Un
colosso farmaceutico contro i malati del Terzo Mondo.
Ancora una volta. Si chiama Novartis è una multinazionale
farmaceutica con sede in Svizzera, a Basilea per essere
esatti. Sul suo sito Internet sfoggia un fatturato netto
che nel 2006 ha raggiunto i 37 miliardi di dollari
americani, con un incremento rispetto all’anno precedente
del 15%. Paragonandolo a quello del 2005, anche il suo
profitto netto ha fatto un bel balzo in avanti, arrivando
a 7,2 miliardi (+17%). Numeri del genere la collocano da
anni tra le prime dieci maggiori imprese che si occupano
di medicinali. Una “top-ten”, questa, comunemente definita
“Big Pharma” e che sempre più spesso è accusata da Stati e
associazioni di consumatori per la sua politica priva di
scrupoli, votata esclusivamente al guadagno e che troppo
facilmente dimentica che in ballo c’è la tutela di un bene
fondamentale come la salute, non certo la produzione di
una macchina, un televisore o un paio di scarpe.
Ebbene, un’azienda florida come la Novartis ha deciso di
fare causa all’India per impedire il diffondersi della
versione generica di un suo farmaco salva-vita, il Glivec,
ancora coperto da brevetto. Il Glivec, tra l’altro, non è
neanche un “blockbuster”, ossia uno di quei prodotti in
grado di vendere ogni anno per più di un miliardo di
dollari e perciò fondamentali per i bilanci delle aziende.
In realtà il Glivec cura in modo molto efficace una
patologia poco diffusa (una particolare leucemia con basi
genetiche), che colpisce 1-2 persone ogni 100mila. Farmaci
di questo tipo sono chiamati “orfani” e incidono davvero
molto poco sui profitti delle multinazionali, sempre più
interessate a prodotti contro l’ipertensione, il
colesterolo alto, la depressione, che generano vendite
enormi e costanti. Se non fosse per la ricerca pubblica
(che, a differenza di quanto si crede, genera la quasi
totalità delle innovazioni farmaceutiche, compresa quella
alla base del Glivec) e gli incentivi governativi, molto
probabilmente le case farmaceutiche si sarebbero già da
tempo disinteressate di queste patologie così poco
diffuse. Del resto, chi ha detto che la vita non ha
prezzo?
Di fronte a tutto questo, viene da chiedersi perché un
colosso come la Novartis abbia deciso di fare appello al
tribunale di Chennai (India del Sud) per vietare il
generico locale del Glivec. In realtà, la paura è che da
questo esempio ne possano seguire altri. Si vuole porre un
freno in tutti i modi alla concorrenza indiana. L’India,
infatti, grazie ai suoi tanti laboratori di ricerca, è uno
dei pochi Paesi in via di sviluppo in grado di replicare a
basso costo i principi attivi dei farmaci delle
multinazionali occidentali.
Per questo i farmaci generici prodotti da case come la
Ranbaxy stanno diventando sempre più diffusi in India,
Africa e in tutto il Sud del mondo. In un suo articolo,
Federico Rampini (corrispondete dal’Asia per La
Repubblica) stima che oltre il 50% dei farmaci usati
dai milioni di malati di Aids nei paesi poveri viene
prodotto proprio dall’ex colonia inglese. Eppure,
nonostante i prezzi notevolmente ridotti di questi
farmaci, “nel mondo, ogni anno, circa 17 milioni di
persone muoiono a causa di una malattia infettiva perché
non possono permettersi le medicine. In un anno la
tubercolosi ha ucciso due milioni di persone che non erano
in grado di curarsi” (Domenico Gallo, in “Farma&Co” di
Marcia Angell).
Il problema è che il World Trade Organization (Wto) impone
a tutte le 148 nazioni aderenti il rispetto di un brevetto
esclusivo che per i farmaci dura ben vent’anni. In quell’arco
di tempo nessun’altra casa farmaceutica può mettere in
commercio il principio attivo coperto da brevetto. Il
risultato è che, per vent’anni, le multinazionali sono
libere d’imporre sul mercato i prezzi che vogliono, in
totale monopolio. A farne le spese sono i più poveri: i
malati dei Paesi poveri, ma anche gli anziani e meno
abbienti delle nazioni occidentali, sempre meno protetti
da sistemi sanitari alle prese con continui tagli alle
spese.
Solo nel 2001, dopo le minacce del Sudafrica - in enorme
difficoltà nel tentativo di fermare la diffusione dell’Hiv
- e l’indignazione dell’opinione pubblica, gli Stati Uniti
(che si erano fortemente opposti alla produzione di
generici in Sudafrica) si ritrovarono in netta minoranza
al Wto. Si arrivò così alla Dichiarazione di Doha, nella
quale si afferma la necessità di far prevalere il bene
della salute pubblica sulla tutela economica della Big
Pharma. Non sempre però, ovviamente. Solo in caso di
“emergenza nazionale e situazioni di estrema urgenza” i
Paesi in via di sviluppo possono produrre forme generiche
di farmaci coperti da brevetto. Bisognerà aspettare solo
il 2003, però, per riuscire ad ottenere anche la
possibilità di importare ed esportare liberamente questi
prodotti, senza l’obbligo di produrli dentro i propri
confini.
Da quel momento, i farmaci indiani hanno rappresentato per
molti poveri del mondo l’unica speranza di sopravvivenza.
E questo fenomeno aumenterebbe ancora se la possibilità di
duplicare i farmaci di marca fosse ammessa per curare
tutte le patologie, al di là delle situazioni di
emergenza.
Se da quel tribunale indiano sarà la Novartis a uscirne
(possibilità remota, considerando il peso delle lobby
farmaceutiche negli Usa e nel Wto), potrebbe essere una
rivoluzione.
Basta pensare all’esempio del Glivec: un mese di cure
costa 2.600 dollari, la sua versione generica, invece, ne
costa un decimo. Per chi è affetto da questo tipo di
tumore al sangue (la leucemia mieloide cronica), poter
assumere questo principio attivo significa salvarsi da una
morte certa, che nessun altro farmaco può impedire.
In fondo, basterebbe che per una volta fosse davvero messo
in pratica quel mercato libero che tutte le organizzazioni
mondiali continuano a dire di voler tutelare sopra ogni
cosa. Invece, molto probabilmente, anche questa volta,
anche di fronte a uno dei diritti fondamentali dell’uomo
(il diritto alla salute) a prevalere saranno dazi,
brevetti e tutto quanto è necessario per incrementare,
anno dopo anno, i profitti di poche multinazionali
occidentali.
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