Sono pochi i lavoratori oggi
intenzionati a trasferire il Tfr ai fondi pensione. Allo stato
attuale sembrerebbe non più di uno su cinque. Come documentato da una
recente
indagine dell’Isae anche gli indecisi sono in larga parte a conoscenza
del principio del silenzio-assenso; è difficile perciò che aderiscano
tacitamente ai fondi pensione. Il decreto che il Governo deve varare al
Consiglio dei ministri del 10 novembre, pena la decadenza delle delega
concessagli dal Parlamento, dovrà riuscire a convincerli. Ma la
bozza di decreto
attuativo presentata dal Roberto Maroni al Consiglio dei ministri del 5
ottobre, e oggi difesa a spada tratta dal ministro, ha un solo fine:
chiudere in qualche modo la partita prima delle elezioni, anche a costo di
garantire a banche, imprese e sindacati concessioni che dovranno
essere pagate a caro prezzo dai contribuenti. Si lasciano in secondo piano
le esigenze dei lavoratori che sono innanzitutto quelle di poter
avere a disposizione un’ampia offerta di schemi previdenziali, con bassi
costi amministrativi, nell’ambito della quale scegliere sapendo di poter un
domani cambiare idea senza venire per questo penalizzati.
La portabilità come incentivo a trasferire il tfr ai fondi
pensione
È questo dell’assenza di penalità quando si cambia idea una
condizione essenziale perché il trasferimento del Tfr ai fondi pensione sia
un successo. Se ci sono costi elevati nello spostare il Tfr da un fondo
all’altro, può risultare conveniente per il lavoratore tenere tutto presso
l’azienda, sperando di poter poi scegliere in modo più oculato in futuro,
quando si avrà un quadro più preciso dell’offerta disponibile. Per questo
imporre che i conferimenti dei datori di lavoro, stabiliti nell’ambito della
contrattazione collettiva, siano ancorati ai soli fondi chiusi (si veda
Ichino e
Tursi) è un errore. Se il sindacato vuole stimolare flussi verso
i fondi contrattuali deve mettere a frutto i vantaggi che questi hanno
rispetto ai fondi individuali in termini di i) bassi costi amministrativi e
ii) fiducia nei confronti di chi li gestisce.
Oggi i lavoratori si trovano a dover scegliere in condizioni di razionalità
limitata, sapendo poco sui rendimenti del Tfr, quelli della previdenza
pubblica e, ancor meno, quelli dei fondi pensione. Chiedono di poter
delegare queste scelte a qualcuno di cui si possano fidare, avendo la
possibilità un domani di poter cambiare idea. Per questo è essenziale
che il sindacato sia della partita , ma è altrettanto importante che
sappia guadagnarsi fino in fondo questa fiducia "sul campo", non imponendo
ai lavoratori vincoli che contrastano con la delega loro accordata. Questi
vincoli potrebbero un domani ritorcersi contro lo stesso sindacato.
Compensazioni eccessive alle imprese
Oltre a limitare la portabilità dei conferimenti tra diversi fondi
pensione, la delega fa gravare sui contribuenti futuri oneri crescenti. A
regime 600 milioni all’anno dovranno essere destinati a misure di
compensazione alle imprese coinvolte nello smobilizzo del Tfr.
Basta fare due calcoli per capire che i costi derivanti dallo smobilizzo
sono molto più bassi. Con un tasso di inflazione al 2,2 per cento, il Tfr
comporta un rendimento del 3,15 per cento. Le imprese hanno oggi accesso al
credito bancario a tassi di poco superiori al 5 per cento. Quindi, tenendo
conto del fatto che i maggiori oneri per le imprese siano pari a circa il 2
per cento del capitale smobilizzato verso il Tfr, e anche prendendo per
buone le stime del Governo che (ottimisticamente) prevedono che a regime il
35 per cento (per i lavoratori senior) e il 55 per cento (per gli assunti
dal 1996) del flusso di Tfr venga trasferito ai fondi pensione, si ottengono
oneri per le imprese non superiori ai 60 milioni il primo anno, 130 il
secondo anno e 200 nel 2008, dunque un terzo di quanto stabilito dal
decreto Maroni.
