Le modifiche
introdotte al decreto Maroni rispetto alla versione presentata a luglio al
Consiglio dei Ministri hanno peggiorato il testo, eliminando la possibilità
per il lavoratore di scegliere a quale forma previdenziale aderire e
introducendo significative distorsioni alla concorrenza.
Una delle questioni fondamentali che ha sinora impedito
l’approvazione della riforma della previdenza complementare è quella della
libertà di scelta dei lavoratori. Su questa questione vi è stata una forte
contrapposizione fra le generalità delle parti sociali (sindacati e
organizzazioni di categoria) da un lato e gli intermediari finanziari
(assicurazioni e in parte banche) dall’altro. La geografia degli interessi
in gioco è del tutto ovvia ed è stata oggetto di infiniti articoli sulla
stampa nazionale: chi avesse residui dubbi guardi alla qualifica di chi
scrive indicata a fianco della firma di questo articolo. Ma, per farsi un
opinione, è necessario guardare al merito della faccenda, che è il seguente.
Il decreto che il ministro Maroni ha portato al Consiglio dei Ministri del 5
ottobre prevedeva che il lavoratore fosse libero di devolvere il Tfr a
qualunque forma previdenziale fra quelle autorizzate dalla Covip e cioè
fondi chiusi (istituiti da sindacati e organizzazioni di categoria), fondi
aperti (istituiti da banche, assicurazioni e Sgr) e polizze previdenziali
assicurative. Prevedeva però, a differenza del testo portato in Consiglio
dei Ministri a luglio, che la destinazione dell’eventuale contributo del
datore di lavoro alla previdenza complementare fosse decisa dalle stesse
parti sociali istitutrici dei fondi chiusi. Il che in pratica avrebbe
significato – qui sta il punto cruciale -la perdita del contributo in caso
di scelte diverse rispetto al fondo chiuso. Persino in caso di trasferimento
dal fondo chiuso ad altra forma previdenziale - trasferimento che il decreto
consente dopo un periodo di due anni -, il decreto prevedeva che: " ... il
lavoratore ha diritto al versamento alla forma pensionistica da lui
prescelta del TFR maturando ... e dell’eventuale contributo a carico del
datore di lavoro nei limiti e secondo le modalità stabilite dai contratti
o accordi collettivi, anche aziendali" (Art. 14 comma 6). Quindi vi
sarebbe stato un vincolo contrattuale alla portabilità del contributo
aziendale anche in caso di trasferimento. Ricordando che il Tfr è pari a
circa il 7% della retribuzione lorda e che il contributo aziendale,
variamente determinato dai contratti di lavoro, si colloca generalmente fra
il 2 e il 3 per cento, è evidente che, aderendo ad una forma previdenziale
diversa dal fondo chiuso, il lavoratore avrebbe perso una quota consistente
della propria ricchezza previdenziale integrativa. L’unica vera scelta per
il lavoratore sarebbe stata quella fra lasciare il Tfr in azienda e aderire
al fondo chiuso, essendo ogni alta scelta (fondo aperto o polizza
previdenziale) evidentemente non conveniente. E ciò non solo in fase di
prima adesione, ma, in sostanza, per tutLe ta la vita lavorativa. Si trattava
dunque ben di più di una corsia preferenziale per i fondi chiusi, ma di una
vera e propria condizione di monopolio permanente. Su questo punto, pochi
giorni prima della riunione del Consiglio dei Ministri, era intervenuta con
una chiara segnalazione al Parlamento l’Autorità
Antitrust. Si potrebbe obiettare che l’Art. 14 citato sopra fa
riferimento anche ai contratti aziendali, non solo a quelli nazionali. Ma,
come ha già spiegato Marcello Messori sulla Voce, il decreto riduceva al
luminicino le possibilità di istituire nelle aziende fondi aperti ad
adesione collettiva. E quand’anche questa possibilità fosse ampliata, dando
un maggiore peso alle decisioni aziendali, rimarrebbe il fatto che il
lavoratore sarebbe costretto ad aderire al fondo individuato nel contratto
aziendale.
In linea di principio, la soluzione a questo problema è molto semplice.
Basta tornare al decreto di luglio, che rispetta la lettera e il senso della
legge delega approvata dal Parlamento l’anno scorso, e togliere dall’art. 14
(e da una analogo articolo 8) la locuzione riportata sopra in caratteri
corsivi. Rispetto a questa proposta vi sono due obiezioni. La prima è di
natura giuridica e attiene all’origine contrattuale del contributo del
datore di lavoro. A questa obiezione, che ha un indubbio spessore, hanno
risposto vari giuristi, tra cui Pietro Ichino nel parere reso all’Ania e
pubblicato qualche giorno fa sulla Voce. La seconda obiezione è di sostanza:
è vero che il vincolo di destinazione del contributo aziendale obbliga il
lavoratore ad aderire al fondo chiuso, ma questa è una cosa buona, perché
nei fondi chiusi il lavoratore è più protetto di quanto non lo sia, per
effetto di norme e vigilanza delle authorities, nel libero mercato. Può
darsi che sia così e può ben darsi che, per questo motivo, anche in un
mercato liberalizzato, la maggioranza dei lavoratori decida di aderire ai
fondi chiusi. Ma questo non po’ essere un buon motivo per non liberalizzare
il mercato. L’unico soggetto che ha titolo per decidere di chi fidarsi è il
titolare delle risorse, ossia il lavoratore stesso. Si aggiunga che è molto
difficile che un operatore che agisce in condizioni di monopolio sia
efficiente e ben governato. In condizioni di libertà di scelta e di
concorrenza gli stessi fondi chiusi sarebbero più efficienti e meglio
governati. Spetterà poi all’autorità di vigilanza garantire condizioni di
trasparenza e correttezza dei comportamenti da parte di tutti gli operatori
in maniera tale che le scelte, oltre che libere, siano quanto più possibile
consapevoli.
Indice
06/10/2005 Riforma del Tfr e Libertà di Scelta Le modifiche introdotte al decreto Maroni rispetto
06/10/2005 Le Osservazioni Pericolose Alla fine di settembre le Commissioni parlamentari hanno fornito il necessario parere al Governo sullo schema di attuazione della parte della legge delega 243/04 relativa alla
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