Ultimamente sono apparsi molti articoli che riportavano la tesi secondo la
quale l’annunciato piano del governo di Teheran di istituire, probabilmente già
da questo mese, una Borsa Petrolifera, è il vero motivo che si nasconde dietro
ai progetti di guerra all’Iran da parte delle forze anglo-americane. Secondo la
mia opinione, questa tesi è sbagliata per molte ragioni, non ultima delle quali
il fatto che una guerra contro l’Iran è pianificata sin dagli anni 90, ed è
parte integrante della Grande Strategia Mediorientale degli Stati Uniti.
Cosa ancora più importante, la Borsa Petrolifera è il classico specchietto per
le allodole (in originale "red herring" - "aringa rossa" -, il tentativo
intenzionale di confondere o distrarre l'interlocutore per condurlo su una falsa
pista. Il nome deriva dall'usanza di affumicare le aringhe per fuorviare i cani
attratti dall'odore. N.d.T.), usato per sviare l’attenzione dai reali piani
geopolitici che condurrebbero ad una possibile guerra, e che sono già stati
esaminati su questo sito e da un mio articolo, “Calcolare i rischi di una
guerra in Iran”, pubblicato su GlobalResearch.ca il 29 gennaio 2006.
Nel 1996, Richard Perle e Douglas Feith, due neoconservatori che più tardi
avrebbero avuto un ruolo fondamentale nella formulazione della politica
mediorientale dell’amministrazione Bush, firmarono un documento indirizzato
all’allora neo-eletto Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Questa
relazione, dal titolo “Un Taglio Netto: una Nuova Strategia per Rendere il
Dominio Sicuro”, esortava Netanyahu ad operare un “taglio netto nel processo
di pace”. Inoltre invitava il Primo Ministro a rinforzare le difese di Israele
in modo da poter contrastare con più fermezza Siria e Iraq, e tenere sotto
controllo l’Iran, paese sostenitore della Siria.
Più di un anno prima di lanciare l’Operazione Shock and Awe (Colpisci e
Terrorizza) contro l’Iraq, il presidente Bush, nel suo oramai tristemente noto
discorso al Congresso sullo Stato dell’Unione del gennaio 2002, aveva marchiato
il trittico Iran, Iraq e Corea del Nord come “L’Asse del Male”. Tutto questo
accadeva ben prima che a Teheran si iniziasse solo a considerare la possibilità
di fondare una borsa petrolifera per poter commercializzare il petrolio in
differenti valute.
Il ragionamento portato avanti da coloro che sono convinti che la Borsa
Petrolifera di Teheran possa essere il casus belli, il pretesto per portare
Washington alla potenziale distruzione termonucleare dell’Iran, sembra basarsi
sull’assunto che vendendo liberamente petrolio ad altre nazioni e a compratori
in Euro, Teheran innescherebbe una catena di eventi per cui nazione dopo
nazione, compratore dopo compratore, si arriverebbe ad acquistare petrolio non
più in dollari USA, ma solo in euro. Il risultato sarebbe, secondo questa
teoria, una frenetica corsa alla vendita di dollari, panico nei mercati azionari
di tutto il mondo e il crollo del ruolo del dollaro come valuta di riserva, uno
dei “Pilastri dell’Impero”. Ed ecco che il Secolo Americano andrebbe
improvvisamente a rotoli, grazie alla Borsa Petrolifera Iraniana…Ma la realtà è
un po’ diversa.
Alcune considerazioni di fondo
Questa teoria stenta ad essere convincente per svariate ragioni. Innanzitutto le
argomentazioni, almeno nel caso di uno dei teorici della Borsa Petrolifera, si
basano su un’errata interpretazione del processo che ho descritto in un mio
libro, Un Secolo di Guerra, che riguardava la creazione nel 1974 del
“riciclaggio di petrodollari”, sulla scia dell’impennata del 400% del prezzo del
petrolio orchestrato dall’OPEC, processo in cui l’allora Segretario di Stato Usa
Henry Kissinger era pesantemente coinvolto.
