Che il denaro abbia determinato una deformazione del corpo comunitario ed
una alterazione dei rapporti tra i suoi membri è cosa nota e studiata da
tempo. Correva l’anno 1500 quando Lutero – il monaco delle 95 tesi sulle
indulgenze – definiva il denaro sterco del Demonio e creatore del mondo, in
opposizione a Dio creatore di verità attraverso la parola. Quindi, nessuna
novità sul fronte della seduzione mercantile.
La ricerca del guadagno, la volontà dell’incentivazione degli utili, la
pulsione all’accumulo, la manifestazione di avidità sono condizioni presenti
nella struttura antropologica, ma sempre e comunque considerate come
tendenze da limitare o deviazioni da condannare.
Il problema nasce nel momento in cui il denaro diventa componente psichica,
una larva che mobilita le forze infere dell’uomo, la sua ombra più
invadente, la motivazione più pervasiva. Da strumento di benessere e di
sussistenza si trasforma in fine, una fonte tanto insoddisfacente quanto
velleitaria di felicità e di riconoscimento.
L’economia – il metodo di gestione del denaro – è sempre esistita.
Aristotele definisce bene il fenomeno dello scambio e della sua equità: “Per
questo, tutto ciò di cui si dà scambio deve essere in qualche modo
commensurabile. A questo scopo è stata inventata la moneta, che è divenuta
in un certo modo un intermedio, dato che misura tutto, cosicché misura sia
l’eccesso che il difetto (…)” (2) , quindi una semplice unità di misura che
– attraverso dei riferimenti condivisi – permette di definire il giusto e di
controllare l’abuso. Ma altrettanto bene circoscrive il paradigma unitario
dello scambio e della moneta: “Questo è, in verità, il bisogno, che tiene
unite tutte le cose (…)” (3) , perché se tutti avessero tutto a sufficienza
nessuno scambio potrebbe essere possibile per mancanza di una necessità
reciproca.
La moneta, perciò, quale strumento di reciprocità materiale e quale oggetto
simbolico, codificava un sistema di uguaglianza, di commensurabilità e di
lecita contrattazione.
Naturalmente gli oggetti di trattativa dovevano essere stimati secondo una
specifica natura, e la stima doveva essere condivisa; ed in questo
dispositivo si definiva la produzione dell’oggetto in questione: quello per
l’uso e quello per lo scambio. Nel primo caso la necessità era funzionale,
nel secondo puramente simbolica. (Questa differenza è particolarmente
accentuata e facilmente esemplificabile in due oggetti del nostro tempo come
l’automobile e il telefonino, che sono diventati da mezzi di trasporto e di
comunicazione a segni di potere e di stato sociale, o almeno di sovvertita
classe sociale).
Fino a qui nulla di scandaloso, e niente fa presagire la devastazione morale
della quale saremmo stati vittime e spettatori tanti secoli dopo. La
normalità di questo pensiero è tutta legata alla presenza di una misura
materiale, di una entità concreta e palpabile, di un prodotto costruito
dall’uomo per una sua facilità comparativa: la moneta; quella moneta che
assumeva importanza diversa a seconda del suo materiale di costituzione, e
sulla quale si riproducevano teste di imperatori e commemorazioni
memorabili; ma non solo, una moneta che poteva anche essere, semplicemente,
sostituita con “merci durevoli di generale utilità”(4) .
In questo quadro di economia primitiva esistono delle parole-chiave che
inquadrano il sistema economico all’interno di una dinamica di concretezza,
di una relazione di realtà: equità, necessità, sussistenza, mezzo, scambio,
bisogno. La moneta rappresentava – nelle sue specifiche rappresentazioni –
la fiducia che la merce avesse il valore prescritto e che lo scambio
avvenisse sulla base dell’onestà. Nulla era concesso ad una possibile
speculazione né c’era spazio per traffici disonesti o per trattative
equivoche. Basti pensare, per usare un esempio infantile, l’avvertenza dei
maestri elementari quando spiegavano la metodologia delle addizioni e delle
sottrazioni: “Mele con mele e pere con pere”; in altre parole, ogni
operazione doveva essere valutata e conclusa per concretezza e analogia di
genere. Solo il simile con il simile, o il diverso condiviso, potevano
entrare in rapporto matematico e in valutazione di scambio.
