«Degrado e devastazione ambientale
alimentano il controllo della criminalità sulla vita delle persone».
Parla Francesco Forgione, il neo-presidente della Commissione antimafia
di MARIANGELA PAONE
Francesco Forgione, giornalista e segretario di Rifondazione
Comunista in Sicilia dal ‘94 al 2001, presiede dal 15 novembre la
Commissione parlamentare antimafia. Lo abbiamo incontrato nel suo nuovo
ufficio di Palazzo San Macuto, a pochi passi da Montecitorio.
Presidente Forgione, il manifesto conclusivo di Contromafie, gli Stati
generali
dell’antimafia organizzati da Libera due settimane fa, chiede tra le
altre cose di introdurre il reato ambientale nel codice penale. Si farà
portavoce di questa richiesta?
Che ormai le mafie abbiano uno dei fattori primari di accumulazione della
ricchezza e di costruzione del loro sistema imprenditoriale nelle attività
collegate al ciclo dei rifiuti e al ciclo del cemento è un dato acquisito.
Credo che la Commissione antimafia, in sinergia con la Commissione del ciclo
dei rifiuti – detta non a caso Commissione ecomafie – debba contribuire
affinché la legislazione acquisisca nuovi livelli di contrasto in tutta la
materia che lega la devastazione dell’ambiente con gli interessi criminali.
Lei ha annunciato che il 30 aprile prossimo intende presentare un Testo
unico della legislazione antimafia, antiracket e antiusura. Vi troveranno
posto anche i delitti ambientali?
Il reato penale in campo ecologico incontra anche la mafia, ma non è
necessariamente riconducibile a una tipologia di reato mafioso. Potrebbe
avere anche tipologie criminali da aggredire con una legislazione autonoma
rispetto a quella antimafia. Certo, ormai il giro di affari che le mafie
realizzano attraverso i reati ambientali è tale che, dal punto di vista
della legislazione di contrasto, una tipologia va definita. Innanzitutto
riguardo al ciclo dei rifiuti, non solo di quelli speciali ma anche di
quelli che arrivano ai secondi e terzi piani delle città. E poi per quello
che riguarda la legislazione urbanistica. Il rigore nella gestione delle
norme urbanistiche è l’altra faccia dell’intervento delle mafie nel
territorio e della saldatura tra le organizzazioni criminali e la politica.
In passato lei stesso ha denunciato i forti interessi della mafia
siciliana nel ciclo del cemento.
Il ciclo del cemento è il primo salto di qualità tra la mafia delle campagne
e la mafia della modernizzazione urbanistica delle città del sud. La
definizione ovviamente è impropria. Cosa c’è di moderno nello stupro e nel
saccheggio delle coste, in uno spontaneismo urbanistico che non è mai
spontaneo ma voluto, proprio per evitare la regolazione e la programmazione
politica e di governo sul territorio? Cosa c’è di moderno nelle periferie
che diventano invivibili, dove il cemento che opprime le vite è sempre il
cemento della mafia? La mafia costruisce un contesto degradato nel quale non
può che essere egemone, perché la frammentazione sociale, la devastazione
ambientale, la negazione di spazi comunitari non possono che alimentare il
controllo mafioso sulla qualità della vita delle persone. Quando penso a
Scampia, alle periferie di Napoli o di Palermo, allo Zen, penso a grandi
mostri urbanistici e di cemento fatti apposta perché il crimine organizzato
trovasse il suo habitat naturale.
Anche se il 41% dei reati ambientali è commesso in Calabria, Campania,
Puglia e Sicilia, il fenomeno ha una portata nazionale e sempre più
internazionale. Come pensa di intervenire sulla questione delle rogatorie e
del rientro dei capitali?
Quando parlo di un Testo unico della legislazione antimafia, antiracket e
antiusura penso a una strumentazione complessa che aggredisca la pervasività
delle mafie sul piano economico e produttivo nazionale, a presenza criminale
nel territorio. Penso a una legislazione premiale per incrinare l’omertà, ma
anche alla necessità di affrontarle sui nuovi campi d’azione: ormai sono
holding economico-finanziarie che si misurano con i temi della
globalizzazione internazionale. Non c’è dubbio che abbiamo un problema di
snellimento delle procedure sulle rogatorie. Va anche definito un diritto
minimo condiviso sul piano europeo, perché non possiamo andare per
legislazioni spezzettate. E occorrerà affrontare il problema della capacità
investigativa e delle strumentazioni legislative adeguate a inseguire,
intercettare e colpire i movimenti dei capitali. Noi abbiamo ancora il
segreto bancario mentre via internet si muovono milioni e milioni di euro.