Non fu dunque il dollaro a trasformarsi in “petrodollaro”, nonostante Kissinger
parlasse di “riciclaggio di petrodollari”. In realtà, egli si riferiva
all’inizio di una nuova fase dell’egemonia globale statunitense, nella quale i
“petrodollari” guadagnati dai paesi dell’OPEC attraverso l’esportazione di
petrolio sarebbero stati riversati nelle casse delle più grandi banche di New
York e Londra, e quindi ri-prestati sotto forma di dollari a paesi distrutti
dalla crisi petrolifera, come Brasile e Argentina, dando di fatto origine a
quella che verrà conosciuta come la Crisi Debitoria Latino Americana.
A quell’epoca, il dollaro era una moneta priva di valore (fiat currency - moneta
di produzione statale valida per decreto, priva di valore intrinseco. N.d.T.)
fin dall’agosto del 1971, cioè da quando il presidente Richard Nixon aveva
abrogato il Trattato di Bretton Woods (abbandonando la convertibilità del
dollaro in oro e tutti i correlati tassi di cambio fissi. N.d.T.) e rifiutato
quindi di riscattare con lingotti d’oro i dollari USA depositati nelle banche
centrali straniere. Il dollaro iniziò così una serie di fluttuazioni nei
confronti delle altre maggiori valute, più che altro in calando, fin quando non
fu riportato in vita dal ciclone provocato dallo shock petrolifero del 1973-74.
La crisi del 1973 regalò ad un dollaro agonizzante un improvviso incremento
della domanda globale da parte di quelle nazioni che dovevano fare i conti con
un prezzo del petrolio di importazione aumentato del 400%. A quel tempo, per una
convenzione del dopoguerra e per convenienza, come il dollaro era l’unica valuta
di riserva riconosciuta in tutto il mondo insieme all’oro, allo stesso modo, per
esigenze pratiche, il prezzo del petrolio veniva stabilito dai membri dell’OPEC
in dollari.
Quell’impennata dei prezzi fornì a paesi come la Francia, la Germania, il
Giappone o altri importatori un ottimo pretesto per cercare di acquistare il
petrolio nelle loro rispettive valute nazionali, in modo da diminuire la
pressione provocata dal rapido decremento del valore delle loro riserve di
dollari di scambio. Il Tesoro degli Stati Uniti e il Pentagono erano sicuri che
ciò non sarebbe successo, sia per la diplomazia segreta di Kissinger, basata
sulle minacce, sia per il gigantesco accordo militare stipulato con il
paese-chiave dell’OPEC, l’Arabia Saudita. A quel punto fu inevitabile vedere
l’ultimo Scià dell’Iran in visita a Washington come un vassallo di Kissinger.
Il nocciolo della questione non è che il dollaro divenne una petro-valuta, ma
che lo status di valuta di riserva del dollaro, ora soltanto una moneta
cartacea, venne ripristinato dall’incremento del 400% della richiesta mondiale
di dollari, necessari per poter comprare il petrolio. Ma questa è solo una parte
della storia. Nel 1979, in seguito all’ascesa al potere dell’Ayatollah Khomeini
in Iran, il prezzo del petrolio schizzò alle stelle per la seconda volta in sei
anni, ma paradossalmente, quello stesso anno, il dollaro invece di salire,
iniziò una rovinosa caduta libera. Non era più tempo di “petrodollari”.
