Le dichiarazioni dell'Ad di Fiat su un
possibile trasferimento negli Usa del marchio hanno imbarazzato il Pd e il
governo. Sergio Marchionne ha smentito, ma ora l'esecutivo chiede un
incontro
Il numero uno della Fiat
vedrà Berlusconi, ufficialmente per chiarire i piani di Fabrica Italia
(leggi l'articolo). Ma sul tavolo ci sono soprattutto le
affermazioni dei giorni scorsi su una possibile fusione a stelle e strisce con
Chrysler, che porterebbe il gruppo a piazzare le sue sedi negli Usa, lasciando
nel Belpaese solo la manovalanza. I grandi sostenitori delle “rivoluzione”
dell'amministratore delegato adesso sono in imbarazzo: ma come? Tutto il
sistema di relazioni industriali si adegua alle esigenze di Fiat e lui
annuncia che il centro del gruppo sarà Detroit?
(leggi l'articolo di Stefano Feltri) Sacconi ha provato a
spegnere l'incendio: “Mi ha spiegato che sono solo ipotesi future, senza alcun
riferimento né per l'oggi né per il domani”. Possibile che a Marchionne,
attento comunicatore, sia uscita una frase dal sen sfuggita? In realtà, chiusa
la campagna d'Italia con la scissione in Borsa, l'accordo di Mirafiori e la
vittoria nel referendum, il capo del Lingotto si è lanciato a capofitto nella
sua personale offensiva americana per sedurre le banche e i sindacati in vista
di futuri investitori e di un possibile ritorno in borsa del marchio (leggi
l'articolo di Vittorio Malagutti). E se qualcuno da noi chiede
spiegazioni, la tempesta viene placata da qualche buona frase conciliante
06/02/2011 FIAD, Fabbrica Italiana Automobili Detroit
(http://www.ilfattoquotidiano.it)
Elkann e Marchionne pronti al trasloco: “La sede negli Usa”. Governo e Pd in imbarazzo, Sacconi tenta di rassicurare: "L'ad mi ha detto che non c'è nulla di deciso, la direzione resta a Torino"
I grandi sostenitori della “rivoluzione” imposta da Sergio Marchionne
adesso sono in imbarazzo: ma come, tutto il sistema delle relazioni
industriali si adegua alle sue esigenze e lui annuncia che la sede del gruppo
che nascerà dalla fusione tra Fiat e Chrysler sarà a Detroit? Maurizio
Sacconi, il ministro del Welfare che tifava Fiat contro Fiom nella
vertenza sindacale, dopo una telefonata con Marchionne riferisce una mezza
smentita: “Mi ha spiegato il senso delle ipotesi formulate con esclusivo
riferimento a futuri e possibili, ma assolutamente non decisi, assetti
societari, senza alcun riferimento né per l’oggi né per il domani a una
diversa localizzazione delle funzioni direzionali e progettuali della
società”. Ma davanti al pubblico americano il capo della Fiat e della Chrysler
ha detto ben altro.
Il disagio degli entusiasti
La notizia arriva nella tarda serata di venerdì, da uno scarno resoconto di
Automotive news sulla fiera dell’auto di San Francisco: “Il gruppo
Chrysler e la divisione auto della Fiat potrebbero diventare un’unica
compagnia, lo ha detto l’amministratore delegato di Chrysler e Fiat, Sergio
Marchionne”. Piero Fassino, candidato sindaco di Torino per
il Pd, sostenitore delle ragioni dell’azienda durante il referendum a
Mirafiori, commenta subito: “Credo che Marchionne debba dare un chiarimento
sul senso delle sue parole”. A Susanna Camusso, della Cgil,
il senso sembra già abbastanza chiaro e quindi chiede al governo di convocare
i vertici Fiat. Sergio Chiamparino, il sindaco uscente di
Torino, che nel Pd è sempre stato quello più allineato sulle esigenze di
Marchionne, annuncia: “Il presidente John Elkann mi ha
spiegato che ci saranno più centri direzionali nelle aree dove c’è una forte
presenza di mercato: una a Torino per l’Europa, una Detroit per gli Usa, una
in Brasile e se possibile una in Asia”. Che non è molto più rassicurante
dell’annuncio americano.
