Una
grande giornata di democrazia, è stata definita la
domenica del Pd. E in qualche modo si deve ammettere che
gli oltre tre milioni di elettori che hanno deciso di
recarsi alle urne per incoronare Walter Veltroni nuovo
segretario del Partito Democratico rappresentano, quale
che sia l’opinione che si ha dell’operazione politica, un
indubbio successo per il neonato partito. Smentiti dunque
i timori della vigilia circa la scarsa affluenza alle
urne, risparmiateci le denunce di brogli dall’on. Rizzo,
si sono archiviati anche gli ovvi problemi politici che in
caso di scarsa affluenza, sarebbero nati sia nello
schieramento del centrosinistra che nel governo. E non è
un caso che quando ancora non era ancora stato
ufficialmente proclamato il vincitore del megasondaggio
chiamato primarie, già Romano Prodi, forse toccando ferro,
si diceva certo di lavorare perfettamente con il nuovo
segretario del PD. Perché se è vero che la genesi e la
nascita del PD hanno rappresentato due tappe fondamentali
nel pericolante cammino su cui si è misurata l’instabilità
della maggioranza governativa, anche un eventuale
fallimento delle primarie per eleggere il segretario
avrebbe determinato una crisi politica di proporzioni
devastanti per l’azionista principale del governo.
Constatare che l’affluenza degli elettori alle primarie
fosse stata modesta, avrebbe indubbiamente significato uno
scollamento tra la dirigenza del nuovo soggetto politico e
la sua base elettorale. Oltre tutto, il confronto con i
quattro milioni di elettori di Romano Prodi alle primarie
per la scelta del candidato premier dell’Unione sarebbe
stato inevitabile quanto severo e carico di significati.
Ma da oggi Prodi è il premier di una coalizione il cui
leader di maggioranza è Veltroni.
Quella di ieri è comunque una risposta all’antipolitica.
Se milioni di cittadini, in tempi oggettivamente difficili
per la politica per la vita dei partiti, scelgono comunque
di dire la loro e di farlo affrontando code, è comunque
una buona notizia. In questo senso D’Alema ha buon gioco
nel definire “storica” la giornata di ieri, che il
ministro degli Esteri identifica nella mescolanza delle
due culture di riferimento - quella cattolica e quella
socialista - del Paese.
Ma l’elezione del nuovo segretario, per quanto supportata
da numeri così importanti, non apre un cammino in discesa.
Il prossimo 27 Ottobre i 2400-2500 membri dell’assemblea
costituente del futuro partito, che dovranno come primo
passo formalizzare l’esito delle urne, sono quanto di più
litigioso possibile. Gli ex DC, come del resto lo stesso
Veltroni, hanno ripetutamente rivendicato, nella
formulazione dei criteri per la composizione della stessa,
numeri diversi e blocchi tra loro contrastanti, scopo
condizionamento “dal basso” (se così si può dire)
dell’impronta leaderistica del nuovo segretario.
Operazione non semplice, a dire il vero, perché costruire
un partito solo dopo aver scelto il leader e poi cercare
di limitare al massimo i poteri del leader stesso, è cosa
contorta oltre che stravagante.
Quanto poi alle possibilità di successo del nuovo partito,
ci sia consentito avanzare dubbi. Le più ottimistiche
previsioni assegnano al nuovo partito una percentuale che
oscilla tra il 28 e il 34 per cento; numeri importanti,
necessari ma non sufficienti. Di fronte alla crisi di
consenso, alla inadeguatezza evidente del governo ed alla
carenza di progettualità, quei numeri rischiano di essere
un capitale sterile. Senza un accordo con la sinistra non
si governa e, nell’ala moderata, il pieno è già stato
fatto. Ma - si dice da parte di alcuni - si può giocare su
diversi tavoli, prefigurare diverse maggioranze, prevedere
diversi sbocchi, riforme elettorali permettendo. Ma sono
parole in libertà e risulta inutile ribadire il dover
“andare oltre” se non si è nemmeno capaci di stare qui ed
ora. Ci sia consentito registrare l’assoluta inadeguatezza
del gruppo dirigente del PD di andare oltre il prospettare
alchimie di alleanze senza essere in grado di offrire, dal
governo, dimostrazione di capacità politica e rispetto
degli impegni programmatici assunti con gli elettori. Per
ora il PD ha chiarito che la somma di due gruppi dirigenti
fallimentari non genera la nascita di un gruppo dirigente
vincente. Semmai le inadeguatezze di entrambi risulteranno
accentuate, non superate.
Il PD è stato – e resta – una operazione politica a
freddo. Nata per seppellire identità culturali e politiche
e con essi un progetto di società, ha come obbiettivo
primario quello di costituire un blocco neocentrista che
possa occupare ogni possibile spazio politico e
determinare, con ciò, l’imprescindibilità del PD per
qualunque composizione di maggioranze governative. In
soffitta progetti di società, idealità e trasformazioni;
la parola d’ordine è governare, comunque e, soprattutto,
con chiunque. Perché il superamento della dialettica tra
istanze progressiste e conservatrici, porta con sé la fine
del conflitto, sale della democrazia, e il venir meno
della competizione tra modelli diversi o contrapposti.
E se in qualche modo i reduci della DC, o almeno la parte
migliore della stessa, trovano comunque una certa comodità
di collocazione in una forza politica che nasce sotto la
bandiera dell’interclassismo, non altrettanto si può dire
per gli eredi della sinistra che fu. Si parla di
cambiamento, ma non è per favorire il cambiamento del
Paese che la sinistra smette di esser tale. Si rinuncia
proprio ad una “idea” di sinistra, ad una cultura politica
che possa rappresentare le aspettative di crescita e di
sviluppo. Si rinuncia in partenza ad offrire un disegno
che preveda una vita diversa per i diseredati e per le
classi che vengono escluse scientificamente dal potere,
inteso come reticolo d’interessi, difesa degli stessi ed
esclusione di coloro che non ne sono portatori. Si
rinuncia a proporre un punto di vista, un’analisi ed una
proposta “di” e “da” sinistra alla crisi di civiltà che
abbiamo di fronte.
Proprio la fine dell’idea di una società all’insegna
dell’uguaglianza pare essere la cifra di quella che appare
una decisa inversione ad “U” del sistema di valori
politici che risiedono alla base del nascituro partito. Ma
quando si declina la libertà senza renderla
imprescindibile dall’uguaglianza, si concepisce un disegno
elitario e classista, che sostituisce i diritti collettivi
di cittadinanza con i privilegi di una classe o di una
casta. Non è infatti un caso che fin dall’inizio, dal
cosiddetto “manifesto” del Pd, passando alle ricorrenti
frasi dei loro leader (veri o presunti che siano), e
finendo con le proposte di “nuovo conio”, emerga con
chiarezza la diversa natura del riferimento sociale; la
persona ha sostituito le classi e l’individuo si è
insediato nel vuoto contestuale.
In questo senso Veltroni è perfetto nel suo ruolo. Nessuno
più del sindaco di Roma incarna meglio la trasversalità
del messaggio politico, nessuno più di lui, nuovo per
eccellenza, è pronto ad ogni conio di maggioranza. Ammesso
però che i due milioni di elettori siano disposti a fare
altre code per altre urne. I voti di ieri sono un bonus a
breve termine che gli elettori hanno voluto elargire in
attesa di risposte. Forse l’ultima dimostrazione di
disponibilità ad ingaggiarsi per un futuro migliore.
Chiedono un progetto di società, non un ritorno al passato
con parole nuove. Partiti democratici, non è detto
vogliano arrivare democristiani.
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