Prodi ha detto che le mafie sono l’ostacolo allo sviluppo del Meridione.
Quanto ha pesato in regioni a vocazione turistica l’intervento delle mafie
sul territorio?
Io condivido l’ispirazione del ragionamento di Prodi. Però forse le mafie
più che un ostacolo allo sviluppo sono un pezzo di uno sviluppo distorto del
Mezzogiorno. Non sono un fattore di arretratezza ma sono organiche a una
modernità distorta. Probabilmente si tratta di ripensare lo sviluppo. Se non
c’è armonia tra gli interventi economici e la valorizzazione delle risorse,
se l’elemento dominante del mercato del lavoro rimane la precarietà, se la
trasparenza dell’economia non si afferma liberando le energie di
imprenditori e commercianti dal giogo del pizzo, del racket e dell’usura, io
non credo che riusciremo a prosciugare il brodo di coltura nel quale le
mafie rigenerano il loro potere.
Da dove si comincia?
Da un lato dobbiamo definire un’altra idea di sviluppo, in cui investimenti
e programmazione siano aggiuntivi a quello che i territori producono e
posseggono in termini di ambiente, risorse naturali e agricoltura.
Dall’altro dobbiamo produrre un’azione repressiva affinché il mercato e
l’economia non siano controllati dalla mafia.
Appena eletto a capo della Commissione antimafia lei ha inaugurato la
prima associazione antiracket a Ercolano. È questo che intende quando,
attirando anche qualche critica, dice che occorre portare l’antimafia fuori
dalle aule giudiziarie?
Su questo punto insisto: credo che dobbiamo garantire alla magistratura e
agli apparati investigativi e repressivi sostegno e mezzi, chiedendo sempre
che l’azione di legalità non si fermi alle soglie del potere e
dell’economia. La magistratura deve avere tutto il sostegno da parte della
politica nella sua azione di legalità costituzionale. Ma l’antimafia per
vincere deve fuoriuscire dalla dimensione giudiziaria, deve trovare una
dimensione sociale, deve incontrare quelle aree di sofferenza che, se non
riescono ad avere risposte nelle politiche pubbliche, troveranno solo gli
ammortizzatori sociali delle mafie. Abbiamo bisogno di repressione, di
azione di legalità e di verità giudiziarie, ma anche di una bonifica sociale
delle ragioni e delle motivazioni per le quali le mafie rigenerano il loro
potere e il loro consenso. Abbiamo bisogno che in intere aree del paese
vengano riconquistati alla democrazia non solo i territori ma anche le vite.
Allora non serve mandare l’esercito…
Io posso mandare tutto l’esercito che voglio a Napoli, e non credo che
l’esercito sia la risposta. Ma se non entro con la testa, con gli occhi nei
bassi per vedere le migliaia di famiglie che vivono delle griffe della moda,
della microelettronica e di tutto il sistema produttivo camorristico, se non
provo a fare politiche pubbliche che prosciughino quelle aree sociali dal
condizionamento della camorra, io sul piano repressivo non potrò vincerla la
partita.
Lei è un giornalista. Qual è il contributo che l’informazione ha dato e
può dare alla lotta antimafia?
Siamo di fronte a organizzazioni criminali che vivono di omertà e per
sconfiggerle abbiamo bisogno della parola, della trasparenza, della denuncia
di donne e uomini, ma anche di tenere accesi i riflettori dei media per
sottoporre a critica costante la realtà nella quale le mafie esercitano il
loro potere. L’informazione però deve essere libera da ogni condizionamento.
Le organizzazioni criminali vivono di un sistema di collusione e relazione
con il potere, la politica e le classi dirigenti, e un’informazione
assoggettata al potere e alla politica non serve alla trasparenza e alla
lotta alla mafia. La libertà d’informazione è una delle condizioni della
battaglia antimafia. Non è un caso che in questo paese più di dieci
giornalisti siano stati uccisi dalle mafie. Anche l’esperienza di Roberto
Saviano, che per aver denunciato la camorra nella sua essenza di “sistema” è
costretto a vivere sotto scorta, dimostra quanto l’informazione sia un
elemento scardinante del potere mafioso.
Ma allora c’è sempre bisogno di eroi, nell’azione repressiva e
giudiziaria come nell’informazione?
L’antimafia si vince se non ci sono eroi. Noi dobbiamo fare un’antimafia che
recuperi il senso di quello che c’era scritto nello striscione dei ragazzi
di Locri: «E adesso ammazzateci tutti». In quel “tutti” c’è l’idea di una
lotta collettiva, senza la quale l’antimafia non può che rimanere chiusa
nelle aule giudiziarie.
19/11/2006 Archivio Contromafie
Archivio Mafia
|