Dal 2001 al 2005 sono stati venduti in Italia più di settecentomila piani
individuali pensionistici attuati mediante polizze di assicurazione (Pip).
Nel nostro paese, tali prodotti sono del tutto parificati ai fondi pensione
sia dal punto di vista fiscale, sia per la presenza di specifiche clausole
relative, in particolare, al tipo di prestazione, alla modalità di erogazione,
ai termini e alle condizioni per il trasferimento o il riscatto della posizione.
I rilievi della Covip
La Covip, autorità di vigilanza di settore, ha rilevato che i piani
individuali pensionistici si caratterizzano per un elevato livello dei costi.
Infatti, un aderente che decidesse di trasferire la propria posizione a un’altra
forma previdenziale dopo tre anni di versamenti si vedrebbe gravato, in media,
di una commissione onnicomprensiva annua di circa l’8 per cento;
dopo dieci anni tale commissione sarebbe pari al 3,2 per cento, per poi divenire
pari al 2,3 per cento allo scadere del trentacinquesimo anno. (1)
I costi medi dei fondi pensione aperti, calcolati per i medesimi
intervalli temporali, risultano estremamente più bassi: 1,9 per cento dopo tre
anni, 1,4 per cento dopo dieci e 1,3 per cento dopo trentacinque anni. Inoltre,
continua la Covip, le differenze nei costi non sempre trovano una
giustificazione economica nelle caratteristiche dei piani, quali, ad esempio, la
presenza di garanzie finanziarie o demografiche, l’efficienza amministrativa, le
abilità gestionali, e così via.
Differenze, anche piccole, sui costi possono comportare effetti rilevanti sul
montante finale da destinare alla rendita, soprattutto se si considera che
la partecipazione a una forma pensionistica prevede, per definizione, un periodo
di permanenza mediamente lungo. (2)
Oltre a essere oneroso, il Pip ha una struttura dei costi molto articolata e
non sempre trasparente. Ne consegue che spesso l’assicurato sottoscrive il piano
ignorando l’incidenza di tali costi sulla prestazione finale. Alla
vigilia di importanti decisioni sul destino del Tfr dei lavoratori italiani,
oggi interamente garantito dall’Inps, sarebbe bene riflettere sulla preparazione
delle forze di vendita impegnate a collocare prodotti previdenziali ad alto
costo: oggi sembrano non comprendere il ruolo fondamentale che le risorse
accumulate attraverso i piani svolgeranno nella vecchiaia dei lavoratori.
La vicenda dei piani previdenziali inglesi
Può essere perciò interessante ripensare a quanto accadde in Gran Bretagna
alcuni anni fa, quando il Governo Thatcher promosse una campagna di
vendita di prodotti previdenziali individuali assai simili ai nostri Pip, e
sottoscritti tra l’aprile del 1988 e il giugno del 1994 da due milioni di
cittadini britannici. La vicenda è nota come "Pensions misselling
scandal". (3)
Nel 1986 il Governo inglese emanò il cosiddetto Social Security Act.
Offriva ai lavoratori inglesi che in quel momento aderivano allo State
Earnings Related Pension Scheme (Serps, oggi sostituito dallo
State Second Pension), ovvero a fondi pensione costituiti presso i loro
datori di lavoro o ex datori di lavoro, la possibilità di trasferire le
rispettive posizioni previdenziali in conti individuali a capitalizzazione
promossi e gestiti da intermediari finanziari, assicurazioni, banche, fondi
comuni di investimento, società fiduciarie, finanziarie. L’esodo fu favorito da
un significativo incentivo finanziario (il due per cento di riduzione
sulle national insurance contributions a carico dei lavoratori, la
contribuzione da essi dovuta alla previdenza obbligatoria) e da una intensa
campagna pubblicitaria finanziata dallo stesso Governo.
Per avere un’idea della dimensione del fenomeno, si consideri che nel
1986 erano state emesse polizze previdenziali per un importo complessivo di
premi incassati pari a 2 miliardi di sterline; nel 1989, a un anno dall’avvio
della campagna pubblicitaria governativa, tale importo raggiunse i 5 miliardi,
per arrivare a 10 miliardi nel 1992. Tra il 1989 e il 1992, i premi incassati
per tali prodotti rappresentarono circa il 40 per cento della nuova produzione
delle imprese di assicurazione, per poi ridiscendere al 30 per cento nel 1994
Prima del 1992 non esisteva alcuna regolamentazione esplicita degli
obblighi di informazione alla clientela nel collocamento dei prodotti
previdenziali individuali. Tuttavia, le diverse autorità di controllo
condividevano un insieme di regole essenzialmente finalizzate ad assicurare che
i prodotti collocati rispondessero agli effettivi bisogni previdenziali
dell’investitore.
