L’imperialismo è una costante del capitalismo, ma attraversa diverse fasi a
seconda dell’evoluzione del sistema. Al momento il mondo sta attraversando
una nuova era dell’imperialismo caratterizzata dalla imponente strategia di
dominazione globale attuata dagli Stati Uniti. Un segno di come le cose
siano cambiate è che le forze armate statunitensi operano a livello globale,
con basi permanenti in ogni continente inclusa l’Africa, dove si sta
svolgendo una nuova contesa per il controllo basata sul petrolio.
Nel decennio successivo al collasso dell’Unione Sovietica, si condannava
spesso l’assenza di una strategia paragonabile a ciò che George Kennan
etichettava come “politica di contenimento”, sotto la cui copertura gli
Stati Uniti intervennero durante gli anni della Guerra Fredda. Il nocciolo
della questione, così come fu posto nel novembre 2000 dall’analista della
sicurezza nazionale Richard Haass, fu quella di determinare in che modo gli
Stati Uniti dovessero utilizzare il loro “surplus” di potere per ridisegnare
il mondo.
La risposta di Haass, che lo fece assumere a direttore della pianificazione
politica per il dipartimento di stato di Colin Powell nella nuova
amministrazione Bush, fu quella di promuovere la strategia di una “America
Imperiale”, finalizzata a garantire il predominio globale degli Stati Uniti
per i decenni a venire. Solo alcuni mesi prima, in una relazione scritta dai
futuri esponenti di spicco dell’amministrazione Bush, tra i quali Donald
Rumsfeld, Paul Wolfwitz e Lewis Libby, una strategia simile, seppur di tipo
più apertamente militaristico, era stata presentata dal Progetto per il
Nuovo Secolo Americano.
In seguito agli attacchi dell’11 settembre, questa nuova grande strategia
imperiale si concretizzò nelle invasioni degli stati Uniti in Afghanistan e
in Iraq, e fu presto inserita ufficialmente nella Dichiarazione di Strategia
di Sicurezza Nazionale della Casa Bianca, scritta nel 2002. Riassumendo la
nuova strategia imperiale, Stephen Peter Rosen, direttore dell’Olin
Institute for Strategic Studies di Harvard e membro fondatore del Progetto
per il Nuovo Secolo Americano, scrisse nell’ Harvard Magazine:
“Un’unità politica che ha una superiorità militare schiacciante e usa quel
potere per influenzare il comportamento interno di altri stati è definito un
impero. Dal momento che gli Stati Uniti non cercano di controllare il
territorio o governare i popoli d’oltremare, noi [americani] siamo un
impero, indiretto a dire il vero, ma pur sempre un impero. Se è così, allora
il nostro obiettivo non è combattere un rivale ma mantenere la nostra
posizione e un ordine imperiale. Organizzare guerre imperiali è diverso dal
progettare guerre internazionali convenzionali…le guerre imperiali per
riportare l’ordine non sono così innaturali. Bisogna usare più velocemente
possibile tutte le forze a disposizione per l’impatto psicologico, a
dimostrazione del fatto che l’impero non può essere sfidato rimanendo
impuniti… La strategia imperiale mira a prevenire l’insorgere di minacce
potenti e ostili all’impero: con la guerra se necessario, ma preferibilmente
con l’assimilazione all’impero.
In un commento del 2002 sulla politica estera, John Lewis Gaddis, professore
di storia militare e navale a Yale, dichiarò che lo scopo dell’imminente
guerra in Iraq era quello di riproporre la battaglia di Agincourt negli
argini dell’Eufrate”, quale dimostrazione di un potere così grande che, come
nella famosa vittoria di Enrico V in Francia nel 15° secolo, avrebbe
cambiato l’organizzazione geopolitica per i decenni a venire. Secondo Gaddis,
la posta in gioco era la gestione del sistema internazionale da parte di una
singola “egemonia”, che gli stati Uniti potevano assicurarsi attraverso
azioni preventive, attuando quindi nient’altro che una nuova e grande
“strategia di trasformazione!.