In attesa che Marchionne “chiarisca” (cosa che finora non ha mai voluto fare
sui punti ambigui della sua strategia), le fonti ufficiali Fiat minimizzano ma
non smentiscono: trasferire l’headquarter, come si chiama già all’americana il
quartier generale, non sarebbe poi un trauma. Qualche centinaia di posti in
meno, certo, ma la Fiat è già un’impresa globale e che le decisioni vengano
prese a Torino o a Detroit poco importa, dicono dal Lingotto. “Ma non
scherziamo, è chiaro che se la sede è in America e un domani arriva un governo
democratico di Cuba che offre condizioni vantaggiose, Marchionne non ci
penserebbe due volte a spostare la produzione da Torino all’Avana. L’Italia
sarà alla pari della Polonia o del Brasile: una colonia”, dice un ex dirigente
Fiat. Il piano industriale di Marchionne per l’Italia, in fondo, si concentra
solo sul massimo utilizzo degli impianti, che ora vengono sfruttati solo al 37
per cento (anche perché produrre più auto non servirebbe, visto che la Fiat
non le vende). Nessun accenno a dove si prendono le decisioni, visto che
l’Italia è considerata come una grande catena di montaggio più che un sistema
industriale che pensa, progetta e costruisce.
Spostare il centro decisionale a Detroit significa accentrare lì tutte le
decisioni strategiche. E questo avrebbe anche un senso visto che l’attuale
struttura di Fiat-Chrysler è un po’ ridondante. “Come fai a gestire 23 persone
che riferiscono a te a Detroit e altre 25 a Torino?”, si chiede Robert
Kidder, presidente di Chrysler sentito dal Wall Street Journal.
Più semplice condensare tutto in Michigan, usando l’Italia come reparto
assemblaggio. Ma questo significa per Torino perdere tutta la parte a più alto
valore aggiunto, quella che fa la differenza. Lo certifica un recente (2009)
studio della Banca mondiale, “Crisi e protezione nell’industria
dell’auto”. I due autori, Timothy Sturgeon e
Johannes Van Biesebroeck sostengono che “la parte preponderante del
lavoro di progettazione del veicolo, nella quale i concetti si traducono in
componenti, rimane centralizzato o nei dintorni dei centri design che sono
sorti intorno ai quartier generali delle principali imprese”. Fuori dal gergo:
dove c’è il centro decisionale, lì si concentrano ingegneri, progettisti,
esperti di marketing, economisti d’impresa.
Addio alla colonia Italia
“L’Italia è una colonia con dei problemi, se ci va bene arrivano i
tedeschi dell’Ovest a mettere ordine, se va male quelli dell’Est”, diceva
Gianni Agnelli ai suoi collaboratori. Alla fine è arrivato
Marchionne l’americano, ma l’ordine rischia di assomigliare al famoso deserto
chiamato pace di Tacito. Certo, restano alcune questioni in sospeso prima di
recidere ogni legame con Torino: dal destino dell’altra metà di Fiat, il ramo
camion e trattori che non si fonderà con la Chrysler, alle partecipazioni
storiche come quella nel Corriere della Sera (ma ci vuole un attimo a
liberarsene, anche se con pesanti minusvalenze) o la quota di controllo della
Stampa. Poi, certo, bisognerebbe anche vendere qualche auto, visto
che il bilancio 2010 della Chrysler è ancora in rosso di 652 milioni di
dollari e quello di Fiat Auto è in utile di 600 milioni soprattutto grazie ai
tassi di cambio che gonfiano i profitti brasiliani tradotti in euro.
06/02/2011 Fiat, a giorni incontro tra Berlusconi e Marchionne
(http://www.ilfattoquotidiano.it)
Il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi incontrerà nei
prossimi giorni l’ad di Fiat Sergio Marchionne. Fonti di
governo precisano che il giorno non è stato ancora fissato ma che all’incontro
saranno presenti anche i ministri Giulio Tremonti,
Paolo Romani, Maurizio Sacconi e il sottosegretario
alla presidenza del Consiglio, Gianni Letta. Oggetto
dell’incontro sarà lo stato di attuazione e le prospettive del progetto
Fabbrica Italia e l’evoluzione dell’integrazione tra Fiat e Chrysler.
Dopo le recenti dichiarazioni di Marchionne su una possibile fusione tra Fiat
e Chrysler e sull’ipotesi dello spostamento del quartier generale del gruppo
che hanno alimentato il dibattito e le polemiche di queste ore, sono
proseguiti anche nella giornata di oggi i contatti tra lo stesso Marchionne e
il ministro del Lavoro, Sacconi. La data dell’incontro deve ancora essere
fissata perché deve tener conto degli impegni del governo e del rientro
dell’ad Fiat dagli Usa.
