In Sardegna si scende in piazza per invocare
la liberazione di Giovanni Battista Pinna, rapito il 19 settembre
scorso. Si discute ancora del blocco dei beni: strategia unica e
solitaria di uno Stato che oltre confine i rapiti li paga
profumatamente.
Bonorva è un
paese tranquillo, nel cuore della provincia di Sassari. Un posto
dove tutti si conoscono, a misura d’uomo, in cui l’allevamento, la
pastorizia, l’agricoltura sono rimaste attività diffuse e necessarie
alla vita delle famiglie. A Bonorva non ci sono mai stati i picchi
di criminalità raggiunti altrove, anche non troppo lontano da qui,
sempre in terra di Sardegna. A Bonorva sono arrivate tremila
persone: arrivate per lanciare un segnale, per uscire dal coro del
silenzio, per tirar fuori l’orgoglio e la voglia di ricordare a
tutti che non si incatena un uomo, che non si priva un uomo della
sua libertà. Che il sequestro di persona è rifiutato dalla coscienza
di questo popolo.
Giovanni Battista “Titti” Pinna è stato sequestrato il 19 settembre
scorso: una richiesta di riscatto immediata, poi più il nulla. Sulla
sorte dell’allevatore è calato il silenzio. Di lui non si sa più
nulla, e la speranza (paradossale chiamarla speranza) è che i
rapitori stiano seguendo la feroce tattica della totale assenza di
notizie. Un silenzio che scava l’animo dei familiari, lo corrode
nella più assoluta inconsapevolezza di ciò che sta avvenendo. Ma che
– quantomeno – significa speranza: la speranza che possano ancora
giungere giorni migliori.
“Da sardo mi rifiuto di essere identificato con i sequestratori:
questo è un crimine che fa male non solo a chi lo subisce, ma a
tutta l’isola”: così Gianfranco Zola, uno che ha dimostrato con il
tempo di essere molto più che un semplice calciatore. Le sue parole
oggi sono prese a immagine dello stato d’animo di tutti gli isolani,
che si ritrovano ancora una volta accomunati dal compiersi di un
delitto che tante volte si è pensato di aver sconfitto una volta per
tutte.
Con l’impegno e con il risveglio di una coscienza critica
collettiva, ci sono anche le domande e le polemiche. Sono quelle di
chi pone sul tappeto una questione semplice dalla difficile
soluzione: quale strategia lo stato debba attuare in queste
situazioni. La legge prevede una sola cosa: il blocco dei beni della
famiglia. Obiettivo numero uno, insomma: impedire il pagamento di un
riscatto. Una risposta che secondo alcuni è giusta ed equilibrata e
che invece secondo altri limita in modo chiaro le possibilità di
riportare in libertà un uomo costretto alla prigionia. La verità sta
comunque nel mezzo, ma nel contesto concreto di un rapimento non è
possibile non avere alcuna altra carta da giocare. Uno Stato insomma
non può limitarsi ad impedire il pagamento di un riscatto: deve fare
di più.
La situazione paradossale è che – in contesti senza dubbio
differenti ma comunque paragonabili – lo stato italiano tratta e
paga. E’ successo regolarmente, negli ultimi anni, per gli italiani
rapiti in zone di guerra all’estero, in modo particolare Iraq
eAfghanistan. Il nostro paese ha pagato bene la vita e la libertà
dei suoi cittadini: scelta certamente legittima, probabilmente anche
giusta. Il rapito all’estero si paga, si “riscatta”; il rapito
dentro i confini nazionali invece no. Contesti differenti e non
sovarapponibili, dicevamo, ma la sproporzione resta, con la
necessità di trovare idee e strategie davvero efficaci per
affiancare alla repressione anche la dovuta attenzione alla vita
dell’ostaggio.
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