beni dell'ex marito, come il panfilo
Creole e la villa di Sankt Moritz, né il risentimento e l'esasperazione per la
somma che le veniva corrisposta da Maurizio Gucci: 160-170 milioni di lire al
mese». Dallo stesso processo il custode Onorato è uscito con l'etichetta di
«vittima di un tentato omicidio ». In un paese normale sarebbe diventato
ricchissimo. Già nel '98 i giudici gli avevano assegnato una «provvisionale
immediata» di 100 milioni di lire. «Ma dopo 13 anni non ho ancora visto un soldo
», lamenta Onorato. L'ex signora Gucci non aveva faticato a pagare la banda di
killer con 600 milioni prelevati a Montecarlo. Ma dopo la condanna si dichiara
«nullatenente». Tutta l'eredità è finita alle figlie, che d'accordo con la nonna
materna comunicano ai tribunali di «non avere alcun obbligo di risarcire Onorato
», perché questo grava «sulla sola Reggiani». Per rimborsare il custode ferito,
sarebbe bastato vendere «un solo armadio » del lussuoso appartamento di corso
Venezia dove viveva l'assassina. Ma Onorato non ha potuto pignorare nemmeno
quello: «Perfino l'armadio è risultato intestato a una società svizzera»,
allargano le braccia i suoi civilisti dello studio Pizzocaro.
Patrizia Reggiani ha già beneficiato dei primi permessi-premio: 45 giorni
all'anno fuori dal carcere, libera di fare shopping nelle vie della moda
milanese. E Onorato? «Io e mia moglie continuiamo a vivere con le nostre
pensioni: 1.100 euro in due». Tra i 1.408 condannati di Tangentopoli, i maggiori
risarcimenti erano arrivati da imprenditori e politici "pentiti": non più di 150
miliardi di lire. «Abbiamo dovuto restituire i soldi a parecchi condannati»,
testimonia il pm Francesco Greco, ricordando che allora non esisteva la legge
231, che dal 2000 incrimina direttamente le aziende con i loro patrimoni
sociali. L'effetto di questa legge è stato un boom dei rimborsi: solo
l'inchiesta Bpl-Antonveneta ha portato a confiscare 350 milioni di euro. Ma il
principale imputato, l'ex banchiere Gianpiero Fiorani, pur avendo patteggiato
una prima condanna a tre anni e tre mesi, ha finora restituito «meno di un
centesimo» del suo presunto bottino personale: almeno 45 milioni di euro
occultati a Singapore e quasi il doppio tra appartamenti e terreni in Italia. E
il suo ex braccio destro, Gianfranco Boni, ha patteggiato due anni e mezzo
(azzerati dall'indulto) senza risarcire nulla. Gli eventuali rimborsi, infatti,
potrà reclamarli la loro ex banca, alla fine di un processo civile che in media
dura otto anni, che salgono a tredici con le esecuzioni immobiliari.
L'avvocato Paola Severino, che fu parte civile per l'Eni a Tangentopoli, si
chiede: «Quante piccole società o persone fisiche possono permettersi questi
tempi e spese di recupero?». Come caso-limite, i pm di Mani pulite citano la
sparizione del tesoro di Craxi. Le condanne definitive documentano che sui conti
esteri personali di Bettino (non del partito) finirono almeno 60 miliardi di
lire. Ma in Italia sono rientrati meno di tre miliardi e 15 chili d'oro. Soldi
tuttora sotto sequestro, ma formalmente intestati al suo ultimo tesoriere,
Maurizio Raggio. Che ora potrebbe vedersi ridare anche quelli. In un caso
analogo, infatti, una recente sentenza della Cassazione ha stabilito che la
legge dell'epoca non ammetteva la confisca di somme «equivalenti » alle
tangenti. Un verdetto che ha già costretto la Procura a restituire i soldi a due
banchieri napoletani che confessarono di essersi fatti corrompere nel '91 dalla
Fininvest.
