E’
difficile prevedere quanto durerà e come andrà a finire,
ma la crisi economica e strutturale che sta colpendo il
sistema produttivo italiano sarà certo più lunga di quanto
i maghi della finanza e il governo vogliono farci credere.
Una crisi di cui si sono già visti gli effetti finanziari,
che attacca l’economia reale e i consumi e che si sta
espandendo al sistema industriale. Il cambiamento è
palpabile, si legge negli occhi dei precari, degli operai,
degli impiegati, degli studenti, di chi ha perso la
speranza di trovare un lavoro e di chi ha paura di
perderlo; di quei 7 milioni e 542 mila italiani che
costituiscono la parte più povera del paese e di chi
povero potrebbe diventarci domani. Si vede nei fatti di
tutti i giorni, nella disperazione di una ragazza incinta,
una precaria, incensurata e con un lavoro part time, che a
Milano non può neanche permettersi di comprare la carne
una volta al mese e che viene fermata in un supermercato
mentre tenta di uscire con tre confezioni di spezzatino
sotto al giubbotto.
Si vede, e non si può negare, perché oltre alla grande
industria ora attacca anche l’artigianato e i servizi,
perché oltre alla cassa integrazione si parla sempre più
spesso di mobilità e prepensionamento, perché c’è chi cura
la crisi chiudendo la fabbrica e chi non rinnova i
contratti a termine. Si vede perché ora a tremare non sono
solo gli operai e gli impiegati ma anche i piccoli e medi
imprenditori.
Meno di un mese fa, in un’intervista pubblicata il 19
ottobre scorso su La Stampa, l’ex presidente
della Confindustria, Luca Cornero di Montezemolo, parlava
di un capitalismo che nei momenti di crisi è capace di
rigenerarsi e, ricordando la lezione del presidente
americano Franklin Delano Roosevelt, rammentava che
l'unica cosa di cui dobbiamo avere paura è la paura
stessa, che occorre avere fiducia, anzi far diventare la
fiducia stessa una malattia contagiosa.
Dichiarazioni in linea con chi pensa che l’opinione
pubblica italiana è spaventata da un falso allarmismo,
revisionismo sessantottino che usa lo strumento della
paura per trasformare una crisi passeggera in una
catastrofica follia collettiva; fantasie “dark” alimentate
dalle notizie diffuse da una stampa pessimista che non
aiuta la ripresa. Un balletto nel quale si inserisce
perfettamente lo studio sugli scenari economici divulgato
dal Centro studi di Confindustria che da un lato prevede
una recessione dell'economia italiana, la terza negli
ultimi trent’anni dopo quella verificatasi nel 1975 e nel
1993, dall’altro parla di “timidi segni di stabilizzazione
che preludono ad una svolta”.
Ottimismo quindi, ma fondato su cosa? Il settore della
metalmeccanica è sicuramente uno dei più colpiti dalla
crisi e la gravità della situazione è confermata da quello
che sta accadendo nel laboratorio del mondo industriale
italiano, l’area torinese. Qui sono centinaia le aziende
che stanno ricorrendo alla mobilità e alla cassa
integrazione, imprese che lavorano nel settore degli
accessori auto, dei ricambi, dei pneumatici e non solo.
Oltre agli operai della Fiat auto e dell’indotto, questa
volta pagano anche i dipendenti dell’Iveco e delle
fabbriche produttrici di macchine per il movimento della
terra, settori fino a ieri definiti “inattaccabili”.
A Mirafiori i cassaintegrati sono più di settemila,
Pininfarina ne ha annunciati 1400, Bertone 1224.
Lavoratori diciamo “fortunati” rispetto alle migliaia di
precari che non si vedono rinnovare il contratto. O ai 400
ingegneri della Motorola (circa 370 impiegati nel Centro
Ricerche di Torino e il resto tra le sedi di Milano e
Roma) licenziati perchè non hanno accesso alla cassa
integrazione, in quanto l’azienda americana non ha pagato
i contributi per gli ammortizzatori sociali.
Dalla crisi, che colpisce anche le piccole e medie
imprese, non si salva neppure il motore trainante
dell’economia nazionale, l’asse lombardo-veneto che la
Lega Nord ha sempre considerato unico motore dell’economia
nazionale e che ora sopravvive con gli ammortizzatori
sociali erogati dallo Stato. Nelle due più produttive
regioni d’Italia si registra infatti un incremento della
cassa integrazione che ormai tocca il 50% e, da
un’indagine congiunturale svolta dall’ufficio studi di
Confindustria Veneto, si rileva che nel terzo trimestre
2008 la produzione industriale è scesa dell’1,3%, gli
ordini dell’1,4%, l’occupazione dello 0,1%.
Sono dati che potrebbero sembrare relativi, ma la
percentuale crescita degli strumenti ordinari di riduzione
delle ore lavorate viaggia sull’ordine delle centinaia. In
Lombardia poi le aziende al collasso sono migliaia: gli
industriali e i piccoli imprenditori che compongono il
cuore dell’economia italiana stanno alzando bandiera
bianca. Per ora i posti di lavoro a rischio sono 50 mila,
ottomila sono i dipendenti già licenziati o in mobilità.
Assolombarda ha dichiarato che da luglio a ottobre le ore
di cassa integrazione ordinaria sono passate da 9 a 12
milioni e secondo Unioncamere la Lombardia tornerà a
crescere solo nel 2010.
L’elenco dei settori in maggiore difficoltà comprende la
componentistica auto, il meccanotessile, l’elettrico,
l’elettronico e la produzione degli elettrodomestici, la
metallurgia e le lavorazioni meccaniche tradizionali, il
cotone e i filati, ma cominciano a dare problemi anche
settori come la gomma, la plastica e il cartario. Nokia,
Siemens, Honegger, Astrazeneca, Engineering.it, Henriette,
Eutelia, Innse, Fast &Fluid, Brembo, Iveco di Suzzara,
Finnord di Jerago, Mib di Pontirolo Nuovo, aziende che
hanno dato vita al quinto polo industriale europeo entrate
in crisi non certo per il pessimismo dei media o per colpa
del sindacato, ma perché questa è la peggiore crisi del
dopoguerra.
Una crisi alla quale gli imprenditori non sanno far fronte
se non con il taglio dell’occupazione, che durerà almeno
cinque anni e che lascerà dei segni profondi nella nostra
società; una crisi che non va combattuta con le parole o
con l’ottimismo, ma con gli investimenti, puntando
sull’innovazione e la ricerca, estendendo la cassa
integrazione ai precari ed aiutando le fasce più deboli.
Perché forse molti ancora non lo sanno, ma dalla crisi
alla fame il passo è breve.
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