Sin dai tempi di Clausewitz in ambito militare si elaboravano tattiche come
“l’arte di usare le truppe in battaglia” o “l’arte di usare le battaglie per
vincere la guerra”. Al contrario, l’idea di una grande strategia, come
normalmente promossa dagli strateghi e dagli storici militari quali Edward
Meade Earle e B.H. Liddell Hart, si rifà all’integrazione fra il potenziale
bellico di uno stato e i suoi più ampi scopi politico-economici. Come
osservò lo storico Paul Kennedy in “Strategie Grandiose in Guerra e Pace”
(1991): “una vera grande strategia è preoccupata della pace così come (e
forse di più) della guerra…dell’evoluzione o dell’integrazione delle
politiche che dovrebbero operare per decenni, o persino per secoli”.
Le strategie grandiose hanno un orientamento geopolitico, in quanto sono
finalizzate al dominio di intere regioni geografiche incluse le loro risorse
quali possono essere minerali, corsi d’acqua navigabili, vantaggi economici,
popolazioni e posizioni militari strategiche. Le strategie grandiose che
hanno avuto più successo in passato sono quelle di imperi, che sono stati in
grado di mantenere il loro potere su enormi distese geografiche per periodi
di tempo molto lunghi. Pertanto, gli storici si concentrano di solito
sull’impero Britannico del 19° secolo (Pax Britannica) e anche sull’antico
Impero Romano (Pax Romana).
Oggi per gli Stati Uniti non c’è più in gioco solo il controllo di una
semplice parte del mondo ma una vera e globale Pax Americana. Nonostante
alcuni osservatori abbiano visto l’ultima ambizione imperiale degli Stati
Uniti come l’opera di un piccolo gruppo di neo-conservatori all’interno
dell’amministrazione Bush, la realtà è quella di una larga concorrenza
interna alla struttura del potere statunitense, che rende necessaria
l’espansione dell’impero Americano. Di recente è uscita una raccolta di
commenti che include contributi di critici dell’amministrazione, si intitola
“L’Obbligo dell’Impero: la Grande strategia degli Stati Uniti per un Nuovo
Secolo”.
Ivo H. Daadler (membro del Brookings Institution e già consigliere di
politica estera per Howard Dean) e James M. Lindsay (nuovo presidente del
Consiglio per le Relazioni con l’Estero, e precedente membro Consiglio di
Sicurezza Nazionale di Clinton) nel loro libro “America Unbound” sostennero
che gli Stati Uniti hanno avuto per lungo tempo un “Impero Segreto”
mascherato da multilateralismo. La politica unilaterale di Bush basata sulla
creazione di un “impero fondato solo sul potere americano” ha cambiato le
cose al punto che ha svelato il carattere nascosto dell’impero e ha ridotto
la sua forza globale dipendendo meno dagli stati vassalli. Secondo Daadler e
Lindsay, gli Stati Uniti sono ora sotto il controllo di pensatori “egemoni”
che vogliono assicurarsi che l’America domini il mondo intero, sia per il
suo interesse nazionale sia per ridisegnare il mondo in accordo con
“l’imperialismo democratico”. Tuttavia, mettono in luce che questa posizione
così aggressiva non è del tutto nuova alla politica americana. Una spinta
imperiale unilaterale era presente già al tempo di Theodore Roosvelt, e
dall’inizio dell’era della Guerra Fredda nelle amministrazioni Truman e
Eisenhower. Inoltre, Daadler e Lindsay dimostrano che è possibile cooperare
con le altre grandi potenze che stanno cadendo nell’ombra degli Stati Uniti
come approccio superiore al come guidare un impero.
Un imperialismo cooperativo di questo genere diventa più difficile da
realizzare una volta che il potere dell’egemonia comincia a svanire. Gli
Stati Uniti, infatti, non stanno soffrendo solo l’incremento della
competizione economica, ma con il crollo dell’Unione Sovietica, si è
indebolita anche l’alleanza della NATO: i subalterni europei di Washington
non seguono sempre la sua guida, anche se non sono capaci di contrastarla
apertamente. La tentazione di un potere economico che si affievolisce pur
essendo ancora armato e pericoloso è quella di tentare di ricostruire e
persino espandere il proprio potere attraverso azioni militari.
