Nell’ambito
del dibattito senza fine (e, sovente, pure senza capo né coda) che
accompagna l’affaire pensioni, ha fatto capolino una proposta che
non ha alcuna concreta possibilità di trovare posto in una legge di
riordino (vista la posizione contraria dei sindacati), ma che merita
alcune considerazioni ulteriori rispetto a quelle svolte fino ad ora. Si
tratta dell’elevazione graduale dell’età pensionabile di vecchiaia
delle donne, in vista dell’equiparazione alle regole previste per
gli uomini. L’ipotesi, insieme a tante altre, è contenuta in un
documento riservato predisposto dall’Inps ed inviato al ministro del
Lavoro allo scopo di suggerire un pacchetto di misure compensative del
c.d. superamento dello "scalone" (la norma che prevede
l’elevazione - da 57 a 60 anni - dell’età minima per conseguire il
trattamento di anzianità a partire dal 1° gennaio 2008) che, a regime
nel 2011, è in grado di procurare una riduzione di spesa pari a 9
miliardi di euro. Così, il graduale incremento (da 60 a 62-63 anni) del
requisito anagrafico di vecchiaia delle donne, in un mix con
altri provvedimenti, sarebbe in grado di recuperare parte del minor
risparmio derivante dal ripristino del limite di 57 anni (le cronache di
palazzo sostengono che la Cgil era disponibile ad arrivare a 58, ma
prima delle proteste dei lavoratori Fiat) per il trattamento di
anzianità, magari accompagnato da un (inutile ed inefficace, ad
avviso di chi scrive) sistema di incentivazione.
____________________________________________________________________
Possibili nuovi requisiti per l’accesso alla pensione
di vecchiaia delle donne (dipendenti ed autonomi)
Dal 1° gennaio 2008 al 31.12.2013 61 anni
Dal 1° gennaio 2014 62 anni
____________________________________________________________________
Effetti dell’ipotesi di innalzamento graduale a 62
anni del requisito minimo di età per la pensione di vecchiaia delle
donne (importi in milioni di euro correnti)
FPLD e Gestioni lavoratori autonomi (rate di
pensione)
2008 |
2009 |
2010 |
2011 |
2012 |
2013 |
2014 |
2015 |
2020 |
2025 |
2030 |
2035* |
2040* |
2045* |
2050* |
- 488 |
- 974 |
- 959 |
-990 |
- 963 |
- 973 |
-1.587 |
-2.187 |
-2.480 |
-2.856 |
-1.671 |
+1.450 |
+4.601 |
+4.773 |
+3.192 |
*l’inversione di tendenza è da attribuire agli
effetti della maggiore età pensionabile nel calcolo contributivo
____________________________________________________________________
2. In astratto, l’elevazione del requisito anagrafico
per le lavoratrici potrebbe sembrare corretta in considerazione dell’aspettativa
di vita delle donne che è maggiore di quella degli uomini. Nella
maggioranza dei sistemi europei l’età pensionabile è ormai equiparata
per uomini e donne. Nel modello contributivo, prefigurato dalla
riforma Dini del 1995, il problema era stato risolto con un’unica
scala di pensionamento flessibile in un range compreso tra 57 e
65 anni, a cui corrispondevano dei coefficienti di trasformazione
finalizzati (anche attraverso la revisione periodica) ad incentivare la
permanenza al lavoro e a penalizzare l’esodo prematuro. La legge n.243/2004
ha in parte manomesso tale impostazione, che il Governo Prodi intende
ripristinare. Il problema, però, si pone nel prossimo decennio
durante il quale i nuovi pensionati di anzianità si avvarranno ancora
delle regole del metodo retributivo, con i vantaggi che ne derivano.
