Lo stile alla Fed è cambiato. Bernanke pranza alla mensa con i suoi
economisti, mentre Greenspan si chiudeva nel suo ufficio con le guardie del
corpo sulla porta. Più del predecessore, Bernanke è sicuramente pontiere ideale
tra i mercati e l’accademia, tra le "visioni globali" che tanto piacciono agli
operatori e i modelli matematici su cui si ingegnano i ricercatori del suo
staff. Eppure Bernanke è stato (ed in parte ancora è) sotto un fuoco di fila. Si
dice, per la sua presunta "morbidezza" sull’inflazione. Quanto leciti sono
questi dubbi? Molto poco. Ad ogni cambio di regime di politica monetaria, a
qualità invariata nella comunicazione del governatore, la reattività dei mercati
aumenta fisiologicamente. Questo è un costo fisso che ogni nuovo banchiere
centrale deve pagare. Se ambiguità esistono nel "regime Bernanke" sono di tipo
più sostanziale. Primo, sull’introduzione o meno di un regime di inflation
targeting (IT) negli USA. Secondo, sulla gestione del grande motore
dell’economia mondiale, il mercato immobiliare americano.
Una ambiguità da chiarire
Una premessa. La teoria economica ha da
tempo messo in evidenza che nella condotta della politica monetaria non conta
tanto la decisione corrente sui tassi di interesse, quanto la gestione ottimale
dello strumento principe in mano alle banche centrali: le aspettative. Interessa
poco se il tasso di riferimento è alzato di un quarto di punto, contano molto di
più la conferenza stampa del governatore e i segnali sul sentiero futuro della
policy.
Bernanke è stato tra i primi accademici a sostenere le virtù di IT, cioè di un
regime di politica monetaria che specifichi un preciso obiettivo numerico di
inflazione (per esempio, 2 per cento). Ma pochi sottolineano che questa è in
realtà solo la superficie di IT, e di importanza anche secondaria. Ben più
rilevante è l’enfasi di IT sulla trasparenza, la comunicazione e sull’uso di un
ampio spettro di informazioni nel formulare le previsioni (forecasts)
sull’evoluzione dell’inflazione. Le forecasts, solo queste, sono la
stella polare di una politica monetaria "scientifica", tanto che la terminologia
forse più corretta per definire il regime di IT è quella di inflation
forecast targeting.
Da cui la prima ambiguità di Bernanke: quando, se mai, la Federal Reserve
deciderà di transitare ad un regime di IT? E se non dovesse farlo, non
sarebbe questo di per sè motivo di perplessità, viste le ben note posizioni
accademiche di Bernanke? La BCE, sostiene qualcuno, ha già di fatto compiuto la
transizione a IT, avendo adottato un obiettivo numerico di inflazione del 2%.
Visione ingannevole, perché confonde IT con la semplice adozione del target
numerico. Su tutto il resto (trasparenza, comunicazione, gestione delle
informazioni e delle aspettative) la Fed appare già oggi ben più vicina a IT
della BCE, senza aver mai specificato alcun obiettivo numerico di inflazione.
Per esempio, qualcuno si è mai chiesto quando è iniziata la politica del
"sentiero rialzista" della Fed (ben 17 rialzi consecutivi dei tassi), unita ad
un linguaggio sempre più specifico sul comportamento futuro della politica
monetaria? Non è certo solo da Gennaio 2006 che Bernanke è diventato testa
pensante della Fed. Perché, quindi, con Bernanke, la Fed non compie il passo
decisivo e abbraccia definitivamente IT? Il semplice fatto che operatori e
accademici si interroghino su questo non aiuta la trasparenza.
Un dibattito ancora aperto
Un altro tema che ha reso famoso l’accademico Bernanke è quello del ruolo delle
variabili finanziarie nel guidare le fluttuazioni economiche (indebitamento
privato, vincoli nell’accesso al credito, valore degli asset finanziari).
Sembrerà strano, ma costruire modelli economici seri in cui la "posizione
finanziaria" di imprese e famiglie è rilevante per le decisioni di investimento
e di consumo non è immediato. Sull’irrilevanza della posizione finanziaria
tout court, Modigliani ha persino scritto materiale da Nobel.
E’ in questo contesto che si colloca il dibattito (tuttora apertissimo)
sull’opportunità per la politica monetaria di rispondere o meno alle variazioni
dei prezzi degli asset (case e/o azioni). Quale fautore di IT, Bernanke
ha sempre sostenuto che le banche centrali non debbano rispondere alle
variazioni dei prezzi degli asset, se non nella misura in cui influenzino
le previsioni di inflazione. A quale Bernanke dobbiamo quindi ispirarci? A
questo, oppure a quello che ritiene che le fluttuazioni economiche (vedi per
esempio le sue teorie sulla Grande Depressione) siano essenzialmente spiegabili
con imperfezioni sui mercati finanziari e del credito, per cui i prezzi degli
immobili contano eccome per la capacità di spesa delle famiglie?
Domanda difficile, perché ancora il dibattito è lungi dall’essere risolto a
livello di teoria economica. In realtà l’economia americana si trova ad uno
snodo cruciale. Il regime Bernanke è iniziato proprio nel momento in cui il
mercato immobiliare americano ha cominciato a rallentare, con prevedibili
importanti effetti sui consumi delle famiglie. L’espansione del debito privato,
infatti, si è poggiata in passato principalmente sull’effetto ricchezza indotto
dalla crescita dei prezzi immobiliari, che ha espanso a dismisura la capacità
delle famiglie di contrarre debiti secondari (per esempio, per comprarsi il
televisore nuovo) rispetto al muto immobiliare principale. Bernanke, nonostante
la sua anima pro IT, ha mostrato di credere che questi effetti ricchezza fossero
di per sé fonte di preoccupazione, indipendentemente dalle previsioni di
inflazione. Ma la teoria economica - a lui giustamente cara - non lo ha
sostenuto fino in fondo, semplicemente perché ancora non ha ricette chiare da
fornire. E’stata forse questa la principale causa di ambiguità all’inizio del
suo mandato
|