La guerra per il capitalismo del nuovo secolo americano è un sistema,
mondiale per la portata economica, ma politicamente diviso in stati rivali
che da un punto di vista economico si sviluppano a velocità diverse. La
contraddizione di uno sviluppo capitalista irregolare/discontinuo fu esposta
da Lenin nel 1916 in “Imperialismo, il livello più alto di Capitalismo”:
“Sotto il Capitalismo non c’è nessun altro metodo concepibile per la
divisione in sfere d’influenza, di interesse, di colonie ecc… se non un
calcolo della forza di coloro che prendono parte alla divisione, della loro
forza economica, finanziaria, militare… E la forza di chi partecipa alla
divisione non diventerà mai equa, perché sotto il capitalismo lo sviluppo di
differenti imprese, società di investimento, rami d’azienda o nazioni non
può essere uguale. Mezzo secolo fa, la Germania era una nazione miserabile e
insignificante dal punto di vista capitalistico, se paragonata alla forza
dell’Inghilterra nello stesso periodo. Il Giappone era ugualmente
insignificante rispetto alla Russia. È concepibile che in 10 o 20 anni la
forza delle potenze imperiali sarà rimasta invariata? Assolutamente
inconcepibile”.
È oramai risaputo che il mondo sta vivendo una trasformazione economica. Il
tasso di crescita dell’economia mondiale non è il solo che stia andando a
rilento, ma la relativa forza economica degli USA sta continuando ad
indebolirsi. Nel 1950, gli Stati Uniti rappresentavano metà del prodotto
interno lordo mondiale, scendendo a poco più di 1/5 nel 2003. Allo stesso
modo, nel 1960, rappresentavano circa metà del capitale mondiale per gli
investimenti all’estero, paragonato a poco più del 20% all’inizio di questo
secolo. Secondo le proiezioni di Goldman Sachs, la Cina entro il 2039
potrebbe sorpassare gli Stati Uniti come più grande potenza economica
mondiale.
Questa crescente minaccia al potere degli Stati Uniti sta alimentando
l’ossessione di Washington di porre le fondamenta per un Nuovo Secolo
Americano. L’attuale interventismo mira ad approfittare del suo momentaneo
primato economico e militare per assicurarsi vantaggi strategici che
porteranno garanzie di supremazia globale a lungo termine. L’obiettivo è di
estendere il potere statunitense privando i potenziali rivali di quei
vantaggi strategici vitali che potrebbero permettere loro di sfidare gli
Stati Uniti a livello globale o persino all’interno di particolari regioni.
La Strategia di Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti del 2002 dichiarava
che “le nostre forze saranno abbastanza forti da dissuadere i potenziali
avversari dal perseguire un’intensificazione militare nella speranza di
superare, o eguagliare, il potere degli Stati Uniti”. Ma la grande strategia
va al di là del semplice potere militare. I vantaggi economici di fronte ai
potenziali rivali sono la vera ragione della competizione capitalista.
Perciò, la grande strategia degli Stati Uniti integra il potere militare con
la lotta per controllare il capitale, il commercio, il valore del dollaro e
i materiali grezzi.
Forse la più chiara delle disposizioni strategiche degli Stati Uniti è stata
fornita in “A Grand Strategy for America” [“Una Straordinaria Strategia per
l’America”] da Robert J. Art, professore di Affari Interni a Brandeis e
ricercatore associato dell’Olin Istitute: “una grande strategia” scrive “
dice ai leaders di una nazione a quali obiettivi dovrebbero mirare e come
possono sfruttare al meglio il potere della loro nazione per ottenere questi
obiettivi”. Concettualizzando questa grande strategia degli Stati Uniti, Art
presenta 6 interessi nazionali in ordine di importanza:
Primo, prevenire ogni attacco in territorio americano;
Secondo, prevenire la guerra fra grandi potenze eurasiatiche e, se
possibile, le forti competizioni che le rendono probabili;
Terzo, preservare l’accesso alle forniture di petrolio a prezzi ragionevoli
e sicuri;
Quarto, preservare un ordine economico internazionale aperto;
Quinto, incoraggiare la diffusione della democrazia e il rispetto dei
diritti umani all’estero, e prevenire genocidi o uccisioni di massa nelle
guerre civili;
Sesto, proteggere l’ambiente soprattutto dagli effetti avversi di
riscaldamento globale e dai violenti cambiamenti climatici.