A cosa si deve questa differenza? Al fatto che il Governo prevede due tipi
di misure di compensazione: sconti contributivi e l’istituzione di un fondo
di garanzia sui prestiti bancari. Il Governo ha, infatti, stretto un
accordo con l’Abi per garantire alle imprese accesso al credito al tasso
massimo del 4,16 per cento, coprendo le banche dal rischio di default sul
100 per cento del credito erogato. Il fondo di garanzia verrà
alimentato da contributi pubblici nella misura dell’11 per cento dei flussi
di Tfr, molto di più di quanto parrebbe necessario alla luce dei normali
tassi di sofferenza. Forse, si sono voluti scontare gli effetti perversi che
la costituzione di questo fondo potrà avere sulla concessione di prestiti
bancari (apertura di linee di credito anche ad imprese con un alto rischio
di default, in virtù della garanzia dello stato). Se così fosse, sarebbe
paradossale. Inoltre, l’operazione prefigura una possibile violazione delle
norme
Unione europea sugli aiuti di Stato.
Le vere garanzie dello Stato
Il ruolo dello Stato in questa operazione non deve essere quello
di offrire garanzie in termini di costi massimi dell’indebitamento a imprese
e banche. Non è neanche giusto che si offrano garanzie ai lavoratori in
termini di rendimenti minimi. Sarebbero troppo costose e, spostando tutto il
rischio sullo Stato, avrebbero effetti perversi sulle scelte di lavoratori,
imprese e gestori dei fondi. Né lo Stato può essere il gestore diretto del
risparmio privato previdenziale perché è troppo forte il rischio di
manipolazione "politica" del risparmio accumulato e del suo collocamento.
Lo Stato deve, invece, offrire garanzie in termini di informazioni minime
ai sottoscrittori dei fondi pensione. Si tratta di fornire il bene pubblico
informazione e educazione finanziaria evitando che l’operazione
trasferimento del Tfr ai fondi pensione si trasformi in un raggiro di
milioni di lavoratori. Il sindacato ha tutto da guadagnare da una maggiore
informazione offerta ai contribuenti. Apparirebbero, infatti, evidenti a
tutti i vantaggi in termini di costi amministrativi dei fondi contrattuali
rispetto ai piani pensionistici individuali (Pip). Questi oggi impongono ai
sottoscrittori dei costi medi di "caricamento" equivalenti ad una
commissione annua del 2,4 per cento circa. (1) Per un orizzonte
temporale lungo, questo costo può raggiungere fino a metà del montante
conseguibile. E prendendo i dati delle relazioni Covip sul triennio
2001-4, è possibile stimare che i costi posti a carico dei sottoscrittori
dei Pip siano stati in media pari al 15 per cento dei versamenti effettuati,
un’enormità.
Lo stato deve raccogliere e dirottare i flussi
Come garantire informazioni adeguate ai contribuenti? Si può prendere
come esempio la Svezia, raccogliendo il Tfr smobilizzato attraverso l’Inps e
poi trasferendo queste risorse a fondi pensione scelti dal lavoratore,
nell’ambito di una gamma di gestori privati accreditati. L’Inps
dovrebbe poi offrire rendiconti sull’andamento delle gestioni patrimoniali
assieme all’andamento della previdenza di base, mandando almeno una volta
all’anno un "estratto conto previdenziale" a casa del contribuente (con
aggiornamenti continui su Internet). L’estratto conto dovrebbe evidenziare
la struttura dei costi di gestione e identificare benchmark adeguati
per
valutare la loro performance. Tutto questo permetterebbe e
incentiverebbe al tempo stesso una vigilanza molto stringente sul
comportamento dei fondi pensione e, quindi, pur in assenza di garanzia
pubblica e in piena competitività, si potrebbe evitare il rischio di
mis-selling, di un raggiro dei contribuenti come quello verificatosi nel
caso inglese.
(1) Elsa Fornero, Carolina Fugazza e Giacomo Ponzetto "Analisi
comparativa dell’onerosità dei prodotti previdenziali individuali", 2003
CERP Argomenti di discussione 6/03
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