Le cause di una guerra sono sempre molteplici. Esse si annidano come matrioske nell’insieme che genera i conflitti armati; si moltiplicano, con reazione a catena, dai livelli strategici superiori ai subordinati, fino al “casus belli”, il detonatore che innesca la deflagrazione.
Nella guerra irakena, il
“casus belli” è l’accusa degli USA a Saddam, di sviluppare e
nascondere armi di distruzioni di massa. L’Iraq, considerato dagli USA,
fiancheggiatore dei terroristi nemici degli Stati Uniti e dei suoi alleati, è
di già collocato da George W. Bush nell’elenco degli “Stati canaglia”,
le nazioni, perfide, nemiche dell’America.
La madre di tutte le
cause prossime della guerra è, senza ombra di dubbio, l’attacco terrorista
agli USA dell’11 settembre, già causa prossima di due guerre: Afganistan e
Irak. Con l’11 settembre i tempi della svolta offensiva politica e
militare degli Stati Uniti diventano maturi. Il consenso interno ed
internazionale necessario al sostegno della politica di Bush raggiunge elevati
valori.
Si crea la scena coerente
con lo scenario geo-politico unipolare seguito al crollo del comunismo.
Gli Stati Uniti assurgono
a posizione di potenza assoluta planetaria. Lo sbilanciamento investe anche
l’endemica crisi arabo-israeliana. Il venir meno dell’appoggio Sovietico
agli Stati Arabi nemici d’Israele, dell’America e dei suoi alleati,
facilita gli USA nel passaggio dalla politica difensiva del bipolarismo alla
offensiva dell’unipolarismo.
L’America intraprende
la via delle guerre per il raggiungimento dei propri scopi geo-strategicici .
La realtà planetaria può
essere rappresentata con un modello logico basato sulle entità in gioco
e le relative correlazioni.
Le entità sono di vario
genere: geopolitiche (Occidente e Mondo Arabo); religiose (Islam,
Cristianesimo Ebraismo); socio-politico-economico-industriali ( Primo
mondo e terzo mondo); energetiche ( Paesi produttori e fornitori di petrolio,
Paesi produttori ed acquirenti di petrolio; Paesi non produttori ed acquirenti
di petrolio.)
Esse possono essere
suddivise in sottoentità: occidentale (filo-americani,
occidentali-antiamericani, arabi filo-americani, arabi antiamericani),
antioccidentale (mondo islamico integralista, Stati comunisti sopravvissuti,
nostalgici delle ideologie del XX secolo).
Israele è, poi, entità
peculiare di spicco. Fondata sulla propria religione, appartenente alla sfera
occidentale-americana, costituisce una realtà politica espressa dalla comunità
internazionale ebraica influente a livello globale.
Gli USA costituiscono
l’entità predominante, dominando, essi, la scena planetaria.
Le principali
correlazioni tra queste entità sono d’ordine politico, militare, religioso,
commerciale.
Il modello consente, più
agevolmente e razionalmente, di individuare le cause prossime e remote
originatrici dei contrasti politici sfociati in guerra.
La politica planetaria
degli Stati Untiti, tendente ad esportare il proprio modello politico ed
economico anche nei paesi non democratici, trova naturali contrasti proprio
nei poteri basati su sistemi assolutistici e dogmatici che vedono minacciata
la loro esistenza.
L’esportazione della
democrazia farebbe dissolvere i regimi dittatoriali, teocratici e non
teocratici.
Ecco una causa primaria
del violento contrasto opposto alla politica degli Stati Uniti.
Clausewitz insegna: “
la guerra è la prosecuzione della politica con altri mezzi” ed è tanto più
probabile quanto maggiore è il divario di potenza tra avversari.
Le entità, cui si
accennava, fanno parte di un sistema. E’ noto che le cause dei
conflitti sono insite nei sistemi si compendiano, quasi sempre, in motivi di
ordine storico, politico, economico, energetico, religioso, di costume. Si
differenziano, soprattutto, per l’importanza che, di volta in volta,
assumono nel determinare lo scoppio delle guerre.