Nel luglio 1992, Life Assurance and Unit Trust Regulatory Organization e
Financial Intermediaries, Managers and Brokers Regulatory Association
indicarono in modo esplicito le regole cui dovevano attenersi gli operatori del
settore. I consulenti o promotori dei prodotti previdenziali erano tenuti a
raccogliere dal potenziale cliente informazioni volte a conoscerne le
caratteristiche, a delinearne il profilo economico e a identificarne gli
obiettivi finanziari ("know your customer" rule). Avevano anche l’obbligo
di fornire al cliente tutte le indicazioni utili sulla struttura del prodotto
con l’obiettivo di indurlo a una scelta consapevole. Infine, il prodotto
commercializzato doveva possedere standard tali, in termini di struttura
dei costi e di prestazioni offerte, da non causare un peggioramento nelle
prospettive di risparmio previdenziale del sottoscrittore, risultando il più
adatto alle esigenze dello stesso tra quelli al momento disponibili nel mercato
("suitability" rule).
Una volta sanato il vuoto regolamentare, le autorità di controllo
iniziarono il processo di monitoraggio dell’attività di vendita: nel 1990 fu
avviato un ciclo di ispezioni volto a verificare la congruità delle procedure di
reclutamento della forza di vendita e dei sistemi di controllo interno. Tra la
fine del 1991 e l’inizio del 1992, i risultati degli accertamenti ispettivi e il
crescente numero di reclami da parte dei sottoscrittori indussero le autorità a
irrogare le prime sanzioni.
Risultò poi che la maggioranza dei clienti non era stata messa nelle condizioni
di operare una scelta consapevole sulla convenienza dei prodotti offerti
rispetto agli schemi previdenziali cui aderivano in precedenza. Nella maggior
parte dei casi non era stata illustrata la differenza tra un prodotto a
capitalizzazione, esposto al rischio di mercato, e uno schema
pensionistico protetto, vuoi dalla garanzia dello Stato, vuoi da quella
dell’azienda sponsor nel caso dei piani a prestazione definita. Né erano state
date informazioni adeguate sulla eventuale perdita di importanti benefici
previsti nei piani pensionistici cui il lavoratore precedentemente aderiva,
quali, ad esempio, la reversibilità al coniuge superstite, le contribuzioni
datoriali, le coperture per invalidità e premorienza, l’indicizzazione delle
prestazioni. Un’ulteriore violazione delle regole fu riscontrata
nell’informazione sui costi dei piani individuali in rapporto a quelli ad
adesione collettiva.
Nel 1993, il Securities and Investment Board promosse un’indagine
conoscitiva sulle prassi operative seguite dalle compagnie assicurative. In una
prima fase focalizzata sui lavoratori più anziani, l’indagine è stata poi estesa
a tutti quelli che avevano sottoscritto una polizza previdenziale.
Dal dicembre 2001, l’unica Autorità di controllo in materia di regolamentazione
e supervisione dei servizi finanziari è la Financial Services Authority (Fsa)
che ha ora completato l’elenco degli investitori coinvolti nelle attività di
misselling e che hanno diritto a ottenere un congruo indennizzo. La
Fsa ha stimato in circa 11,5 miliardi di sterline il costo complessivo
del risarcimento imposto alle compagnie di assicurazione. Sono interessati circa
1,7 milioni di risparmiatori.
(1) Questi sono appunto i valori medi, ma le punte riguardano
purtroppo i prodotti più venduti.
(2) Vedi la Relazione Covip per l’anno 2004, p. 97.
(3) La letteratura inglese ha elaborato una definizione del concetto di
misselling che comprende diversi tipi di violazione delle regole
deontologiche da parte delle forze di vendita: a) una strategia consapevole di
vendita di prodotti inidonei a soddisfare l’interesse previdenziale del cliente;
b) una tattica di vendita aggressiva, volta a identificare categorie di soggetti
prossimi al pensionamento, anche acquistandone, più o meno lecitamente, i dati
personali; c) la mancata diffusione di informazioni adeguate per permettere il
confronto del prodotto offerto con altri prodotti pensionistici disponibili; d)
la pura e semplice incompetenza delle forze di vendita, impreparate a svolgere
il loro compito. Vedi J. Black e R. Nobles, "Personal Pensions Misselling: The
Causes and Lessons of Regulatory Failure", The Modern Law Review 1998.
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