“Il vero uomo d’affari non guadagna il denaro né per i godimenti che procura
né per vivere con splendore, non lavora per sé né per i suoi: il denaro è
guadagnato per essere investito, deve essere impiegato solo perché aumenti,
avendo valore e senso solo l’arricchimento senza fine che esso induce”.(5) (Georges
Bataille)
Il cambiamento di mentalità e di prassi avvenne nel momento in cui la moneta
perse la sua caratteristica di concretezza di uso, di mezzo, per diventare
denaro, quindi un concetto astratto, una ipotesi mercantile, una promessa –
secondo una felice definizione di Massimo Fini. È sulla speranza,
sull’impegno, sulla garanzia, sull’assicurazione che si gioca il potere del
denaro. Il denaro si trasformò in una entità che permise una costruzione
proiettata nel futuro. E da questa opzione che si fonda la pulsione
all’accumulo. Si investe per accaparrarsi più futuro possibile, si risparmia
per avere più potere possibile, ci si assicura per avere più garanzie
possibili. Il denaro assume la valenza di un amuleto, e il suo
accaparramento un rito esorcistico in nome del “Non si sa mai…”: non è la
paura della malattia, il rischio incombente della morte, l’incognita di un
evento esistenziale a pervadere di ansia la quotidianità, ma l’angoscia di
mancanza di denaro. Non si parla, in questo caso, della ormai famosa “quarta
settimana”, della difficoltà di far fronte alle necessità primarie in una
crisi sempre più pressante, ma del sovrappiù, dell’eccedente, del superfluo.
Ed è proprio questa spinta ansiogena all’opulenza – spesso virtuale e
precaria – che fa perdere all’uomo il senso essenziale di questa questione:
che il denaro è un mezzo per vivere, e la vita non può essere sacrificata
per esso invertendo in maniera perversa i termini del discorso.
Il lavoro con il quale ci si dovrebbe procurare il benessere non può
diventare fonte di malattia per una affannosa rincorsa alle seduzioni di
mercato, né è salutare il famoso invito di “lavorare di più-guadagnare di
più-comperare di più”, in un cortocircuito patologico di fatica e di
insoddisfazione.
Del resto, è il denaro nella sua valenza di finalità fine a se stessa che ha
“inventato” la speculazione finanziaria, ossia quel dispositivo
autoreferenziale ed autoregenerantesi che sganciando la sua funzione dal
valore della merce è diventato merce esso stesso: “Il denaro finanziario è
denaro che opera su se stesso, è denaro che compra altro denaro”(6 ). È da
questa perversione che nasce quel fenomeno moralmente ributtante e
penalmente punibile – in continua espansione e con punti franchi
istituzionali quali le banche – che ha magistralmente reso in poesia il
grande Ezra Pound: l’usura. È inutile gridare allo scandalo quando si
denunciano le banche per i tassi di interesse da strozzinaggio. Le banche
sono di per sé – e a maggior ragione nell’anomalia di una Banca di Italia
ghermita dalle grinfie dei privati – un apparato riconosciuto legalmente e
preposto alla usura: “La banca trae beneficio dall’interesse su tutta la
moneta che crea dal nulla. Istigazione semiprivata / disse il sig.
Rothschild, uno dei tanti Roth-schild / verso il 1861 o ’64, Saranno in
pochi a capirlo. / Quelli che lo capiscono saranno intenti a trarne
profitto. / Il grosso pubblico forse non vedrà mai / che è contro il suo
interesse.”(7) .
Nasce così il capitale, dalla smaterializzazione (8) del denaro, dal
dissolvimento della sua concretezza; e in un circuito scellerato, più
diventa impalpabile la sua presenza attraverso la finanza telematica, più le
transazioni diventano virtuali, anonime, irreali e più la sua presenza si fa
pervasiva a corrodere uomini, società e stati, imponendo la sua spettrale
presenza sui destini fisici, morali e spirituali di intere comunità.
“[Il] capitale (…) è un movimento di rapacità impersonale dominato nel suo
sviluppo da un’estrema indifferenza per gli interessi privati e per
l’interesse pubblico”.(9)(Georges Bataille)
Sembrerebbe una banalità, ma è il capitale che fonda il capitalismo: senza
il primo presupposto non esisterebbe il conseguente dispositivo. E in sé
anche il capitalismo potrebbe apparire come un semplice “sistema
economico-sociale fondato sulla separazione tra capitalisti, proprietari dei
mezzi di produzione dal cui impiego ricavano un profitto, e lavoratori che
vendono la propria forza-lavoro in cambio di un salario”(10) . In realtà,
alla fatuità del capitale corrisponde un’infiltrazione metastatica del
capitalismo, diventato una vera e propria visione del mondo, un omologante
stile di vita. Il suo trionfo confermato con la vittoria sulle potenze
dell’Asse nella seconda guerra civile europea (1940-1945) – perché di
affermazione militare del capitale si è trattato, e non della democrazia
come mistificano i maggiordomi del pensiero unico – ha invaso ogni aspetto
della vita personale e societaria, alterando stili di vita, comportamenti
interpersonali, destini, rapporti con il mondo circostante e la natura come
habitat originario. Attraverso la sua opzione filosofica – il materialismo –
e la sua prassi meccanicistica – la tecnocrazia –, il capitalismo ha creato
dal nulla quella chimera seduttiva che si chiama progresso indefinito.
Esso ha reificato la natura rendendola oggetto passivo di sfruttamento e di
manomissione, determinando la devastazione ambientale che si va lamentando
attraverso due strategie convergenti e sinergiche: lo sfruttamento selvaggio
delle risorse e l’implementazione incontrollata dei consumi.