Nel caso dell’Iraq, la
causa predominante è la minaccia, gravissima per gli USA ed i suoi alleati,
della politica di Saddam, tesa a contrastare gli Stati Uniti con appoggio al
terrorismo e con lo sviluppo e l’acquisizione di armi di distruzioni di
massa. Queste, già pericolose di per sé, diventano pericolosissime in mano
ad un dittatore senza scrupoli che ha già fatto ricorso ad esse per
sterminare popolazioni avverse al proprio regime.
Le cause, ad un livello
strategico superiore, si possono scorgere nel controllo dei pozzi petroliferi.
(Dottrina “Cheney”) e nella teoria delle alleanze instabili finalizzate al
controllo di aree strategiche. (Paul Wolfowitz)
La causa energetica non
è determinante come quella geo-politica dell’intenzione americana di
realizzare un nuovo ordine mondiale.
Il petrolio importato lo
scorso anno dai paesi arabi OPEC è calato dal 47% dell’80 al
25% del totale.
Nuovi grandi fornitori
sono apparsi sul mercato. La Russia produce 10 milioni di barili di petrolio
il giorno e n’esporta fra i 4. e i 5 milioni. Il Venezuela da solo
copre il 12% dell’import americano
Il controllo della
produzione di petrolio iracheno è importante ma non vitale.
Appare chiaro che le
cause preponderanti della guerra in Iraq, siano da ricercarsi nella necessità
di allargare sia il perimetro difensivo degli USA sia, soprattutto, il
controllo strategico nella regione Euro-Asiatica nella quale l’Occidente, si
protende dall’Atlantico, senza soluzione di continuità.
14/05/2008 La sovranità nazionale assoluta come causa strutturale della guerra. Le origini storiche e culturali del primo satyagraha per la pace
(Diego Galli, http://www.radioradicale.it)
Proviamo a sintetizzare le tesi sottostanti al rilancio, avvenuto a
Bruxelles pochi giorni fa, del primo grande satyagraha per la pace da parte
di Marco Pannella. La pace è un obiettivo politicamente perseguibile. Il
pacifismo è del tutto inadeguato a raggiungere questo obiettivo per un
difetto di analisi. I pacifisti tendono infatti a individuare le cause delle
guerre nel neo-imperialismo americano, negli interessi petrolifici, in
generale nel potere degli interessi economici occidentali. Quello che
distingue i radicali dai pacifisti è anzitutto un’analisi alternativa della
causa strutturale, e non contingente, delle guerre: la sovranità nazionale
assoluta.
Questa analisi di tipo generale trova nel Medio Oriente, e in particolare
nella situazione in cui si trova Israele, un importante banco di prova.
Pur rappresentando potenzialmente un avamposto della democrazia in Medio
Oriente, Israele si trova in una posizione di estrema debolezza,
rappresentando appena lo 0,2% del territorio dell’area geopolitica in cui si
situa. Il perenne stato di guerra ha portato a un deperimento delle
istituzioni e garanzie democratiche all’interno dello stato di Israele,
mentre le relazioni con i paesi confinanti sono caratterizzati dalla
minaccia se non dall’uso frequente della forza militare. La sovranità
assoluta dello stato d’Israele, afferma Pannella, rappresenta un pericolo
per sè e per il mondo, dato che un conflitto in quell’area potrebbe in poco
tempo estendersi a livello globale.
La causa principale di questo possibile conflitto è rappresentata dal
fatto che alla sovranità nazionale israeliana, condizione che crea pericolo
anzitutto allo stato israeliano e ai suoi cittadini, si contrappone la
rivendicazione della sovranità nazionale assoluta di uno stato palestinese,
il cui territorio è in parte conteso con Israele. Questa rivendicazione,
sostenuta da gran parte dell’opinione pubblica mondiale, in particolare nel
mondo arabo, rappresenta un inganno enorme, perché la sovranità nazionale
assoluta non garantisce affatto maggiore giustizia e diritti, anzi nella
maggior parte dei casi, soprattutto in quella regione, è lo strumento che
consente l’esercizio indisturbato di un potere autocratico e oppressivo da
parte di classi dirigenti inamovibili e autoritarie.