Dopo la vera e propria difesa nazionale, ovvero la difesa della “patria”
contro gli attacchi esterni, le successive tre priorità strategiche sono le
seguenti: 1- il tradizionale obiettivo geopolitico di egemonia nel cuore del
continente Euroasiatico visto come chiave per il potere sul mondo intero; 2-
assicurare il controllo sulle forniture mondiali di petrolio; 3- promuovere
rapporti economici di capitalismo mondiale.
Per far collimare questi obiettivi, secondo Art gli Stati Uniti dovrebbero
mantenere le loro forze in campo in Europa e nell’Asia dell’est (le due
potenti regioni che delimitano l’Eurasia) e nel Golfo persico (che contiene
il grosso delle riserve mondiali di petrolio). “L’Eurasia è la patria della
maggior parte delle popolazioni del mondo, della maggior parte delle riserve
di petrolio accertate e della maggior parte delle forze militari
statunitensi così come di una larga fetta della loro crescita economica”.
Pertanto, è cruciale che la grande strategia imperiale degli Stati Uniti sia
finalizzata al rafforzamento dell’egemonia in questa regione, a cominciare
dalle regioni dell’Asia centro-meridionali, fondamentali per il petrolio.
Con le guerre in corso e l’occupazione dell’Afghanistan e dell’Iraq ancora
insolute, Washington sta predisponendo la minaccia dei suoi attacchi
preventivi sul più potente vicino di questi stati, l’Iran. La
giustificazione fornita per questo attacco è il programma iraniano di
arricchimento dell’uranio, che potrebbe eventualmente permettere allo stato
di sviluppare la capacità di costruire armi nucleari. Come era già successo
per l’Iraq, l’Iran è una delle potenze dominanti per il petrolio, con i più
grandi giacimenti accertati secondo solo all’Arabia Saudita e davanti
all’Iraq. Pertanto, controllare l’Iran è cruciale per gli obiettivi di
Washington di dominare il Golfo Persico e il petrolio ivi contenuto.
L’importanza geopolitica dell’Iran non è legata solo al Medioriente ma, come
anche nel caso dell’Afghanistan, è la ricompensa del nuovo Grande Gioco per
il controllo di tutta l’Asia centro-meridionale, incluso il bacino del Mar
Caspio con le sue enormi riserve di combustibile fossile. Gi strateghi
statunitensi sono ossessionati dalla paura che l’Asia crei una rete di
sicurezza energetica, nella quale Russia, Cina, Iran e le regioni centrali
dell’Asia (incluso il Giappone) si potrebbero unire economicamente per
stipulare un accordo energetico, in maniera tale da spezzare il controllo
asfissiante statunitense e occidentale sul mercato mondiale di gas e
petrolio, e creare così le basi per uno spostamento del controllo mondiale
verso Est. Ad oggi la Cina, la nazione con la più rapida crescita economica,
non dispone di sicurezza energetica, nonostante la sua richiesta di
combustibile fossile sia in rapida crescita. In parte si sta cercando di
risolvere questo problema attraverso un più ampio accesso alle risorse
energetiche dell’Iran e degli stati dell’Asia centrale. Il tentativo degli
Stati Uniti di stabilire un’alleanza più forte con l’India, caldeggiata da
Washington col sostegno dell’India come potenza nucleare, fanno chiaramente
parte di questo nuovo Grande Gioco per il controllo dell’Asia
centro-meridionale, che ricorda quello del 19° secolo tra Inghilterra e
Russia per il controllo di questa parte dell’Asia.
Se da un lato un nuovo grande gioco sta per essere messo in atto in Asia,
allo stesso tempo c’è anche una Nuova Scalata all’Africa da parte delle
grandi potenze. La strategia di sicurezza nazionale degli Stati Uniti del
2002 dichiarava che “per combattere la guerra globale al terrorismo” e
assicurare la sicurezza energetica statunitense si richiedeva che le Nazioni
Unite aumentassero i loro impegni per l’Africa e chiamassero in azione
“coalizioni di volonterosi” per creare organizzazioni di sicurezza regionale
nel continente. Subito dopo, il Comando Europeo degli Stati Uniti,
incaricato delle operazioni militari USA nell’Africa sub-sahariana,
incrementò le attività nell’Africa occidentale, incentrandole su quegli
stati intorno al Golfo di Guinea che hanno una sostanziale produzione di
petrolio e risorse consistenti (che si estende dalla Costa D’Avorio
all’Angola). Se nel 2003 c’era un totale disinteresse per l’Africa, il
Comando Europeo dell’Esercito statunitense dedica ora il 70% del suo tempo
agli affari in Africa.
