Saranno pure semplici coincidenze, ma è ormai chiaro che da quando alcuni
organi giudiziari hanno preso in considerazione tra i possibili moventi della
criminalità, anche quello cosiddetto "esoterico", improvvisamente si
è tornati a parlare del caso giudiziario più contorto della storia italiana,
appunto il "caso Moro". Uno dopo l'altro sono scesi in campo i vecchi
e nuovi protagonisti, ciascuno per avanzare interpretazioni più evolute,
riflessioni col senno di poi, si ridà voce a coloro che pure ebbero un ruolo
"ufficiale", almeno nelle aule di Giustizia, tutti condannati come
autori del progetto crimal-politico finalizzato a colpire il cuore dello Stato,
costringere lo Stato a "trattare" con ragazzi che pure a via Fani
divennero stragisti, stragisti in divisa, una divisa dello Stato Italiano.
Quante volte, ripensando a questo particolare così stridente, così
contraddittorio, mi sono chiesta, se mai come sessantottina, avessi fatto
anch'io la scelta della lotta armata, "per una società migliore",
quante volte mi sono chiesta se avrei accettato di "mortificare" la
mia identità di "rivoluzionaria" mimetizzandomi dentro una divisa:
ebbene mi sono risposta sempre con un secco NO
E che c'entrava Moro, l'unico uomo di Stato che semmai si era posto il
problema di quella gioventù di cui conosceva le proteste e i silenzi, nei cui
sguardi cercava di comprendere le ragioni di quanto lo Stato non avrebbe potuto
continuare ad ignorare, quando la sera o nei giorni di festa osservava ogni
gesto, ogni atteggiamento dei suoi stessi figli che di quella generazione
facevano parte, senza sentirsi diversidai compagni di studi, dai coetanei di cui
forse intimamente ne invidiavano una maggiore libertà di espressione? Torno a
chiedere: "Che c'entrava Moro"? Chi lo conosceva, chi seguiva le sue
lezioni, chi raccoglieva le confidenze dei figli all'Università, nelle
riunioni, sapeva bene che uno dei momenti più sereni e anche allegri per Moro,
era quando la sera poteva leggere il suo quotidiano preferito, L'Unità, e lo si
sentiva ridere a casa, perché quel giornale colpiva nel segno, e forse Moro si
immedesimava nei colleghi di partito, messi ai raggi x da una sinistra acuta e
intelligente, critica e preparata per quel progetto maturato in lui e temuto
dalla Democrazia Cristiana come un minaccia per lo Stato, assai più temuto
delle Brigate Rosse.
E ancora chiedo: "Che c'entrava Moro"? Perché mai le Brigate Rosse
avrebbero escluso di fatto l'unica possibilità avanzata da un uomo di Stato,
Moro, lui che guardava anche alle problematiche politiche, ideologiche e sociali
di coloro che già tanto sangue avevano procurato, l'unico pensiero sensibile al
pericolo di una contestazione ormai incontenibile e che trovava alimento oltre i
confini Italiani, destabilizzando alleanze ormai inadeguate alla realtà dei più?
O è più logico pensare alle Brigate Rosse come un'opportunità da considerare
al momento giusto, qualora lo Statista avesse davvero tentato di affermare un
Governo di più ampio respiro, e capace di sedare nell'interesse di tutti la
rabbia, la protesta, di una generazione con la voglia di esserci?
E' una realtà che le Brigate Rosse ambivano ad un'azione eclatante, simbolica,
un vero e proprio attacco al potere, del quale il
simbolo per eccellenza si concentrava nella figura di Giulio Andreotti, i
cui tentacoli oltrepassavano gli Oceani ancorandosi ai fusi orari nella veglia
senza sosta del dominio,capace di controllare e muovere le menti sulla scena
mondiale del compromesso, delle invisibili tessiture sul telaio dei ricatti
eterni e garantisti a futura memoria.
Sono vivi nei miei ricordi quegli anni, quando all'Università, la Sapienza, mi
investiva l'odore delle bombe molotov lasciato nell'aria dalla guerriglia del
giorno prima. Pensavo di seguire le mie lezioni di Medicina, ma poi mi bastava
vedere la scalinata di Giurisprudenza, e dall'altra parte la Facoltà di
Lettere, e mi passava la voglia di studiare, come se commettessi un peccato
mortale ad estraniarmi dalle ragioni, opposte tra di loro, che pure vedevano
impegnati nella contestazione degli anni di piombo i miei coetanei. Mi piacevano
le idee degli uni, ma anche degli altri, nonostante il mio carattere volitivo
tendeva sempre a scelte estreme, eppure c'era del giusto nei "rossi" e
c'era del giusto nei "neri", e così a decidere il mio schieramento
ideologico della giornata, più che le ragioni politiche, prevalevano le ragioni
sentimentali.