La dimostrazione della validità di quest’analisi è contenuta nella
proposta politica che la sostanzia, l’ingresso di Israele nell’Unione
europea. Questa storica proposta di Marco Pannella ha un carattere
strategico rispetto al raggiungimento della pace nella regione perché:
- se Israele divenisse parte dell’Unione europea cambierebbero i
rapporti di forza nella regione. I paesi che vogliono la cancellazione
dello stato di Israele si troverebbero a dover muovere guerra non più a
uno stato che ricopre lo 0,2% del territorio, ma a un intero continente di
centinaia di milioni di abitanti:
- le istituzioni israeliane si troverebbero a dover rispondere delle
proprie decisioni a organi sovranazionali di tutela dei diritti umani, e
la loro politica estera sarebbe sottoposta ai vincoli dell’appartenenza a
una comunità politica più vasta;
- si aprirebbe la prospettiva di un ingresso nell’Unione europea di
altri paesi mediorientali, rafforzando gli elementi culturali, economici e
politici che uniscono i paesi che si affacciano sul mediterraneo,
piuttosto che respingerli sotto l’egemonia di altri stati non democratici.
E’ chiaro che questa proposta è fondata su assunti non dimostrabili, come
d’altronde tutte le proposte davvero innovative. Gli eventi politici non
sono prevedibili meccanicisticamente, soprattutto in situazioni complesse e
delicate come quella che caratterizza il Medio Oriente. Tuttavia, oltre per
l’originalità, la proposta di Marco Pannella si distingue per un’analisi
delle relazioni internazionali che, identificando nella sovranità nazionale
assoluta la causa principale delle guerre, presume che la limitiazione della
sovranità nazionale sia potenzialmente benefica. Quello che occorre quindi
approfondire è l’analisi delle relazioni internazionali che sta dietro la
proposta di Pannella, e cioè la visione federalista. Una visione che affonda
le sue radici nel pensiero di Immanuel Kant, Lord Lothian, Luigi Einaudi,
Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Eugenio Colorni.
La strattura bellicosa della stato nazionale sovrano
Si legge nel Manifesto di Ventotene scritto da Ernesto Rossi e Altiero
Spinelli dal confino politico nel tra il 1941 e il 1941:
La sovranità assoluta degli stati nazionali ha portato alla volontà di
dominio di ciascuno di essi, poiché ciascuno si sente minacciato dalla
potenza degli altri e considera suo “spazio vitale” territori sempre più
vasti, che gli permettano di muoversi liberamente e di assicurarsi i mezzi
di esistenza, senza dipendere da alcuno. Questa volontà di dominio non
potrebbe acquetarsi che nella egemonia dello stato più forte su tutti gli
altri asserviti. In conseguenza di ciò, lo stato, da tutelatore della
libertà dei cittadini, si è trasformato in padrone di sudditi tenuti a
servizio, con tutte le facoltà per renderne massima l’efficienza bellica.
Anche nei periodi di pace, considerati come soste per preparazione alle
inevitabili guerre successive, la volontà dei ceti militari predomina ormai
in molti paesi su quella dei ceti civili, rendendo sempre più difficile il
funzionamento di ordinamenti politici liberi.
E’ questa la radice dell’analisi federalista, il carattere
strutturalmente bellicoso di relazioni internazionali fondate sul principio
della sovranità nazionale assoluta. Il Manifesto di Ventotene non era la
prima manifestazione di questa analisi. Si trattava piuttosto dell’attualizzazione
in un progetto politico di una più antica corrente di pensiero, quella
federalista, che traeva origina da Immanuel Kant, uno dei nomi tutelari
iscritti nel fondale della conferenza di Bruxelles.
Il legame tra federalismo e pace
Il progetto federalista è fin dalle sue origini intimamente legato al
perseguimento della pace internazionale. Il saggio di Kant del 1795 si
intitola non a caso “Per la pace perpetua”.
