Poco tempo è passato dall’empasse della finanziaria. In un
primo momento il governo Prodi sembrava in bilico davanti
all’evidente difficoltà di riuscire a far digerire agli
italiani l’ennesima tornata di “sacrifici” in nome del
bene del Paese; d'altra parte una legge di bilancio che si
impone di rastrellare circa 35 miliardi di euro è una
bella batosta. Eppure il governo del Professore ha tenuto
e il Prodi si è mostrato sorridente e soddisfatto dei
risultati, quasi come se la voragine in cui fino a poco
tempo prima sembravano sprofondare i conti pubblici si
fosse colmata improvvisamente. Non a caso lo stesso
Presidente del Consiglio, poco prima di festeggiare
capodanno, aveva dichiarato che si trattava di “una
manovra forte che tocca molti aspetti della vita di tutti,
che non poteva non portare a incomprensioni”, ma che,
tuttavia, avrebbe portato “l'Italia al centro della scena
europea”.
Mentre esce di scena l’appuntamento con i conti pubblici e
le risse di contorno, ecco che siamo subito messi davanti
ad altre questioni di grande impatto sociale, senza
nemmeno il tempo di riprendere fiato. Si tratta di temi
che toccano da vicino ogni cittadino lavoratore e che
scatenano da sempre un grande allarme sociale: le pensioni
e il trattamento di fine rapporto. In un momento in cui il
gradimento degli italiani al governo del Professore non è
certamente alto, viene subito da chiedersi quali
motivazioni lo spingano ad assecondare precipitosamente le
richieste di Bruxelles. Non solo, sono in molti a
domandarsi se il programma di governo, tanto sventolato in
campagna elettorale, sia finito in fondo ad un cassetto o
quanto meno abbia perso quella nobiltà di intenti a tutto
tondo che lo facevano brillare di luce propria solo
qualche mese fa.
Così mentre si fanno i conti con la famosa quarta
settimana, siamo costretti a guardare in faccia quella che
sarà la realtà quando usciremo dal mercato del lavoro. La
necessità di intervenire sulle pensioni e sul famoso
“Scalone” è data dal fatto che con il sistema contributivo
la pensione viene calcolata sulla base di quanto il
lavoratore ha effettivamente versato nell’arco della sua
vita professionale. Mentre il sistema retributivo
garantiva un assegno mensile ragionevole, calcolato in
percentuale sulle ultime retribuzioni, il sistema
contributivo non consente di ottenere un rendimento
mensile adeguato, arrivando forse a somigliare a metà
dello stipendio percepito dal lavoratore attivo.
E allora bisogna correre ai ripari. E magari per prima
cosa cercare di capire non tanto quelle questioni che si
pongono al centro della discussione, quanto quelle delle
quali non si fa cenno. Perchè spesso si arriva alla radice
del problema cercando di capire da un lato cosa intende
esprimere il comunicatore – in questo caso il governo -
dall’altro cosa vuole sentirsi dire chi ascolta. L’abilità
di chi sa fare politica consiste nel riuscire a mettersi
nei panni di entrambi, riuscendo, con abilità e astuzia, a
togliersi dagli impicci.
Per prima cosa si chiama in causa il trattamento di fine
rapporto e in gran silenzio si decide in sostanza di
cambiare la sua natura. Infatti non si può più considerare
il Tfr un piccolo capitale che ritroveremo come surplus
del lavoro di una vita, in aggiunta ad una pensione più o
meno dignitosa. Viene invece ad essere una componente
necessaria ed integrativa di una previdenza insufficiente.
E’ prima di tutto di questo che si dovrebbe discutere e
delle responsabilità che si presentano come nodi al
pettine di una classe politica (di qualunque colore)
quanto meno disinvolta nel gestire con lungimiranza e
serietà il destino dei cittadini non più in età da lavoro,
che qualcuno addirittura etichetta come “improduttivi”.
Nei prossimi mesi tocca per primi ai lavoratori del
settore privato decidere cosa ne sarà del loro trattamento
di fine rapporto: rinunciare alla liquidazione e dirottare
quel denaro alla pensione integrativa o complementare,
oppure lasciare le cose come stanno. In ogni caso sono
chiamati a rinunciare a qualcosa, anche se si insiste a
porre la questione sotto mentite spoglie. Se lo start-up
dell’informazione circa gli elementi da valutare per
decidere è stato in sordina, oggi viviamo invece in un
mare di notizie, indicazioni, consigli di analisti
finanziari, tabelle, aliquote, coefficienti, tipologie di
fondi, tra chi paventa rischi e chi appare invece
tranquillizzante. In un recente sondaggio realizzato da
Simulation intelligence-Simera per il settimanale
Panorama risulta che il 54,4% preferisce
incassare il Tfr, il 25,9% è indeciso e solo il 19,7%
intende destinare il denaro ad un fondo pensione
complementare. Vedremo nei prossimi mesi come cambieranno
queste percentuali.
Il clima di incertezza, anche sulle regole operative
(mancando ancora i decreti attuativi), dà ossigeno alla
diffidenza tra lavoratori, imprese, sindacati e gestori di
fondi pensione, mentre quella fiducia e serenità
nell’economia italiana sembra fare capolino solo un
istante tra i cittadini solamente ad una visione
frettolosa del sorriso pacioso e tranquillizzante del
Presidente del Consiglio. Resta il fatto che
l'informazione intorno al problema del Tfr appare oggi
sempre più 'drogata' dai tanti soggetti che hanno grandi
interessi e grandi mire in materia. Il Tfr e' infatti una
'torta' da 15 miliardi di euro che fa gola in particolare
a banche e assicurazioni, interessate a giocare sui
mercati finanziari di tutto il mondo un mese di salario
all'anno dei lavoratori italiani. Nessuno, fino a questo
momento, si è speso per spiegare ai lavoratori “attivi” di
questo Paese cosa succede se i mercati vanno male, o se i
fondi pensione falliscono; oppure se il lavoratore che ha
optato in queste direzioni chiede di poter riscuotere
anticipatamente per proprie esigenze la liquidazione
maturata. In tutti questi casi ci perdono i lavoratori. Ma
non lo dice nessuno.
Archivio TFR
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