Così il capo del lingotto prova
a sedurre banche e sindacati americani
In questi mesi si giocano
partite decisive per la casa automobilistica americana sui debiti, sui contratti
di lavoro e sulla questione Borsa. Per questo l'ad Fiat ha iniziato la sua
campagna mediatica per ripetere il successo di Mirafiori
Chiusa la campagna d’Italia con la scissione in Borsa, l’accordo di Mirafiori
e la successiva vittoria nel referendum, Sergio Marchionne si
è lanciato a capofitto nella sua personale offensiva americana. Dichiarazioni,
interviste, incontri, tv e giornali. Tutto quanto fa audience con un unico
scopo: celebrare la rinascita di Chrysler, scampata al fallimento grazie ai
prestiti del governo di Barack Obama e ora pronta a tornare a
fasti del passato grazie alla cura targata Torino. L’estemporanea uscita di
venerdì – “il quartier generale del nuovo gruppo Chrysler Fiat potrebbe essere
trasferito a Detroit” – è solo una tappa di questa escalation verbale.
Marchionne, che è un comunicatore di straordinaria abilità, non lascia nulla
al caso nei suoi discorsi, nonostante gli eroici sforzi del suo ufficio stampa
di far passare le parole pronunciate a San Francisco come una semplice ipotesi
(tra le tante) e per di più a lunga scadenza. Insomma, nient’altro che una
frase dal sen sfuggita. Non è così, ovviamente. Perchè venerdì scorso il capo
del Lingotto si rivolgeva innanzitutto ai suoi interlocutori statunitensi.
Attorno alla Chrysler, infatti, si sta giocando una partita di estrema
importanza per il futuro della casa automobilistica. Una partita tutta
americana che vede Marchionne impegnato contemporaneamente su più tavoli,
tutti decisivi.
Vediamo. Già da alcune settimane i vertici di Chrysler hanno intavolato
negoziati con le banche per ottenere nuovi prestiti che vadano a sostituire i
finanziamenti pubblici americani e canadese. Il gruppo di Detroit ha inoltre
chiesto al governo Usa 3 miliardi di contributi per lo sviluppo di modelli
ecologici. Poi c’è la questione del ritorno in Borsa, che Marchionne vorrebbe
anticipare alla fine di quest’ano o al massimo all’inizio del 2012. Infine nei
prossimi mesi entrerà nel vivo anche la trattativa per rinnovare il contratto
di lavoro siglato con i sindacati dei lavoratori.
Ecco perché il manager italocanadese si è messo a suonare la grancassa
esaltando gli straordinari progressi della sua Chrysler. Per forza: come fare
altrimenti per convincere i suoi interlocutori (creditori, investitori,
dipendenti) che vale la pena fidarsi del salvatore venuto da Torino e delle
sue strategie? Si spiega così l’enfasi sulla rinascita dell’azienda, mostrata
pochi giorni fa in occasione del rituale incontro con gli analisti per la
presentazione dei conti del 2010. E anche l’annuncio tanto strombazzato sul
premio elargito agli operai. Un annuncio che può essere interpretato come un
messaggio diretto agli indisciplinati sindacati italiani, ma d’altra parte
sembra un incentivo al consenso rivolto alla controparte americana in vista
del negoziato per il rinnovo del contratto. Vale lo stesso discorso per i
numeri del bilancio 2010 e per le previsioni sui conti dei prossimi mesi.
L’ottimismo è d’obbligo per impressionare i possibili futuri investitori nelle
azioni Chrysler in vista del ritorno a Wall Street. Tutto questo anche se gli
analisti più attenti, e anche una parte delle stampa americana, non hanno
mancato di sottolineare anche alcune incognite che gravano sulla rimonta del
gruppo, che per il momento vanta una quota del mercato Usa inferiore a quanto
previsto nel piano industriale varato a novembre 2009: il 10 per cento circa
contro l’11.
Marchionne però, tira diritto all’insegna dell’ottimismo. E allora alludere al
possibile trasferimento del quartier generale da Torino a Detroit può sembrare
nient’altro che il tentativo di avvolgere nella bandiera a stelle e strisce un
gruppo che si prepara a batter cassa al governo di Washington e alle grandi
banche statunitensi. Visto da Detroit, è di gran lunga preferibile che la Fiat
diventi americana piuttosto che sia Chrysler a passare sotto il controllo di
un’azienda italiana che negli States non gode esattamente di una buona fama.
Bastano poche parole, una frase buttata lì in un discorso più ampio e il gioco
è fatto. La Chrysler agli americani e la Fiat pure. Certo c’è il rischio che
qualcuno in Italia si preoccupi e chieda spiegazioni, ma la tempesta in un
bicchier d’acqua può essere facilmente gestita con qualche dichiarazione
conciliante. Così in America resterà ben vivo l’effetto patriottico del primo
annuncio. Mentre dalle nostre parti tutto si cheterà. Fino alla prossima
sparata.
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