Nella sua introduzione al rapporto per il consiglio del 2005 dal titolo “Più
che Umanitarismo: un Approccio strategico degli Stati Uniti verso l’Africa”,
Richard Haas, ora presidente del Consiglio per le Relazioni con l’Estero,
sottolinea che “entro la fine del decennio l’Africa sub-sahariana
probabilmente diventerà una fonte di importazione energetica per gli Stati
Uniti importante come lo è ora il Medio Oriente. L’Africa occidentale ha
qualcosa come 60 miliardi di barili di riserve petrolifere accertate. Il suo
petrolio è il greggio leggiero a basso contenuto di zolfo, che viene
apprezzato dall’economia statunitense. Le agenzie americane e gli istituti
di ricerca calcolano che 1 su 5 barili di petrolio che entreranno
nell’economia mondiale nell’ultima parte di questo decennio arriverà dal
Golfo di Guinea, e questo alzerà il tasso di importazione petrolifera
statunitense dal 15 a più del 20% entro il 2010 e al 25% entro il 2015. La
Nigeria fornisce già agli stati Uniti il 10% della loro importazione
petrolifera; dall’Angola proviene il 4% dell’importazione, che potrebbe
raddoppiare entro il 2010. le scoperte di nuove riserve e l’espansione della
produzione petrolifera stanno trasformando altri stati della nazione in
principali esportatori di petrolio, incluse la Guinea Equatoriale, Sao Tomè
e Principe, il Gabon, il Camerun e il Chad. Si prevede che persino la
Mauritania emergerà come esportatore di petrolio entro il 2007. Il Sudan,
che confina con il Mar Rosso a est e con il Chad a ovest, è un importante
produttore di petrolio.
Al momento, la principale base militare permanente degli Stati Uniti in
Africa è quella fondata nel 2002 a Djibuti, nel Corno d’Africa, che
conferisce agli USA il controllo strategico della zona marittima attraverso
la quale passa un quarto della produzione mondiale di petrolio. La base di
Djibuti è anche situata in prossimità dell’oleodotto del Sudan (l’esercito
francese è stato presente a Djibuti per molto tempo e ha anche una base
aerea a Abeche, nel Chad, al confine col Sudan). La base di Djibuti permette
agli Stati Uniti di dominare l’estremità est di questa vasta striscia di
petrolio che attraversa l’Africa, ed è considerato una base centrale per gli
interessi strategici degli USA. Una vasta striscia si espande verso
sud-ovest dall’oleodotto di Hugleig Port nel Sudan, lungo 994 miglia, fino
alla conduttura lunga 640 miglia fra il Chad, il Cameroon e il Golfo di
Guinea a ovest. Un’altra posizione strategica statunitense sarà quella in
Uganda che consentirà all’America di dominare il sud del Sudan, dove si può
trovare la maggior parte del petrolio di quella regione.

[Il petrolio in Africa: maggiori giacimenti (simbolo del pozzo petrolifero),
investimenti di Cina, India, Iran, Brasile (bandiere) e USA (dollaro),
attività militari o di intelligence di Francia o Regno Unito (bandiere),
attività della NATO o della CIA (fucili incrociati), attività di al-Qaeda
(AQ). Gli stati in rosso sono quelli in cui è in corso una guerra civile.