Ha ridotto l’uomo ad animale produttivo, a fenomeno di marketing, ad
argomento di manipolazione, il tutto deformando i parametri stessi della
vita: da un lato, ha scombinato i rapporti vita morte con la manipolazione
della prima e la meccanizzazione della seconda; d’altro ha invertito fini e
modalità lavorative, contraendo il tempo creativo e dilatando il tempo della
prestazione, il tutto con la minaccia della precarietà e il capestro
dell’insicurezza.
Ha scardinato i legami comunitari rendendoli precari accordi utilitaristici
tra soci, ha alterato la stessa concezione del limite e delle opportunità,
con la conseguenza di contrattualizzare relazioni sentimentali e rapporti
educativi. Ha isterilito la politica degradandola a comitato di affari e
riducendola a miserevole ancella dell’economia, in una organizzazione
transnazionale senza identità, senza radici, senza destini.
E potremmo continuare nell’elencazione delle derive del mercantilismo e
delle infezioni del capitalismo. Perché il capitalismo, prima ancora di
essere una concezione economica, è una vera e propria visione del mondo, una
dispositivo creatore di irrealtà.
Allora, la domanda che ci si pone è: potrà manifestarsi una crisi del
capitalismo se la sua stessa esistenza è fondata dalla creazione di
un’entità-altra, da un delirio di onnipotenza che pervade ogni espressione
della sua presenza, da una realtà-altra entro la quale l’uomo e la natura
sono completamente immersi? I miei dubbi sono fortissimi in proposito.
Lucidamente non credo che in maniera atraumatica si possa intervenire su
questo fenomeno metastatico, per altro stupido come tutte le cellule del
cancro che nella loro folle ed incontrollata riproduzione portano alla morte
il corpo che colonizzano e, nello stesso tempo, si autoeliminano alla morte
di questo.
Sono convinto, però, che attraverso due strategie – il comunitarismo e la
decrescita –si possa intervenire su settori sociali e dispositivi collettivi
in maniera mirata e circoscritta. Le avanguardie di questa scommessa hanno
un compito educativo di primaria importanza: rendere consapevole la massa
della condizione di passività e di anestesia nella quale si trova e nella
quale i poteri forti esigono che rimanga; rianimare quel senso di
appartenenza e di destino che, solo, può rendere credibile ed attuabile un
processo di decrescita (11) salutare.
Questa impostazione di pensiero va ben oltre la semplice programmazione
economica, l’applicazione dei correttivi di mercato, il ripensamento delle
basi capitalistiche: essa implica una vera e propria rivoluzione culturale
che ridisegni creativamente gli stili di vita e, con essi, le modalità di
stare al mondo. Si tratta di rimettere in discussione il tempo nella sua
percezione e nella sua suddivisione quotidiana, la logica del lavoro nella
sua minuziosa organizzazione, il significato della produzione e del consumo
nell’efficientismo della prima e nella mistificazione del secondo, il senso
della vita dell’uomo e della sua comunità di appartenenza. È, nel principio
e nella prassi, la consapevolezza di un altro mondo possibile, quindi la
volontà di un progetto politico nuovo e radicale che creda e combatta per
“il cambiamento dei valori [che] dà luogo a una visione diversa del mondo e
dunque ad un altro modo di vedere la realtà” (12) . Un processo
rivoluzionario, questo, di destrutturazione della realtà deformata in cui
siamo immersi e la restituzione delle vita alla realtà vera ed autentica.
E se questa realistica utopia non potrà essere goduta dai presenti rimarrà a
testimonianza di chi non si è arreso e di chi, almeno, ha avuto il buon
senso di attrezzarsi in vista di una catastrofe annunciata.
Adriano Segatori
Fonte: www.centroitalicum.it
Link: http://www.centroitalicum.it/giornale_2008/2008_34_segatori.php
Aprile-maggio 2008
Note
1 G. BATAILLE, Il limite dell’utile, Adelphi, Milano, 2000, p. 26.
2 ARISTOTELE, Etica Nicomachea, Laterza, Roma-Bari, 2005, V, 1333a, p. 191.
3 Ivi, 1333a, p. 193.
4 ENCICLOPEDIA L’UNIVERSALE, Garzanti, Milano, 2003.
5 G. BATAILLE, Il limite dell’utile, cit., pp. 60-61.
6 M. FINI, Il denaro , Marsilio, Venezia, 1988, p. 196.
7 E. POUND, I Cantos, Mondadori, Milano, 1999, XLVI, p. 453.
8 M. FINI, Il denaro , cit., p. 201.
9 G. BATAILLE, Il limite dell’utile, cit., p. 78.
10 ENCICLOPEDIA L’UNIVERSALE, Garzanti, Milano, 2003.
11 Cfr. A. de BENOIST, Comunità e decrescita, Arianna, Bologna, 2006.
12 S. LATOUCHE, Breve trattato sulla decrescita serena, Bollati Boringhieri,
Torino, 2008, pp. 46-47.
http://www.comedonchisciotte.org
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