Ritoccare le
regole di un sistema previdenziale è operazione molto delicata. Si
tratta di dare il tempo a chi ne è coinvolto di rivedere i propri piani di
lavoro e risparmio, impedire nuove sperequazioni (oltre a quella posta in
essere, a danno delle generazioni più giovani, dall’invecchiamento della
popolazione in un sistema in cui i lavoratori pagano la pensione a chi si
ritira dalla vita attiva) e cercare di introdurre automatismi, regole
contingenti, che possano evitare, un domani, un nuovo intervento d’imperio
dell’autorità pubblica in caso di andamenti demografici ed economici non
previsti.
L’azione del Governo (vecchio e nuovo)
Nella passata legislatura si è fatto esattamente
l’opposto. Come abbiamo
documentato ampiamente su questo sito, la riforma Maroni-Tremonti
i) ha reso ancora più favorevole, per i contribuenti più ricchi, il regime
previdenziale delle generazioni nate tra 1944 e il 1950, che hanno avuto una
opzione in più, il cosiddetto superbonus, ii) con lo scalone del 2008, ha
privato i nati negli anni tra il 1951 e il 1956 della possibilità di
scegliere quando andare in pensione, a differenza non solo delle generazioni
precedenti, ma anche di quelle successive e iii) ha perso l’occasione
offerta dalle verifiche del 2001 e del 2005, previste per legge, per
rivedere i cosiddetti "coefficienti di trasformazione" e bloccato ogni
riforma fino al 2008 con la "certificazione dei diritti acquisiti", che
peraltro non è servita a ridurre l’esodo verso le pensioni di anzianità.
Come da noi previsto, l’Inps si attende un aumento sostanziale delle
richieste per anzianità di circa il 40 per cento in questo biennio
(le previsioni più pessimistiche indicano oltre 200mila richieste all’anno),
inficiando quindi le ipotesi alla base dei risparmi della Tremonti-Maroni:
ancora una volta prevale l’effetto annuncio. L’attesa fino al 2008 peraltro
non si spiega con la necessità di dare ai lavoratori il tempo di modificare
i loro comportamenti perché la riforma non concede loro alcuna scelta: si
limita a chiudere delle finestre per le pensioni di anzianità.
Il nuovo Governo ha avviato un difficile negoziato con le parti sociali e
sembra intenzionato a intervenire nuovamente sulla normativa nella
Finanziaria 2007, una azione inevitabile come ha chiarito anche il
governatore della Banca d’Italia nelle sue "Considerazioni finali". Bene che
intervenga con orizzonti lunghi, guardando alla sostenibilità del sistema,
alla necessità di dare spazio a un secondo pilastro, collettivo, piuttosto
che all’esigenza di fare cassa fin da subito. Le pensioni non sono materia
da manovra correttiva in corso d’anno.
Dieci possibili interventi
Per contribuire al confronto, ecco un elenco di possibili
correttivi e una spiegazione dei loro effetti. La filosofia comune degli
interventi è di anticipare l’entrata in vigore del sistema
pensionistico introdotto con la riforma del 1996, preso a modello da molti
paesi che hanno radicalmente riformato i loro sistemi previdenziali negli
ultimi anni (Svezia, Polonia e Lettonia, mentre anche l’Ungheria parrebbe
intenzionata ad adottarlo).
1. Aggiornamento dei coefficienti di trasformazione.
Quando si va in pensione, i coefficienti convertono il montante di
contributi accumulati durante la vita lavorativa in quiescenza annuale. Il
coefficiente tiene conto di due aspetti: è graduato sulla base degli anni di
anticipo rispetto ai 65 anni (cresce al crescere dell’età di pensionamento)
ed è calibrato sulla speranza di vita, perché una vita attesa più lunga
implica che le prestazioni devono essere versate per un numero maggiore di
anni. I coefficienti attualmente variano da un minimo del 4,720 per cento (a
57 anni di età) a un massimo di 6,136 (a 65 anni di età). Ciò significa che
chi, a 65 anni di età, avesse accumulato un montante per 100mila euro, si
vedrebbe riconosciuta una pensione di 6,6136 euro all’anno. Una loro
revisione, che consisterebbe in una riduzione applicata a tutte le età
e commensurata agli aumenti di longevità, interesserebbe solo i lavoratori
soggetti al regime contributivo, che hanno iniziato a lavorare dopo il 1996,
o quelli che avevano meno di 18 anni di contributi nel 1996 (solo per la
parte contributiva). È un’operazione in grado di portare a risparmi dal
2012 in poi, quando andranno in pensione le prime generazioni a sistema
misto, e in grado di scongiurare il rischio che la spesa pensionistica
superi negli anni successivi il 15 per cento del Pil (il che significa
evitare di dover aumentare i prelievi sul lavoro in futuro).
2. Revisione automatica dei coefficienti di
trasformazione. Si tratta di rendere questi aggiustamenti automatici in
base agli aggiornamenti delle tavole di mortalità compilate dall’Istat, come
già avviene in Svezia. La revisione automatica eviterebbe di
intervenire sempre in ritardo (e con processi decisionali che finiscono
inevitabilmente per non garantire i lavoratori più giovani) nell’adeguare il
sistema previdenziale alla dinamica demografica.