Dal sito www.fromthewilderness.com]
Nell’Africa occidentale, il Comando Europeo dell’Esercito Statunitense ha
creato postazioni che in futuro opereranno in Senegal, a Mali, nel Ghana e
nel Gabon, così come in Namibia, al confine sud con l’Angola, ed espanderà
il potenziamento delle basi aeree, predisponendo il posizionamento di
forniture critiche di combustibile e un accordo di passaggio per lo
spiegamento delle truppe americane. Nel 2003 gli Stati Uniti lanciarono un
programma di antiterrorismo nell’Africa occidentale e nel marzo 2004 le
forze speciali americane furono direttamente coinvolte in un’esercitazione
militare con le nazioni dello Shael contro il “gruppo Salafita per la
preghiera e il combattimento”, inserito nella lista di organizzazioni
terroristiche di Washington. Il Comando Europeo Statunitense sta sviluppando
un sistema di sicurezza lungo le coste del Golfo di Guinea chiamato appunto
Guardia del Golfo di Guinea. Si sta anche pianificando la costruzione di una
base navale a Sao Tomè e Principe, che potrebbe fare concorrenza alla base
navale di San Diego Garcia nell’Oceano Indiano. Il Pentagono si sta perciò
muovendo in maniera aggressiva per consolidare la presenza militare nel
Golfo di Guinea che potrebbe consentire il controllo della parte occidentale
della vasta striscia di petrolio che attraversa l’Africa e delle riserve di
petrolio che si stanno scoprendo. L’operazione Flintock, una iniziale
esercitazione militare nell’Africa occidentale nel 2005 incorporò 1000 forze
speciali americane. Questa estate il comando europeo statunitense condurrà
un’esercitazione per la sua nuova forza di reazione rapida per il Golfo di
Guinea.
In questa zona è forte il richiamo del commercio: le maggiori aziende
petrolifere statunitensi occidentali si contendono il petrolio dell’Africa
occidentale ed esigono sicurezza. Il comando militare europeo degli stati
Uniti, come riportato nel Wall Street Journal del 25 aprile, sta lavorando
anche con la Camera di Commercio statunitense per ingrandire il ruolo delle
aziende USA in Africa come parte di una “reazione statunitense integrata”.
In questa scalata alle risorse petrolifere Africane, le antiche colonie
imperiali, Inghilterra e Francia, sono in competizione con gli Stati Uniti.
Da un punto di vista militare, comunque, stanno lavorando a stretto contatto
con il Pentagono per assicurare un controllo imperiale occidentale sulla
regione.
L’insediamento dell’esercito statunitense in Africa è spesso giustificato
come necessario sia per combattere il terrorismo sia per contrastare la
crescente instabilità nelle regioni petrolifere dell’Africa sub-sahariana.
Dal 2003, il Sudan è stato lacerato dai conflitti etnici focalizzati nella
regione sud-occidentale del Darfur (dove è situata la maggior quantità di
petrolio della regione), che hanno portato innumerevoli violazioni di
diritti umani e uccisioni di massa da parte delle milizie legate al governo
contro la popolazione della regione. Tentativi di colpi di stato si sono
verificati di recente nelle nuove regioni di San Tomè e Principe (nel 2003)
e nella Guinea Equatoriale (2004). Anche il Chad, devastato da un regime
brutalmente oppressivo protetto da un apparato di sicurezza e intelligence
appoggiato dagli Stati Uniti, ha sperimentato un colpo di stato nel 2004. Un
colpo di stato riuscito si è invece avuto in Mauritania nel 2005 contro
l’uomo forte appoggiato dagli Stati Uniti, Ely Ould Mohamend Roya. La guerra
civile dell’Angola, durata 30 anni, fu istigata e nutrita dagli Stati Uniti
che, insieme al Sud-Africa organizzarono un esercito terroristico sotto
l’organizzazione “UNITA” di Gones Sawimbi, durata fino al cessate il fuoco
conseguente alla morte di Sawimbi avvenuta nel 2002. In Nigeria, stato
egemone della regione, dilagano corruzione, rivolte e furti organizzati di
petrolio. Le preoccupazioni centrali degli Stati Uniti sono l’aumento
dell’insurrezione armata nel delta del Nilo e il potenziale conflitto fra il
nord della regione islamico e il sud non-islamico.
Quindi, questi “Interventi Umanitari” in Africa continuano ad essere
giustificati. Nella relazione del Consiglio per gli affari Esteri viene
scritto che “gli Stati Uniti e i suoi alleati devono essere pronti a
intraprendere azioni appropriate nel Darfur, incluse sanzioni e, se
necessario, interventi militari se al consiglio di Sicurezza viene impedito
di farlo”.