La causa strutturale della guerra, secondo Kant, risiede nel fatto che i
rapporti tra gli stati si trovano ancora nello stadio del bellum omnia
contra omnes. Le società umane avevano già superato quello stadio del
processo evolutivo in cui le relazioni tra individui sono di carattere
pregiuridico, affidate alla legge della giungla, quella del più forte, e si
erano evolute con la creazione dello stato moderno, dove il monopolio della
forza da parte di un’autorità centrale ha consentito una regolamentazione
dei rapporti sociali fondata sul diritto. Nel campo della relazioni
internazionali, invece, ogni stato deve ancora “farsi giustizia da sè”,
mancando un’autorità internazionale in grado di dirimere i conflitti,
affermare la legalità, esercitare, quando necessario, la forza, impedendo ai
singoli stati di ricorrere alla violenza per risolvere le dispute.
Per riassumere la visione di Kant, Lucio Levi, nella voce “federalismo”
del Dizionario di politica della Utet, scrive che «sotto la pressione
dell’anarchia internazionale le risorse materiali e ideali della società
vengono in gran parte orientate verso i preparativi militari e gli individui
vengono inseriti in strutture politiche autoritarie, le più efficaci nel
garantire l’indipendenza dello Stato nell’arena politica internazionale. Ne
consegue che le esigenze di sicurezza e di potenza dello stato tendono
fatalmente a prevalere su quelle di libertà degli individui e di autonomia
della comunità nelle quali essi vivono. (…) In effetti, ogni stato fonda la
propria autonomia sull’esercito e sul potere di obbligare i cittadini ad
uccidere e a morire per la patria. E tale potere può legittimarsi solo a
condizione che lo Stato mistifichi nella coscienza degli individui le
caratteristiche universali dei valori cristiani, liberali, democratici e
socialisti ed estorca ai cittadini una fedeltà esclusiva».
Come afferma Lord Lothian nel suo libro “Il pacifismo non basta”, il
pacifismo ha fallito nel suo compito di impedire la guerra perché «non è
andato alle fondamenta dei fenomeno, né si è reso conto del prezzo che deve
essere pagato se si vuole che la guerra finisca».
Ecco il saldo legame tra sovranità nazionale assoluta, militarismo,
guerra, ed ecco di conseguenza le radici culturali del progetto radicale
antimilitarista, federalista europeo, e nonviolento, dove alla nonviolenza
spetta il compito di contrapporro alla morale di stato quella della
coscienza individuale, che afferma con la nonviolenza la sua universalità,
la sua indisponibilità a essere sottomessa alla “ragion di stato”.
Una soluzione per le crisi internazionali
Il federalismo di Rossi e Spinelli, così come quello dei radicali, non si
muove tuttavia sul piano dei soli principi. E’ anzitutto strategia politica,
progetto del suo tempo.
La crisi dello stato nazione, nell’analisi di Luigi Einaudi, un altro
autore da cui trassero ispirazione Rossi e Spinelli, derivava dallo sviluppo
del processo di industrializzazione, lo stesso processo che era alla base
dello sviluppo storico degli stati nazionali, che aveva portato alla
crescente interdipendenza tra le economie degli stati. Un’analisi che ha
trovato conferma nei decenni successivi con il processo di globalizzazione
dell’economia e l’erosione che ha causato alla sovranità nazionale degli
stati.
La situazione del dopoguerra rendeva finalmente praticabile il progetto
federalista internazionale sul continente europeo. Eugenio Colorni, nella
presentazione della prima edizione a stampa del Manifesto, scriveva che
«l’ideale di una federazione europea, preludio di una federazione mondiale,
mentre poteva apparire lontana utopia ancora qualche anno fa, si presenta
oggi, alla fine di questa guerra, come mèta raggiungibile e quasi a portata
di mano. Nel totale rimescolamento di popoli che questo conflitto ha
provocato in tutti i paesi soggetti all’occupazione tedesca, nella necessità
di ricostruire su basi nuove una economia quasi totalmente distrutta, e di
rimettere sul tappeto tutti i problemi riguardanti i confini politici, le
barriere doganali, le minoranza etniche ecc.; nel carattere stesso di questa
guerra, in cui l’elemento nazionale è stato così spesso sopravanzata
dall’elemento ideologico, in cui si sono visti piccoli e medi stati
rinunziare a gran parte della loro sovranità a favore degli stati più forti,
e in cui da parte degli stessi fascisti il concetto di “spazio vitale” si è
sostituito a quello di “indipendenza nazionale”; in tutti questi elementi
sono da ravvisare dei dati che rendono attuale come non mai, in questo
dopoguerra, il problema dell’ordinamento federale europeo».
