La richiesta dei sindacati confederali non è affatto
irragionevole. Essi dicono: da che mondo è mondo, due soggetti
privati hanno sempre avuto la possibilità di accordarsi per creare
un fondo da loro controllato (con finalità di previdenza, di
assistenza, di solidarietà, o di qualsiasi altro genere) e di
destinarvi il proprio contributo, senza rischiare che questo venga
in seguito dirottato per volontà altrui a vantaggio di un altro
fondo, controllato da terzi. Dunque, sta bene che il lavoratore
possa affidare a chi gli pare la gestione del suo trattamento di
fine rapporto, poiché quel trattamento è roba sua, è un diritto
che gli deriva dalla legge, di cui egli deve poter fare quel che gli
pare. Ma se noi sindacati ci accordiamo con gli imprenditori per
porre a loro carico un contributo di previdenza complementare, della
destinazione di quel contributo dobbiamo poter essere unici arbitri
noi con gli imprenditori. In altre parole, poiché il contributo
nasce esclusivamente dal contratto collettivo, sulla sua
destinazione il contratto stesso è sovrano. Lo è sempre stato fin
qui e deve rimanere tale.
I contenuti della legge delega
Sul piano del diritto civile, questo ragionamento fila
alla perfezione; e fino a oggi le cose sono sempre andate così.
Ora, però, la legge n. 243/2004 che delega il Governo a riformare la
disciplina della materia dispone altrimenti: stabilisce, cioè, che
la riforma dovrà attribuire al lavoratore non soltanto la facoltà di
scegliere il gestore del trattamento di fine rapporto (retribuzione
differita prevista da una norma del codice civile), ma anche la
facoltà di scegliere il gestore dell’eventuale contributo di
previdenza complementare (beneficio nascente esclusivamente dal
contratto collettivo), e non soltanto per la parte del contributo
già versata, ma anche per la parte che maturerà in futuro.
Con questa disposizione la legge delega sostanzialmente
prevede che alle parti stipulanti del contratto collettivo sia
consentito soltanto di destinare una porzione del monte-salari alla
previdenza complementare e di disporre inizialmente – ma non
di imporre ai singoli lavoratori sine die - che questa
sia gestita da un certo fondo.
Armando Tursi, nell’articolo
che compare qui accanto, dà atto di questa scelta compiuta dal
legislatore delegante, ma ne sottolinea il carattere paradossale dal
punto di vista giuridico, la rottura rispetto al diritto comune dei
contratti che siamo abituati ad applicare da due millenni e oltre.
Sennonché questo carattere paradossale, di rottura rispetto agli
schemi giuridici civilistici tradizionali, non basta, mi pare,
perché questa scelta sia bocciata come inopportuna e tanto meno come
impraticabile. I meccanismi antitrust presentano sovente
degli aspetti di rottura rispetto al diritto civile classico: basti
pensare al caso in cui l’authority competente impone alla società
titolare di un’impresa monopolistica di spezzarsi in due, o di
cedere un pezzo della propria azienda a terzi.
Viceversa, a favore della scelta compiuta dal legislatore delegante
nel 2004 si può portare un argomento molto robusto. La garanzia
della "portabilità" del contributo di previdenza
complementare impone al fondo aziendale o di settore eventualmente
creato di comune accordo fra sindacati e imprese di offrire ai
lavoratori interessati condizioni di affidabilità e prospettive di
redditività almeno pari a quelle proposte dai fondi "aperti" nel
libero mercato. Se è vero ciò che oggi i sindacati confederali
affermano, ovvero che i fondi contrattuali sono più vantaggiosi per
i lavoratori rispetto a quelli "aperti", non si vede che cosa i
primi abbiano da temere dalla concorrenza aperta con i secondi. Per
altro verso, un programma previdenziale può durare per decenni; e la
maggiore affidabilità o redditività per gli iscritti di un fondo
contrattuale può venire meno col passare del tempo. La regola della
"portabilità" del contributo può costituire la garanzia migliore per
i lavoratori contro questa eventualità.
La replica dei sindacati è questa: "se imporrete quella
regola, la previdenza complementare non decollerà, poiché noi non
avremo più interesse a negoziare programmi di previdenza
complementare con gli imprenditori; perché mai dovremmo farlo, con
la prospettiva che la gestione del contributo negoziato venga
affidata a terzi (i fondi "aperti", gestiti dalle compagnie
assicuratrici) e non ai fondi controllati da noi?".
Questa replica è davvero sorprendente. Dovrebbe supporsi che la
finalità essenziale cui tende la contrattazione collettiva sia
l’interesse dei lavoratori: di tutti e di ciascuno di essi. Ora,
appare indiscutibile che l’interesse di un lavoratore sia di avere
la più ampia possibile facoltà di scelta tra diversi gestori del
contributo di previdenza complementare negoziato dal sindacato.