Allo stesso tempo, l’ipotesi che l’esercito statunitense potrebbe
intervenire in Nigeria è stata ampiamente ventilata fra gli esperti e nei
circoli politici. Jeffrey Taylor, corrispondente dell’Atlantic Monthly,
scrisse nell’aprile 2006 che la Nigeria “è diventata il più grande stato
fallito sulla terra”, e che “un’ulteriore destabilizzazione dello stato, o
una sua sopraffazione da parte delle forze islamiche, metterebbe in pericolo
le abbondanti riserve di petrolio che l’America ha giurato di proteggere. Se
quel giorno dovesse arrivare, questo potrebbe annunciare un intervento
militare molto più ingente rispetto alla campagna irachena”.
Gli strateghi statunitensi hanno ben chiaro che i veri obiettivi non sono
gli stati africani in sé e il benessere delle loro popolazioni, ma il
petrolio e la crescente presenza cinese in Africa. Così come messo in luce
dal Wall Street Journal in "Africa Emerges as a Strategic Battlefield,"
[“L’Africa Emerge come un Campo di Battaglia Strategico”n.d.t.], la Cina
opera in Africa in prima linea nel tentativo di conquistare una maggiore
influenza a livello globale; ha infatti triplicato il commercio con il
continente nell’arco degli ultimi 5 anni , ha chiuso i rapporti commerciali
con i regimi come il Sudan e sta educando la futura élite africana nelle
università cinesi e nelle scuole militari. In “più che Umanitarismo”, allo
stesso modo il Consiglio per le relazioni con l’Estero dipinge la minaccia
principale come proveniente dalla Cina: la Cina ha alterato il contesto
strategico in Africa. Oggi, in tutta l’Africa, la Cina sta conquistando il
controllo di risorse naturali, rilanciando gli imprenditori occidentali su
importanti progetti di infrastrutture, e concedendo comodi prestiti e altri
incentivi per sostenere il suo vantaggio competitivo.
La Cina importa più di un quarto del suo petrolio dall’Africa,
principalmente dall’Angola, dal Sudan e dal Congo. E’ il più grande
investitore estero in Sudan. Ha portato sussidi alla Nigeria per aumentare
la sua influenza e sta vendendo aerei da combattimento proprio lì. La cosa
più preoccupante dal punto di vista della grande strategia degli stati Uniti
è il prestito di 2 miliardi di dollari a basso interesse concesso nel 2004
dalla Cina all’Angola, che ha permesso a quest’ultima di resistere alle
richieste del Fondo Monetario Internazionale per ridisegnare la sua economia
e la società su linee neoliberiste.
Per il Consiglio per le Relazioni Estere, tutto questo si risolve in
nient’altro che una minaccia per il controllo imperiale dell’Africa da parte
dell’occidente. Dato il ruolo della Cina, la relazione del consiglio dice
che “l’Europa e gli Stati Uniti non possono considerare l’Africa come il
loro territorio di caccia privato, come una volta fecero i francesi con
l’Africa francofona. Le leggi stanno cambiando, in quanto la Cina non cerca
solo di guadagnarsi l’accesso alle risorse, ma anche di controllarne la
produzione e la distribuzione, forse posizionandosi come principali fruitori
qualora le risorse dovessero ridursi”. Il rapporto del Consiglio sull’Africa
è così preoccupato di combattere la Cina attraverso un’espansione delle
operazioni militari statunitensi, che nientemeno che Chester Crocker, ex
assistente segretario di stato per gli Affari Africani nell’amministrazione
Reagan, lo accusa di “nostalgia per un’epoca in cui gli Stati Uniti e
l’Occidente erano l’unica grande influenza e potevano perseguire… i loro
obiettivi in piena libertà”.
Di certo, l’impero statunitense si sta espandendo per inglobare parti
dell’Africa nella spietata ricerca di petrolio. I risultati potrebbero
essere devastanti per le popolazioni africane. Come l’antica corsa
all’Africa, quest’ultima è una lotta tra grandi potenze per le risorse e per
il bottino, non per lo sviluppo dell’Africa o per il benessere delle sue
popolazioni.
Nonostante il contesto strategico si stia evolvendo rapidamente e
l’imperialismo negli ultimi anni sia più libero, c’è una coerenza nella
grande strategia imperiale degli USA che deriva dal largo accordo ai vertici
della struttura americana, sulla convinzione che gli Stati Uniti dovrebbero
cercare una “supremazia globale”, come espose Zbigniw Bzenzinski,
consigliere per la sicurezza nazionale dell’ex presidente Jimmy Carter.