I possessori stranieri di dollari iniziarono a disfarsene, in segno di protesta
verso la politica estera dell’amministrazione Carter. Fu proprio il dover far
fronte a quella crisi a costringere Jimmy Carter a nominare Paul Volcker a capo
della Federal Reserve, nel 1979. Nell’ottobre del ‘79, Volcker diede un altro
grosso impulso al dollaro, innalzando i tassi di interesse negli Stati Uniti
fino a un massimo del 300% in poche settimane, e poi lasciandoli liberi di
fluttuare. La conseguenza fu che i tassi di interesse di tutto il mondo furono
obbligati a subire un enorme incremento, innescando così una recessione globale
che provocò disoccupazione di massa e miseria. Naturalmente questo provvedimento
“salvò” il dollaro, che ridivenne l’unica e sola valuta di riserva; non era però
più il “petrodollaro”: era la moneta di emissione della più grande Superpotenza
mondiale, una Superpotenza decisa a fare tutto ciò che sarebbe stato necessario
per mantenere lo status quo.
I dollari sostenuti dagli F-16
Dal 1979 in poi, l’establishment del potere statunitense, da Wall Street a
Washington, ha fatto di tutto per mantenere lo status di incontestata valuta di
riserva globale del dollaro. Questo, tuttavia, non è un ruolo puramente
economico. Lo status di valuta di riserva è solo un tassello nel quadro del
potere globale, e fa parte della determinazione degli Stati Uniti a dominare le
altre nazioni e a controllare i processi economici mondiali. Gli USA non hanno
raggiunto questo status attraverso un voto democratico delle altre banche
centrali del mondo, ma facendo come l’Impero Britannico nel 19° secolo:
scatenando guerre.
Perciò, il potere del dollaro è strettamente legato al ruolo rivestito dagli
Stati Uniti, unica e indiscussa superpotenza militare mondiale. In un certo
senso, dal 1971, da quando cioè non è più sostenuto dall’oro, il dollaro è
sostenuto dai caccia F-16 e dai carri armati MI Abrams, che operano in oltre 130
basi statunitensi sparse in tutto il mondo, a difesa della libertà.
La sfida dell’Euro?
Affinchè l’euro possa iniziare a sfidare l’egemonia del dollaro USA, Eurolandia
dovrebbe virtualmente rivoluzionare le proprie linee politiche. Innanzitutto la
Banca Centrale Europea, l’organismo istituzionalizzato e antidemocratico creato
dal Trattato di Maastricht allo scopo di preservare il potere delle banche
creditrici di riscuotere i crediti, dovrebbe cedere i propri poteri ai
legislatori. Quindi dovrebbe accendere le sue presse tipografiche e stampare
euro a volontà, senza pensare al domani, perché l’attuale dimensione del mercato
obbligazionario controllato dal governo di Eurolandia è ancora troppo ristretta
se confrontata col gigantesco mercato del Tesoro degli Stati Uniti.
Come ha spiegato Michael Hudson in un suo brillante e poco considerato lavoro,
intitolato ‘Super Imperialismo’, il perverso colpo di genio dell’egemonia
globale del dollaro, è stato quello di prendere atto, nei mesi successivi
all’agosto del 1971, che in un sistema monetario statale, il potere statunitense
era strettamente legato alla creazione di un debito. La conclusione è quindi che
il debito e il deficit commerciale degli Stati Uniti non costituiscono il
“problema”, ma la “soluzione”.
Gli USA avrebbero potuto stampare una quantità infinita di dollari per pagare le
importazioni di Toyota, Honda, BMW o qualsiasi altro bene, in un sistema nel
quale i loro partner commerciali, possedendo dollari di carta per le loro
esportazioni, avevano una tale paura di un crollo del dollaro da continuare a
sostenerlo, comprando buoni e obbligazioni del Tesoro degli Stati Uniti. Non per
niente, nei trent’anni successivi all’abbandono della convertibilità del dollaro
in oro da parte degli USA, le riserve di dollari sono aumentate di un
incredibile 2.500%, e tuttora continuano a crescere con tassi a doppia cifra.