Ancora più sconcertante è il bilancio economico delle «più gravi corruzioni
giudiziarie della storia d'Italia», secondo la polemica definizione del più
onorevole condannato, Cesare Previti. L'ex ministro di Forza Italia e i suoi
complici Attilio Pacifico e Giovanni Acampora sono stati riconosciuti colpevoli
di aver corrotto il giudice civile di Roma, Vittorio Metta, che nel novembre
1990 regalò la Mondadori a Berlusconi e che due mesi dopo, con un'altra sentenza
comprata, obbligò la banca statale Imi a versare 978 miliardi di lire agli eredi
del petroliere andreottiano Nino Rovelli. Nonostante le condanne definitive, i
tre avvocati corruttori e il giudice corrotto non hanno ancora risarcito i
danneggiati. Acampora, secondo le parti civili, non ha «né beni né redditi
pignorabili». Pacifico si è visto sequestrare 35 milioni di franchi svizzeri a
Vaduz, ma i giudici locali hanno escluso che i soldi del colpevole vadano
restituiti ai danneggiati. L'Imi si è appellata alla Corte Suprema del minuscolo
paradiso fiscale, dove però anche i due penalisti italiani di Pacifico ora
rivendicano i loro onorari: 8,3 milioni di euro. Nel '96, prima della bufera,
Previti si dichiarava proprietario di un attico a Roma, una villa
all'Argentario, altri cinque immobili, uno yacht e un veliero. Nel successivo
decennio ha denunciato al fisco redditi per 6 milioni e 434 mila euro. Oggi,
dopo le condanne che lo hanno fatto restare in carcere per quattro giorni,
Previti rimane intestatario, stando ai pur agguerriti creditori, di un solo
bene. «Una porzione di immobile nel grossetano», probabilmente il 50 per cento
della villa al mare che nessuno pignora, perché è arduo vendere una casa
indivisa che per l'altra metà è della moglie di Previti.
Totalmente nullatenente è Metta: il giudice corrotto non ha pagato neanche le
spese processuali. Appena più generosa la famiglia Previti: il figlio Stefano ha
pagato ai danneggiati, al posto del padre, almeno le spese legali per circa 200
mila euro. Nel silenzio degli interessati, fonti indirette ma molto autorevoli
precisano che in questi giorni lo studio dell'avvocato Angelo Benessia, che
assiste l'Imi, sta preparando le azioni revocatorie per far annullare le
cessioni patrimoniali dei condannati. Previti deve averlo intuito, tanto che per
la prima volta ha offerto una transazione anche per Pacifico e Acampora. Le
posizioni restano lontane: da 20 a 40 milioni. Ma la trattativa prosegue sulle
cifre. Nel '94 i tre avvocati corruttori intascarono personalmente 67 miliardi
di lire dai Rovelli. A questo punto l'Imi (oggi del gruppo Intesa) si
accontenterebbe di metà di questa somma, purché rivalutata per 14 anni. In tal
caso ai tre corruttori resterebbe in tasca, questa volta legalmente, metà della
tangente. Uno schema analogo di transazione è stato già firmato dai Rovelli (la
vedova e i quattro figli), che l'anno scorso hanno formalizzato l'impegno di
risarcire 200 milioni all'Imi. La famiglia si è decisa a pagare solo quando i
magistrati di Monza hanno bloccato 110 milioni di dollari a Miami. Calcolando la
rivalutazione, anche i Rovelli sono usciti dallo scandalo trattenendo più di
metà del bottino. Ultima avvertenza. Un sacro principio del nostro diritto
stabilisce che, se i colpevoli non risarciscono, è lo Stato a dover pagare per i
reati commessi dai giudici corrotti. Morale: se Previti e soci continueranno a
non rimborsare le vittime dei loro illeciti, a dover versare circa due miliardi
di euro saranno tutti gli italiani che pagano le tasse
Paolo Biondini da L’Espresso on line 23.4.2008
http://www.canisciolti.info
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