Secondo le valutazioni della Commissione Brambilla che nel 2001 ha
compiuto il monitoraggio della legge Dini, un lavoratore dipendente
privato che vada in pensione di anzianità a 58 anni l’anno prossimo,
avrà coperto col proprio montante contributivo soltanto 15,4 anni
rispetto ad tempo di vita residua (e di riscossione dell’assegno
pensionistico) di 25,3 anni. Nel caso di un lavoratore autonomo di
quella stessa età, la differenza è quasi di 20 anni. Nel 2015 lo
scostamento sarà rispettivamente di 8,1 e di 13,8 anni. E’ su quanto
rimane della fase di transizione, allora, che occorre agire. Del
resto è su questo punto che si concentra tutta l’asprezza del dibattito
politico e sindacale. Chi scrive è dell’avviso che un intervento
sull’età di vecchiaia delle donne in cambio di un ripristino dei 57 anni
per l’anzianità, sarebbe un errore. E non certamente a causa dei soliti
ragionamenti (peraltro non privi di fondamento) che si fanno in questi
casi e che riguardano la particolare condizione della donna nel lavoro e
nella famiglia. Una norma siffatta introdurrebbe soltanto un tasso di
iniquità più elevato nel sistema unicamente da un punto di vista
previdenziale, almeno nel settore privato dipendente e autonomo, dove è
assolutamente minoritario il numero delle lavoratrici in grado di
maturare, in conseguenza delle loro storie lavorative, i requisiti
contributivi (35 anni di versamenti) indispensabili per aver diritto
alla pensione di anzianità. E’ più agevole per le donne varcare la
soglia dei 60 anni di età ed accedere al trattamento di vecchiaia
(per il quale bastano 20 anni di contributi). Senza innalzare i limiti
dell’anzianità, dunque, si determinerebbe il paradosso per cui gli
uomini andrebbero in pensione a 57-58 anni (potendo raggiungere, entro
quella soglia, i relativi requisiti contributivi), mentre le donne
dovrebbero attendere i 62-63.
3. Nel FPLD -Fondo Pensioni Lavoratori
Dipendenti- (al netto degli ex fondi incorporati) le pensioni
anticipate vigenti nel 2006, in numero di 1.482.811, sono erogate
agli uomini mentre 313.558 vengono corrisposte alle donne. Tra gli ex
gestioni incorporate è clamoroso il dato dell’anzianità dell’ex Inpdai:
57.736 maschi e 1.213 femmine. Nel caso degli artigiani si tratta di
468.708 prestazioni di anzianità riservate agli uomini contro appena
37.021 alle donne. Nella gestione dei commercianti vi sono 221.750
trattamenti di anzianità per i maschi e 46.601 per le femmine. Per i
coltivatori diretti i rapporti di genere sono meno squilibrati (324.995
maschi e 151.725 femmine), ma pur sempre evidenti. In generale, non è
solo una questione di stock: anno dopo anno le nuove pensioni liquidate
alle lavoratrici sono circa un quarto di quelle degli uomini, se non
ancora meno. Tutto il contrario accade nel caso della vecchiaia
dove hanno una netta prevalenza i trattamenti al femminile. Nel FPLD
sono 2.243.839 le pensioni di vecchiaia corrisposte a donne contro
1.509.225 a uomini (sono inclusi i prepensionamenti). Nella gestione dei
coltivatori 478.023 trattamenti riguardano le donne contro 142.621
riservate agli uomini. Negli artigiani sono rispettivamente 232.735
contro 190.375 e negli esercenti attività commerciali 386.211 contro
183.613.
INPS: Pensioni vigenti al 1° gennaio 2006
Fondo pensioni lavoratori dipendenti
|
Maschi |
Femmine |
Totale |
Vecchiaia e prepensionamenti |
1.509.225 (40,2%) |
2.243.839 (59,8%) |
3.753.064 |
Anzianità |
1.482.811 (82,5%) |
313.558 (17,5%) |
1.796.369 |
Coltivatori diretti (Cdcm)
|
Maschi |
Femmine |
Totale |
Vecchiaia |
142.621 |
478.023 |
620.644 |
Anzianità |
324.995 |
151.725 |
476.720 |
Artigiani
|
Maschi |
Femmine |
Totale |
Vecchiaia |
190.375 |
232.735 |
423.110 |
Anzianità |
468.708 |
37.021 |
505.729 |
Commercianti
|
Maschi |
Femmine |
Totale |
Vecchiaia |
183.613 |
386.211 |
569.824 |
Anzianità |
221.750 |
46.601 |
268.351 |
Fonte: Indicazioni di carattere statistico (allegate al Bilancio
preventivo Inps per il 2007)
4. Che fare, dunque ? La via da seguire sembra essere una sola, anche
nel caso in cui il Governo insista per rivedere lo "scalone". Sia pure
raggiungendoli in un arco di tempo più lungo devono restare confermati i
limiti finali per l’età minima, previsti dalla riforma Maroni:
61/62 per i dipendenti e 62/63 per gli autonomi. In questo modo si
risolverebbe anche la questione dell’età delle donne. Del resto, il
Governo ha rovesciato la frittata: i minori tagli di spesa derivanti dal
"superamento" dello scalone sono stati recuperati sul lato delle
entrate. Dalla sventagliata di incrementi contributivi, stabiliti
nella Finanziaria, entreranno, nel 2007, nelle casse del sistema
pensionistico la bellezza di 5,5 miliardi (e rotti) in più.
Archivio TFR
|