Questo sistema è proseguito indisturbato negli anni ottanta e novanta. La
politica statunitense era un misto di crisi amministrative unite ad un’abile e
coordinata ostentazione della sua potenza militare. Negli anni ottanta il
Giappone, spaventato dall’idea di contrapporsi a chi gli forniva l’ombrello
nucleare, acquistò un’infinità di buoni del Tesoro degli Stati Uniti, nonostante
sapesse che nell’operazione avrebbe perso una quantità esorbitante di denaro. Fu
una decisione politica, non certo un investimento.
L’unica potenziale sfida al ruolo di riserva del dollaro arrivò alla fine degli
anni 90, con la decisione da parte dell’Unione Europea di creare una moneta
unica, l’Euro, amministrata da una sola banca centrale, la Banca Centrale
Europea (BCE). L’Europa sembrò essere finalmente unificata, una voce
politicamente indipendente in quello che allora Chirac definì un mondo
multi-polare. Le illusioni di multipolarismo svanirono però con la decisione
poco reclamizzata, presa dalla BCE e dalle banche centrali nazionali, di non
condividere le rispettive riserve auree in modo che fossero di supporto alla
nuova moneta. Questa decisione giunse nel bel mezzo dell’infuocata controversia
relativa all’oro dei nazisti e ai dichiarati abusi commessi durante la guerra da
Germania, Svizzera, Francia e altri paesi europei.
Dopo l’attentato dell’11 settembre 2001 e la conseguente dichiarazione di Guerra
Globale al Terrorismo da parte degli Stati Uniti, unita alla decisione
unilaterale di ignorare le Nazioni Unite e la comunità internazionale, e
procedere ad una guerra contro una nazione indifesa come l’Iraq, ben pochi paesi
hanno avuto il coraggio di sfidare l’egemonia del dollaro. Oggi, la somma delle
spese per la difesa di tutte le nazioni dell’UE impallidisce al confronto con le
attuali spese, preventivate e non, per la difesa degli Stati Uniti: l’esborso
nell’anno fiscale 2007 raggiungerà la sconcertante cifra ufficiale di 663
miliardi di dollari, mentre il totale di spesa dei paesi dell’UE raggiungerà a
malapena i 75 miliardi di dollari, con tendenza a diminuire, in parte a causa
della pressione esercitata dalla BCE sul deficit dei vari governi.
Quindi, almeno fino ad ora, nulla indica che il Giappone, gli stati dell’Unione
Europea o altri possessori di dollari stiano pensando ad una liquidazione del
loro patrimonio in dollari. Nemmeno la Cina, per quanto possa essere infastidita
dalla proterva politica degli Stati Uniti, dà l’impressione di essere ansiosa di
ridestare la furia del drago americano.
Le origini della Borsa Petrolifera
L’idea di creare una piattaforma di scambio in Iran per commerciare petrolio e
per creare un nuovo prezzo di riferimento per il greggio, sembrerebbe venire
dall’ex direttore del London International Petroleum Exchange, Chris Cook. In un
suo articolo del 21 gennaio, apparso sul sito Asia Times, Cook descriveva
la genesi di quest’idea, e ricollegandosi ad una lettera da lui scritta nel 2001
al Governatore della Banca Centrale Iraniana, il dott. Mohsen Nourbakhsh,
riportava i suoi consigli:
“In quella lettera facevo notare che l’attuale struttura del mercato
petrolifero globale favorisce enormemente gli intermediari, in particolar modo
le banche di investimento, e che, sia i consumatori che i produttori come
l’Iran, vengono notevolmente penalizzati. Suggerivo dunque all’Iran di prendere
in considerazione con una certa urgenza la possibilità di creare una borsa
valori dell’energia in Medio Oriente, e soprattutto un nuovo prezzo di
riferimento per il petrolio del Golfo Persico.
Ho assistito dunque, con amaro divertimento, alla vasta diffusione via Internet
del mito secondo cui il motivo all’origine del progetto di “Borsa Iraniana”
sarebbe la volontà di far crollare il dollaro americano, stabilendo i prezzi del
petrolio in euro.