La relazione “Più che Umanitarismo” del 2006 del Consiglio per le Relazioni
con l’Estero che supporta l’espansione della grande strategia americana in
Africa, fu condivisa da Anthony Lake, consigliere di Clinton per la
Sicurezza Nazionale dal 1993 al 1997 e da Christine Todd Whitman,
precedentemente capo dell’Ente per la Protezione ambientale sotto Bush. Come
consigliere di Clinton per la sicurezza nazionale, Lake ebbe un ruolo
principale nella definizione della grande strategia degli Stati Uniti nel
corso dell’amministrazione Clinton. In un discorso intitolato “Dal
Contenimento all’Espansione” rilasciato alla School of Advanced
International Studies, alla John Hopkins University il 21 dicembre 2003,
Lake dichiarò che con il collasso dell’Unione Sovietica, gli Stati Uniti
erano “la potenza mondiale dominante…abbiamo l’esercito più potente del
mondo, la più grande economia e la società più dinamica e multietnica…abbiamo
tenuto a bada la minaccia globale alle democrazie di mercato; adesso
dobbiamo cercare di espanderci, loro di raggiungerci. Dopo una dottrina di
contenimento deve essere attuata una strategia di espansione”. In poche
parole, ciò significava un’espansione della sfera del capitalismo mondiale
sotto l’egida dell’esercito americano. I nemici principali di questo nuovo
ordine mondiale definiti da Lake “backlash states” [letteralmente “stati che
oppongono una reazione negativa”], erano soprattutto Iran e Iraq.
L’insistenza di Lake, all’inizio dell’amministrazione Clinton, per una
grande strategia di espansione per gli USA sta per essere realizzata oggi
nell’espansione del ruolo militare non solo in Asia centrale e nel
Medioriente, ma anche in Africa.
La grande strategia imperiale degli USA è più il risultato inevitabile della
posizione di potere nella quale si trovò il capitalismo statunitense
all’inizio del 21° secolo, piuttosto che un prodotto delle politiche
generate a Washington dalle varie fazioni della classe dirigente. La forza
economica degli Stati Uniti (insieme a quella dei suoi più stretti alleati)
sta declinando in maniera del tutto regolare. Le grandi potenze non sembrano
voler mantenere gli stessi rapporti economici reciproci rispetto a 2 decenni
fa. Allo stesso tempo, la potenza militare mondiale degli Stati Uniti è
relativamente aumentata con il crollo dell’Unione Sovietica. Gli Stati Uniti
ora riportano circa la metà della spesa militare a livello mondiale, ovvero
due volte o più la sua parte nella produzione mondiale.
L’obiettivo della nuova grande strategia imperiale degli Stati Uniti è usare
questa forza militare senza precedenti per inglobare le forze che stanno
emergendo e creare una sfera di dominazione così vasta da inglobare ogni
continente, in maniera tale che nessun rivale potenziale sarà in grado di
sfidare fino in fondo gli Stati Uniti per interi decenni. Questa è una
guerra contro le popolazioni della periferia del capitalismo mondiale e per
l’espansione dello stesso capitalismo, in particolare quello statunitense.
Ma è anche una guerra per assicurare un “Nuovo Secolo Americano” in cui le
nazioni del terzo mondo sono viste come “patrimoni strategici” all’interno
di una più grande battaglia geopolitica.
La lezione della storia è chiara: i tentativi di conquistare il dominio del
mondo intero attraverso mezzi militari, anche se inevitabile sotto il
capitalismo, sono destinati a fallire e possono solo portare a nuove e più
grandi guerre. È responsabilità di coloro che si impegnano per la pace nel
mondo resistere alla nuova grande strategia imperiale degli Stati Uniti
chiamando in causa l’imperialismo e le sue radici economiche: lo stesso
capitalismo.
John Bellamy Foster
Fonte: http://www.globalresearch.ca
Link: http://www.globalresearch.ca/index.php?context=viewArticle&code=BEL20060609&articleId=2617
09.06.2006
Traduzione per www.comedonchisciotte.org di SARA DE ANGELIS
Archivio Nuovo Ordine Mondiale
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