L’intero ordinamento antitrust si basa su questo presupposto: che
l’esistenza della pluralità più ampia possibile di fornitori del
servizio in concorrenza tra loro rechi, di regola, vantaggio
all’utente del servizio. Alla domanda che oggi pongono Cgil, Cisl e
Uil - "perché mai dovremmo negoziare il contributo a carico delle
imprese se la sua gestione potrà essere affidata a terzi?" – la
risposta appare dunque ovvia: "voi negoziate il contributo
essenzialmente nell’interesse dei lavoratori; e quel contributo per
i lavoratori vale di più se essi possono scegliere il fondo
da cui farlo gestire; buon per voi se sceglieranno il fondo da voi
istituito e controllato, ma per loro è meglio poter scegliere".
Qui però viene l’obiezione più forte dei sostenitori della "non
portabilità" del contributo. Il sindacato – essi dicono - è
un’associazione di lavoratori; se i lavoratori, in forma associata,
compiono con il contratto collettivo la scelta della "non
portabilità", essi evidentemente hanno i loro buoni motivi per farlo
(ad esempio, una maggiore facilità di organizzazione del fondo
chiuso). La pretesa del legislatore di "proteggerli contro se
stessi", impedendo loro di compiere quella scelta, non può che fare
danni. Quanto ai lavoratori non associati, il contratto si applica
loro soltanto in quanto essi lo accettano; anch’essi, dunque,
accettando i vincoli posti dal contratto collettivo esercitano
un’autonomia negoziale che non deve essere inibita o distorta da
regole legislative inderogabili come quella contenuta nella
legge-delega n. 243/2004.
La natura del contratto collettivo di lavoro
Questa obiezione porta il discorso al cuore della questione della
natura del contratto collettivo di lavoro, della sua collocazione
sistematica nell’ordinamento. Se davvero potessimo considerarlo
esclusivamente come un "fascio di contratti individuali",
attribuendogli pertanto in tutto e per tutto la natura di un atto di
autonomia privata ordinaria, l’obiezione sarebbe difficilmente
superabile. Il fatto è, però, che il contratto collettivo, pur
nascendo come una pattuizione fra soggetti privati, funziona di
fatto in larga parte come una legge. In altre parole,
rispetto ai rapporti individuali esso ben può considerarsi come
fonte di una disciplina eteronoma, più simile alla legge che al
contratto. Si pensi a un contratto collettivo nazionale di settore:
il meccanismo negoziale che lo produce non è molto più "vicino" alla
volontà negoziale del singolo lavoratore interessato di quanto lo
sia il meccanismo di produzione di una legge statuale o regionale.
Nella misura in cui il sindacato costituisce un soggetto distinto
dal singolo lavoratore, il contratto collettivo deve considerarsi
come fonte di una disciplina eteronoma del rapporto individuale.
Questo, poi, risulta evidentissimo quando il campo di applicazione
del contratto collettivo si estende ai lavoratori non iscritti al
sindacato stipulante; il fatto che l’estensione venga spiegata dai
giuristi in termini di "adesione" tacita o esplicita del singolo non
toglie che il lavoratore, accettando il contratto collettivo, non
sceglie affatto tra un regime di "portabilità" e un regime di "non
portabilità" del contributo di previdenza complementare: se vuole
godere del beneficio deve accettare la disciplina della materia che
"passa il convento", alla cui determinazione egli non ha in alcun
modo partecipato.
Se dunque il contratto collettivo è stipulato da un sindacato il cui
interesse può, per uno o più determinati aspetti, divergere da
quello del singolo lavoratore cui il contratto stesso si applica,
non può più considerarsi come un’anomalia l’intervento del
legislatore che individui un interesse tipico di quest’ultimo
(nel nostro caso: l’interesse a poter scegliere il gestore del
contributo di previdenza complementare) e protegga la sua libertà di
scelta con una norma non derogabile, come quella delineata nella
legge-delega n. 243/2004.
Indice Tfr: altri 3 Anni di Attesa
24/11/2005 Tfr, impariamo dalla Svezia Tfr,Sono pochi i lavoratori oggi intenzionati a trasferire il Tfr ai fondi pensione. Allo stato attuale sembrerebbe non più di uno su cinque.
24/11/2005 Uno Scandalo Inglese venduti in Italia più di settecentomilapiani individuali pensionistici...
24/11/2005 I Sindacati e le Pensioni private L’approvazione del decreto che avrebbe dovuto consentire il decollo del "secondo pilastro" del sistema pensionistico...
24/11/2005 La "Portabilità" tra Diritto Civile e Antitrust La richiesta dei sindacati confederali non è affatto irragionevole. Essi dicono: da che mondo è mondo, due soggetti privati hanno sempre avuto la possibilità di accordarsi per creare un fondo da loro controllato (con finalità di previdenza...
24/11/2004 Una Bussola nella Jungla dei Fondi Il risparmiatore investe in fondi azionari nell’ambito della decisione globale di...
24/11/2005 Le "Osservazioni" Pericolose Alla fine di settembre le Commissioni parlamentari hanno fornito il necessario parere al Governo sullo schema di attuazione della parte della legge delega 243/04 relativa alla previdenza complementare...
|