La crisi dell’ordine internazionale provocato dal secondo conflitto
mondiale rappresenta per il federalismo europeo, dunque, una “finestra di
opportunità”, dato che richiede soluzione nuove, essendo le vecchie divenute
un cumulo di macerie sotto la forza distruttiva della guerra. Questo
tentativo di trarre dalle situazione di crisi una risposta innovativa in
grado di superarne le cause strutturali, lo ritroviamo anche in un altro
manifesto, quello appunto del primo grande satyagraha per la pace.
Noi sottoscritti sosteniamo l’iniziativa nonviolenta del primo grande
“SATYAGRAHA MONDIALE PER LA PACE” volto a rapidamente promuovere e costruire
e realizzare un’ALTERNATIVA STRUTTURALE alla minaccia, alla probabilità di
un prossimo tremendo conflitto che, divampando dal Medio Oriente, si estenda
rapidamente al mondo intero.
La situazione del Medio Oriente persiste e si aggrava da decenni. Si
tratta, dunque, di una situazione strutturale che produce in quanto tale
conflittualità costante, e conflitti sempre più gravi continui.
Pannella tenta di ricreare quella consapevolezza della crisi dello stato
nazione, e della sua pericolosità, che caratterizzò la seconda guerra
mondiale e l’immediato dopoguerra, portando il processo di allargamento
europeo fino ai territori attualmente devastati dalla guerra. La ex
Jugoslavia e Israele sono i territori in cui si è espresso questo tentativo,
il cui obiettivo non è solo quello di far entrare nell’Unione europea paesi
che ne trarrebbero benefini, ma anche quello di rinvigorire l’Europa, la
coscienza della sua missione, e la consapevolezza del significato della sua
unità.
Si tratta della continuità di un metodo politico, oltre che di una comune
visione strategica. Come scrive Lucio Levi nel saggio “Altiero Spinelli,
fondatore del movimento per l’unità europea” pubblicato nella riedizione del
Manifesto di Ventotene realizzata da Mondadori, «L’arte della creazione
politica sta nell’identificare le circostanze che aprono uno spazio
all’azione».
Un progetto che richiede soggetti politici transnazionali…
Già in una lettera di Ernesto Rossi indirizzata alla madre del 30 aprile
1937, quindi diversi anni prima della stesura del Manifesto, troviamo
sintetizzati i principi fondamentali che Rossi intendeva allora trattare in
un saggio sull’unità europea e sul federalismo:
1) introduzione storica: parallelo tra l’unificazione italiana e
l’unificazione europea. In entrambi i casi l’unificazione avverrà grazie
all’azione di un partito che sappia approfittare dell’occasione favorevole;
il popolo svilupperà una coscienza europeista a seguito della realizzazione
della federazione;
2) i termini del problema: l’Europa destina gran parte delle sue risorse
a preparare la guerra, conseguente pericolosa crescita del potere delle
élistes militari e dell’accentramento amministrativo;
3) vantaggi della federazione: maggiori risorse per lo sviluppo,
soluzione del problema delle minoranze;
4) ostacoli alla realizzazione dell’Unità: ideologie nazionaliste,
ordinamenti antidemocratici, interessi costituti;
5) il quadro politico internazionale favorevole del dopoguerra per:
crollo delle grandi monarchie imperiali, manifesto insuccesso della Sdn e
necessità di trovare soluzioni alternative, favore popolare all’idea
federalista, evoluzione in senso europeista della posizione britannica;
6) il metodo: insufficienza degli accordi settoriali, inizio federale
intorno a un nucleo di paesi latini, aperto a successive adesioni.