Come chiunque abbia una certa familiarità con l’OPEC (Organizzazione dei Paesi
Esportatori di Petrolio) saprà, la denominazione del prezzo del petrolio in
valute diverse dal dollaro non è un argomento nuovo, e chiunque sappia qualcosa
delle regole economiche potrà confermare che stabilire il prezzo del petrolio
non è una questione puramente transazionale: la cosa importante è in quale
attivo (o, nel caso degli Stati Uniti, passivo) questi proventi vengono
successivamente investiti.”
Una vera e totale sfida allo strapotere del dollaro, implicherebbe ‘de facto’
una dichiarazione di guerra all’odierno “dominio a largo spettro” degli Stati
Uniti, e i potenti membri del Consiglio della BCE lo sanno bene, così come i
capi di stato dei paesi dell’Unione Europea. Idem per la Cina, il Giappone,
l’India, e Vladimir Putin.
Fino a quando le potenze Eurasiatiche non si uniranno per lanciare una sfida
all’indiscusso dominio dell’unica superpotenza rimasta al mondo, non vi sarà
alcuna speranza che l’Euro, lo Yen o lo Yuan cinese possano anche solo tentare
di contrastare il ruolo egemone del dollaro. E’ una questione di importanza
vitale, così come altrettanto vitale è cercare di capire le reali dinamiche che
stanno spingendo il mondo sull’orlo di una possibile catastrofe nucleare.
Una piccola nota finale. Un mio caro amico di Oslo mi ha recentemente inviato un
articolo apparso sulla stampa norvegese. Alla fine del dicembre scorso, Sven
Arild Andersen, direttore della Borsa di Oslo, ha annunciato di averne
abbastanza della dipendenza dalla Borsa petrolifera di Londra, che commercia
petrolio solo in dollari. La Norvegia, continua Andersen, uno dei maggiori
produttori di petrolio, poiché vende gran parte del suo petrolio ai paesi
dell’Unione Europea, dovrebbe istituire una propria borsa petrolifera e
commerciare il suo petrolio soltanto in euro. Che la Norvegia, membro NATO,
diventi il prossimo obiettivo dell’ira del Pentagono?
F. William Engdahl è condirettore del Global Research Contributing, e autore
del libro ‘Un Secolo di Guerra: La Politica Petrolifera Anglo-Americana e il
Nuovo Ordine Mondiale’ Pluto Press Ltd. Può essere contattato tramite il suo
sito web www.engdahl.oilgeopolitics.net.
10 marzo 2006
© Copyright F. William Engdahl, GlobalResearch.ca, 2006
Link:
GlobalResearch.ca
TRaduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di GIUSEPPE SCHIAVONI
Articoli Correlati
19/03/2006 La Borsa Petrolifera dell' Iran non è un Casus Belli...
Ultimamente sono apparsi molti articoli che riportavano la tesi secondo...
10/02/2006 La Borsa Petrolifera Iraniana è un grosso Pericolo per il Dollaro
Nel 2000 Saddam Hussein aveva annunciato che il paese avrebbe cominciato a denominare il prezzo del petrolio in euro anziché in dollari. Dopo poco meno di tre anni l’Irak...
03/02/2006 La vera Arma Letale di Teheran
La prospettiva di un fungo atomico che si innalza nel deserto di Dash-e-lut, in Iran, può non essere la maggior minaccia iraniana alla stabilità internazionale...
02/02/2006 02/02/2006 Il Progetto della Borsa Petrolifera Iraniana
Ogni stato nazionale impone le tasse ai propri cittadini, mentre ogni impero le impone agli altri stati nazionali. La storia degli imperi del passato...
29/01/2006 La Borsa Petrolifera Iraniana è una Minaccia diretta per il Dollaro
29/01/2006 La Borsa Petrolifera Americana è una Minaccia diretta per il Dollaro...
La Borsa Iraniana del Petrolio - Pagina Petrolio
|