Alberto, mio fratello, era più "nero" dei fascisti, si era
completamente permeato della cultura di famiglia, riuscendo a sopportare anche
la "dittatura" di nostro padre, fino ad iscriversi al FUAN, dove
convergevano i "picchiatori scelti
Io invece pretendevo più libertà, e invidiavo le ragazze che non avevano orari
per tornare a casa, che non erano obbligate a telefonare alla mamma se c'era un
ritardo, ma allo stesso tempo non avrei rinunciato per nulla al mondo al mio
fine settimana, al ballo del sabato sera, alla mia cinquecento, ai miei modi da
studentessa-bene, al fidanzatino che faceva precedere l'invito a cena da un
mazzo di fiori, e scendeva dalla bella macchina per aprirmi lo sportello.
Spesso, quando c'era laboratorio nel pomeriggio, mi fermavo a pranzare alla casa
dello studente, e fu proprio lì che mi accorsi che le divisioni, i conflitti
ideologici, le contraddizioni stesse non erano le vere cause di quella violenza
che a breve sarebbe esplosa irrimediabilmente.
Certo, c'erano delle diversità, i ricchi, i meno agiati o quelli che a mala
pena riuscivano a fotocopiarsi i libri di testo, ma le cose in comune erano di
più, e fuori dalla strumentalizzazione di altri,riuscivano a cementare anche le
distanze più grandi. La cultura stessa era motivo di aggregazione, così come
lo erano i nostri vent'anni. Il pericolo era altrove, e Moro forse lo aveva ben
compreso. Quando arrivava all'Università, il suo sguardo, composto, discreto,
era ampio, e valeva per i "rossi", per i "neri", e per gli
aggruppamenti di giovani come noi,
sia pur bardati con il casco, lo scudo, e il manganello, pronti a caricare, al
primo comando. Mi venne voglia di andarlo a sentire in una delle sue lezioni,
volevo ascoltare il timbro della sua voce. Non aveva il carisma dell'oratore di
piazza, ma il suo pensiero rifletteva le preoccupazioni che si portava dentro,
come di chi sapeva fin troppo bene che nell'ambito delle sue funzioni
governative e di Stato, le sue ideesarebbero state ignorate, o peggio,
imprigionate, così come lui stesso sarebbe stato il "prigioniero".
Parlava della "Ragione di Stato" come di un valore assoluto, nel cui
nome, se necessario, si doveva esser pronti a sacrificare tutto, ma faceva bene
intendere che lo Stato nel suo concetto non lo si identificava in un partito,
nemmeno nella Democrazia Cristiana.
Per questo, anche nelle immancabili discussioni politiche tra studenti,
non era certo la figura di Moro a surriscaldare gli animi di quelli che si
definivano "di sinistra", anzi a volte ci si rideva su, immaginandolo
con i suoi discorsi, seduto vicino ad Andreotti e a quelli che chiamavamo i
"Demoni Cristiani", né avremmo mai immaginato che le Brigate Rosse ne
facessero il simbolo della loro azione storicamente più importante.
Moro davvero guardava a sinistra, e lo confermano alcuni pensieri che sua figlia
Agnese ha recentemente raccolto in un libro.
E' un giorno importante, torna a casa contento. Per la prima volta - mi dice -
ci sarà un Presidente del Senato del Partito Comunista Italiano. Sono stati
vinti ogni resistenza e ogni timore. Me ne informa lieto…". E ancora:
"Non credo che gli piacesse leggere i giornali. Lo faceva perché lo doveva
fare. C'era però qualcosa che leggeva davvero con grande piacere: i corsivi di
Fortebraccio su L'Unità. Ti accorgevi che ne stava leggendo uno perché
cominciavi a sentirlo ridere da solo. Prima una risatina, quasi soffocata, poi
un'altra, poi a volte, fino alle lacrime. Dopo che aveva finito di leggere, ci
chiamava. E ricominciava a leggerlo a voce alta per noi. La lettura era spesso
interrotta, perché rideva talmente tanto, che non riusciva a proseguire. Il
fazzoletto veniva tirato fuori dalla tasca della giacca da casa due, tre volte.