E’ incredibile come in piena guerra mondiale, l’Italia negli anni più bui
del regime fascista, Ernesto Rossi immaginasse già il compito che sarebbe
spettato ai democratici subito dopo il crollo del regime. Un compito tutt’altro
che facile. Anche nelle pagine del Manifesto di Ventotene la liberazione era
immaginata con lucidità, non come momento epico e salvifico, ma come un
delicato passaggio pieno di insidie. La soluzione federalista rappresentava
una soluzione in grado di mettere a riparo la transizione democratica dalla
reazione degli interesse costituiti.
Le forze reazionarie hanno uomini e quadri abili ed educati al comando,
che si batteranno accanitamente per conservare la loro supremazia. Nel grave
momento sapranno presentarsi ben camuffati, si proclameranno amanti della
libertà, della pace, del benessere generale, della classi più povere. (…) Il
punto sul quale esse cercheranno di far leva sarà la restaurazione dello
stato nazionale. Potranno così far presa sul sentimento popolare più
diffuso, più offeso dai recenti movimenti, più facilmente adoperabile a
scopi reazionari: il sentimento patriottico.
Ecco dunque Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi porsi il problema del
soggetto politico in grado di lottare per portare e compimento il progetto
federalista. Un soggetto politico che doveva costruire nuove istituzioni, e
che quindi non poteva limitarsi a lottare per la conquista del potere
all’interno dello stato nazionale. Scriveva Eugenio Colorni nella prefazione
del Manifesto:
i partiti politici esistenti, legati ad un passato di lotte combattute
nell’ambito di ciascuna nazione, sono avvezzi, per consuetudine e per
tradizione, a porsi tutti i problemi partendo dal tacito presupposto
dell’esistenza dello stato nazionale, e a considerare i problemi
dell’ordinamento internazionale come questioni di “politica estera”, da
risolversi mediante azioni diplomatiche e accordi fra i vari governi.
Una condizione strutturale della lotta politica avvertita dai cittadini
come naturale, l’unica possibile, «dato che per le masse popolari l’unica
esperienza politica finora acquisita è quella svolgentesi entro l’ambito
nazionale».
Per ribaltare questa situazione, l’unica strada possibile era quella
della creazione di un soggetto politico che si ponesse come obiettivo
prioritario quello del federalismo europeo. «La linea di divisione fra
partiti progressisti e partiti reazionari - si legge nel Manifesto di
Ventotene - cade perciò ormai non lungo la linea formale della maggiore o
minore democrazia, del minore o maggiore socialismo da istituire, ma lungo
la sostanziale nuovisissima linea che separa quelli che concepiscono come
fine essenziale della lotta politica quello antico, cioè la conquista del
potere politico nazionale - e che faranno, sia pure involontariamente, il
gioco delle forze reazionarie (…) - e quelli che vedranno come compito
centrale la creazione di un solido stato internazionale».
Sono motivazioni molto simili a quelle che portarono alla trasformazione
del Partito radicale, soggetto politico che aveva conquistato un suo spazio
di consenso nel panorama politico italiano, in un partito politico
transnazionale, che in quanto tale non si sarebbe più potuto presentare alle
elezioni nazionali. Si legge nella mozione approvata dal 34° congresso del
Partito radicale, a Bologna, nel 1988:
Nessuno dei grandi problemi della nostra epoca dai quali dipendono il
destino dell’umanità, la vita del diritto e il diritto alla vita di ogni
persona, può oggi essere affrontato e sperare di essere risolto nella sola
dimensione nazionale. Occorrono istituzioni, poteri democratici, diritto
positivo e leggi sovranazionali, a cominciare dall’obiettivo storicamente
maturo degli Stati Uniti d’Europa.
Il Partito radicale decide pertanto di portare a compimento la propria
trasformazione in soggetto politico transnazionale, non più solo nelle sue
finalità politiche, ma anche nella concretezza della sua realtà associativa.
