I testimoni si definiscono
deportati dalla loro terra e abbandonati dalle istituzioni. «Che non
dicano mai "Chi ce l'ha fatto fare?", la preghiera di Enza Rando di
Libera agli Stati generali dell'Antimafia / di ELISA SPERETTA (Narcomafie.it) «Che non dicano mai “chi ce l’ha
fatto fare?”». È l’auspicio e la preghiera con cui Enza Rando,
dell’ufficio di presidenza di Libera, ha inaugurato la giornata del
gruppo di lavoro “Giuro di dire tutta la verità”, dedicata ai testimoni
e ai collaboratori di giustizia. Un tema delicato e di centrale
importanza, che va a toccare il prosaico (ma indispensabile) livello razionale, con il conteggio dei
costi/benefici che derivano all’antimafia giudiziaria, tanto quanto il
livello emotivo, con il racconto delle innumerevoli difficoltà
affrontate da chi sceglie coraggiosamente di intraprendere questo
percorso. Da qui, la speranza che, nonostante tutto, non se ne debbano
mai pentire. Se pur fondamentale, la questione è però quasi sempre
confinata alla sfera privata, mentre «è urgente – ha continuato Rando –
farne oggetto di discussione pubblica». Ed ecco la sede appropriata:
testimoni, avvocati, magistrati, associazionismo civile e studenti
insieme, per la prima volta, a confrontarsi.
L’argomento è vastissimo e comprende due macroaree che devono essere
tenute ben distinte: per “collaboratori di giustizia” si intende infatti
quanti, dopo aver fatto parte o essere stati contigui a organizzazioni
criminali, decidono di uscirne raccontando agli inquirenti informazioni
di cui sono a conoscenza; i “testimoni di giustizia” sono invece comuni
cittadini che sono stati testimoni o vittime di fatti mafiosi e che
scelgono di denunciare rischiando per questo attentati o la vita stessa.
Questa distinzione è il punto più importante della legge numero
45 del 2001, arrivata dieci anni dopo la legge numero 82, che già faceva
luce sulle enormi potenzialità di queste figure. Eppure questo distinguo
è stato indicato da più parti come l’unico vero successo della legge 45,
criticata invece sotto molti punti di vista. Il magistrato Anna Canepa,
ad esempio, della procura di Genova, ha messo in luce lo spirito
punitivo e una sostanziale sfiducia nello strumento dei collaboratori
che sottendono la norma, quasi a voler ridimensionare il fenomeno.
D’accordo con lei il magistrato Alfonso Sabella, del tribunale di Roma,
che in particolare critica la poca appetibilità di una legge che, nei
fatti, riduce i benefici per chi decide di collaborare e
contemporaneamente gli strumenti dell’autorità giudiziaria per trarne il
massimo contributo, facendo del programma di protezione «un imbuto senza
via di uscita, un meccanismo che necessariamente prima o poi si intasa e
si inceppa, con testimoni e collaboratori che entrano ma non riescono a
uscire». D’altra parte, fa notare Massimo Mariani, funzionario della
prefettura di Brindisi, il sistema, seppur imperfetto e migliorabile, ha
oggi molti importanti strumenti in più, soprattutto nella flessibilità
del programma di protezione offerto. Un programma che prevede il
sostegno legale ed economico e nei casi più gravi lo spostamento in una
località segreta e nuove generalità, ma che dovrebbe sempre sfociare in
un reinserimento sociolavorativo, e dunque, come ha detto l’avvocato
Pettini, nella possibilità per i testimoni di «ricominciare dal “via”,
mantenendo il tenore di vita cui è stato costretto rinunciare».
È sul piano economico che si scontrano quasi sempre le istanze
delle istituzione e quelle del testimone, con numerosi processi in cui
le due parti, che paradossalmente dovrebbero essere alleate, si
contrappongono. Ma cosa chiedono i testimoni? I molti presenti in sala
lamentano veri e propri «stati di abbandono da parte delle istituzioni»,
non esitano a definirsi «deportati dalla loro terra», rivendicano il
diritto alla libertà di movimento, la possibilità di assumere ruoli
pubblici dando visibilità alle loro esperienze, di parlare liberamente
ad assemblee, scuole e mass media. E, in alcuni casi, di restare nel
proprio territorio: «Se noi ce ne dobbiamo andare e i mafiosi invece
restano è una sconfitta dello Stato e della democrazia».
A loro risponde il magistrato Roberto Alfonso, della Procura
nazionale antimafia, garantendo la disponibilità della Commissione a
venire incontro ai singoli casi, ma sempre all’interno dei paletti, a
volte troppo stretti, della legge. Eppure, continua Alfonso, globalmente
il sistema sta funzionando.
La palla dunque passa al legislatore? Molteplici le proposte emrse nel
corso della giornata, assimilabili – come ha suggerito in chiusura il
magistrato Antonio Ingoia – nell’istituzione di una commissione
permanente, composta da tutti i soggetti coinvolti a vario titolo e oggi
qui rappresentati, da proporre alle istituzioni politiche, insieme alla
sollecitazione dell’attuazione del promesso testo unico della
legislazione antimafia e al miglioramento se non della legge 45, almeno
dei suoi rigidi e a volte contraddittori decreti attuativi.
19/11/2006 Archivio Contromafie
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