Energiche soffiate. Una passata sugli occhi per asciugare le lacrime…".
Ma allora perché, perché Aldo Moro? La domanda è sbagliata, e per questo non
si riesce a dare una risposta logica, accettabile nella cosiddetta logica delle
Brigate Rosse.
La domanda che è doveroso porsi ora è: chi ideò il sequestro di Aldo Moro e
chi lo condannò a morte? Le risposte possono essere più di una, ma tra quelle
più verosimili, le Brigate Rosse appaiono una forzatura, un aggiustamento, una
precauzione simile alla firma che si appone in calce ad un compromesso, con la
postilla: "per me o società o persona da nominare". E ancora dobbiamo
chiederci: "Gli ispiratori del sequestro di Aldo Moro, furono gli stessi
che ne decisero la morte?". Quel giorno, un mio amico di Università,
Stefano Nuvoloni, mi chiese di accompagnarlo all'assemblea di Lotta Continua che
si teneva al Magistero. C'era molta tensione, e si discuteva di un possibile e
necessario attacco "al cuore dello Stato". Allora davvero dire
"Stato" era dire "Andreotti", e su questo erano tutti
d'accordo, Potere Operaio, Lotta Continua, e anche quelli che
"clandestinamente", pur essendo già BR, frequentavano questo tipo di
riunioni. Coloro che non passarono alla lotta armata, ma portarono avanti un
discorso politico di "affinità", ancor oggi rivestono cariche
politiche e istituzionali. Ebbene, l'opinione di costoro, in quell'assemblea,
era proprio quella di "indebolire" Andreotti e fortificare Moro, come?
Non certo eliminandolo, semmai coinvolgendo di più quelle Istituzioni che per
Aldo Moro, per le sue qualità di Statista, sarebbero state più sensibili
cheper Andreotti. Almeno così speravano gli "ispiratori", forse gli
stessi e gli unici che cavalcarono la "trattativa" piuttosto che la
"fermezza". E nella "trattativa" avrebbero confidato le BR,
in conformità alle loro logiche, comunque estranee al concetto di
"strage", più congeniale a menti raffinate.
Già negli anni ottanta, di brigatisti ne conobbi tanti , reclusi nelle carceri
italiane, e quest'esperienza mi confermò nelle mie più remote convinzioni,
anzi fui la prima persona a sostenere l'esistenza di una eterodirezione delle
BR, così come ebbi modo di formalizzare nel corso di una audizione da parte
della Commissione Parlamentare Stragi presieduta dall'allora senatore Libero
Gualtieri.
I motivi di tale mia certezza erano scaturiti non solo dall'incompatibilità tra
la figura di Moro e l'ideologia delle Brigate Rosse, ma anche, dopo averli
conosciuti uno ad uno, irriducibili, dissociati, pentiti, dal non averne
riscontrato i caratteri della vigliaccheria, nel senso che per loro, il ricorso
alla violenza era strettamente relativo all'obiettivo: non ho mai percepito in
nessuno di loro la crudeltà "inutile" o spietata contro soggetti non
protagonisti dell'azione stessa, come invece si verificò in via Fani. Un'intera
scorta, uomini, padri di famiglia senza poteri, né rappresentanze simboliche,
trucidati, massacrati, per un rapimento?
Quegli uomini, avrebbero potuto essere genitori di brigatisti, così come
realmente furono tanti i giovani che, figli di poliziotti o di carabinieri,
entrarono nell'organizzazione eversiva.
Chi furono dunque gli stragisti di via Fani? E perché gli uomini della prima
scorta "dovevano" morire tutti? Per chi sarebbero stati pericolosi,
come eventuali testimoni? Non certo per le Brigate Rosse…Anche un solo
superstite, avrebbe potuto dire che la mattina del 16 marzo del 1978, a via Fani
l'onorevole Aldo Moro…….STOP!
La Storia, per capirla , la si deve percorrere tutta, passo dopo passo, così
come questa storia, senza buchi e senza veli. Ed è quello che ci proponiamo di
fare, raccontando ciò che altri, ancor oggi, dopo ventisei anni, pur sapendo,
non hanno il coraggio di raccontare, né ebbero quello di ascoltare.
Gabriella Pasquali Carlizzi
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