Il Pr da questo momento si propone come strumento di organizzazione
politica, oltre ed attraverso le frontiere nazionali, aperto alla
partecipazione anche di appartenenti a diversi partiti nazionali. Il Partito
radicale in quanto tale non parteciperà pertanto alle competizioni
elettorali nazionali.
Gli anni successivi hanno dimostrato la maturità di quella decisione
politica. Dal 1988 ad oggi, infatti, la lotta politica è venuta assumendo
sempre più dimensioni transnazionali. Basti pensare al cosiddetto movimento
no global, ma anche a campagne popolari come quella contro le mine antiuomo,
a organizzazioni come la Open Society Institute o ancora allo scambio di
esperienze e tecniche tra i movimenti nonviolenti dell’Europa dell’est come
Otpor, Kmara e Pora (vedi il libro di Sidney Tarrow, “The new transnational
activism”). I radicali restano tuttavia gli unici ad essersi posti, partendo
da sè stessi, il problema della creazione di meccanismi istituzionali e
giuridici in grado di ricondurre nell’ambito del diritto, e quindi della
democrazia, le nuove dimensioni assunte dall’agorà politica.
… e istituzioni transnazionali
Il Manifesto di Ventotene e i radicali condividono anche l’analisi
dell’inadeguatezza delle organizzazioni internazionali. Allora si trattava
della Società delle nazioni, ma la stessa analisi è facilmente riconducibile
anche al sistema delle Nazioni Uniti.
E’ ormai dimostrata l’inutilità, anzi la dannosità di organismi sul tipo
della Società delle Nazioni, che pretendeva di garantire un diritto
internazionale senza una forza militare capace di imporre le sue decisioni e
rispettando la sovranità nazionale assoluta degli stati partecipanti.
Assurdo è risultato il principio del non intervento, secondo il quale ogni
popolo dovrebbe essere lasciato libero di darsi il governo dispotico che
meglio crede, quasi che la costituzione interna di ogni singolo stato non
costituisse un interesse vitale per tutti gli altri paesi europei.
Ritroviamo qui il principio del dovere di ingerenza negli affari interni
degli stati, formulato dai radicali in occasione della campagna contro lo
sterminio per fame nel mondo, e il senso di battaglie come quella per il
tribunale penale internazionale e la moratoria della pena capitale,
tentativi di far avanzare la sovranità del diritto internazionale a scapito
di quella degli stati nazionali.
L’illusione dello stato palestinese
L’illusione che ha accomunato storicamente molti popoli è che
l’indipendenza nazionale sia lo strumento per garantire l’uguaglianza tra le
nazioni. Ma questo è del tutto falso. L’ineguale distribuzione del potere
politico ed economico tra gli stati fa sì che i rapporti internazionali
siano dominati da rapporti di forza egemonici degli stati più potenti sugli
stati più deboli. L’uguaglianza può essere garantita soltanto dalla legge,
ma nel rapporto tra stati il diritto internazionale soccombe ai rapporti di
forza proprio a causa della sovranità nazionale assoluta. Quello che la
proposta del primo satyagraha tenta di sollevare, è proprio l’illusorietà di
una soluzione della questione palestinese tutta affidata alla promessa di
uno stato nazionale sovrano.
Tuttavia, come una consolidata corrente storiografica e politologica
sostiene, le nazioni sono “comunità immaginarie”, create attraverso il
linguaggio e i simboli. Il fatto che non siano comunità innate e naturali,
tuttavia, non rende meno forte ed emotivo il legame che creano tra gli
individui. Il progetto del satyagraha mondiale per la pace si dovrà
confrontare anche con il potere simbolico dell’appartenenza nazionale, e
trovare il modo di coniugare il senso di appartenenza con l’innegabile forza
di attrazione (o “soft power”) dell’Europa. I sondaggi effettuati tra gli
israeliani fanno ben sperare.
26/06/2003 Guerra in Iraq: Cronologia e Dossier
June 26th 2003 War in Iraq: Close and Remote Causes
http://www.strategiaglobale.com
http://www.radioradicale.it
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