3. Incremento dei coefficienti di trasformazione al di
sopra dei 65 anni di età. La riforma approvata nel 1996 non prevede un
incremento dei coefficienti di trasformazione (dunque delle quiescenze) per
chi continua a lavorare dopo aver raggiunto i 65 anni. Questo non incoraggia
l’allungamento della vita lavorativa in linea con l’allungamento della vita
vissuta.
4. Estensione a tutti del regime contributivo pro rata.
Significa accelerare l’entrata in vigore del sistema contributivo che al
momento si applica "pro rata" solo per la parte di contributi versati dopo
il 1996, per i lavoratori con meno di 18 anni di contributi a quella data.
Tardiva, in quanto oggi (a meno di interruzioni) questi lavoratori avrebbero
29 anni di contributi e quindi si applicherebbe il "pro rata" per un massimo
di dieci anni, ma pur sempre coerente con l’idea di convergere al nuovo
sistema previdenziale e offrire un segnale di superamento di iniquità
intergenerazionali.
5. Introduzione di riduzioni attuariali per chi va in
pensione prima del raggiungimento dei 65 anni di età. Come
già proposto sul sito, si tratterebbe di applicare alle prestazioni
riduzioni commisurate agli anni di anticipo rispetto ai 65 anni, ma solo
sulla parte retributiva della pensione, con risparmi medi annui
dell’ordine dello 0,23 per cento del Pil (con un risparmio cumulato che, se
ci si spinge a un orizzonte temporale oltre il 2030, sarebbe in linea o
anche superiore a quello previsto dalla riforma Tremonti-Maroni). È
un’operazione soprattutto di equità. Se i provvedimenti da noi
proposti fossero stati applicati dal 2004, avremmo già risparmiato più dello
0,2 per cento del Pil.
6. Smobilizzo immediato del
Tfr nelle piccole imprese. È un modo per tutelare soprattutto
i lavoratori più giovani, oggi costretti ad attendere fino al 2009
prima di poter disporre di quel 7,5 per cento di retribuzioni oggi
accantonato dai loro datori di lavoro, con rendimenti molto bassi.
7. Incremento dei contributi previdenziali dei co.co.pro
e dei co.co.co (rimasti nella pubblica amministrazione), uniformandoli a
quelli degli altri lavoratori alle dipendenze. Questa operazione potrebbe
portare a raccogliere fino a un massimo di 1,3 miliardi aggiuntivi di
contributi.(1)
8. Possibilità di aumentare volontariamente i contributi
previdenziali per colmare eventuali buchi di carriera o periodi in cui i
rendimenti sono stati più bassi (a seguito di una bassa crescita del Pil). È
anche questo un modo di sfruttare la flessibilità del regime
introdotto dalla riforma del 1996 e di rafforzare fra i contribuenti la
consapevolezza che le pensioni future saranno proporzionali ai contributi
versati.
9. Introdurre un sistema di rendicontazione dei
diritti previdenziali acquisiti uguale a quello introdotto dalle "orange
envelopes" in Svezia, per cui ogni cittadino è informato, in maniera
chiara e tempestiva, sulla propria situazione in termini di versamenti
effettuati e di pensione futura. Questo sistema, di cui da anni chiediamo
l’introduzione in Italia, servirebbe anche per ottenere risultati
sull’offerta di lavoro simili a quelli di una forte riduzione del cuneo
contributivo, perché non farebbe più percepire i contributi
previdenziali come una tassa, ma come un accantonamento per la propria
vecchiaia.
10. Revisione delle differenze di trattamento tra
lavoratori uomini e lavoratrici donne introdotte dalla riforma
Tremonti-Maroni per quel che riguarda lo "scalone" del 2008. Nel 2008 i
lavoratori saranno soggetti al vincolo dei 60 anni di età (per 35 anni di
contributi), mentre le lavoratrici dipendenti potranno accedere ancora alla
pensione di anzianità dai 57 anni, purché optino completamente per il
sistema contributivo e relative penalizzazioni. Per le donne che non
intendono usufruire di tale possibilità, i 60 anni restano l’età "normale"
di pensionamento per vecchiaia, per gli uomini questa è di 65 anni. Si noti
che l’aggiustamento non sarebbe necessario se si introducessero riduzioni
attuariali per tutti (proposta 5) garantendo al contempo flessibilità nella
scelta di quando andare in pensione. È un sistema che comunque sarebbe
più favorevole alle donne che si vedrebbero calcolata la pensione in
base agli stessi coefficienti di trasformazione degli uomini nonostante la
loro maggiore longevità (speranza di vita alla nascita superiore agli uomini
per circa sei anni)..
(1) Nostri calcoli basati sull’Indagine sui Bilanci
delle Famiglie del 2004. Le ipotesi sono che il contributo totale passi
dall’attuale 18% (di cui 2/3 grava sul datore) al 25% della remunerazione
lorda. Nell’ipotesi che il nostro campione sia rappresentativo e che i
risultati non siano drammaticamente influenzati da andamenti ciclici – il
contributo addizionale pro capite di circa 670 euro annui, si applica a
circa 2 milioni di soggetti
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