
Riporto una testimonianza dal libro "Morti
Bianche" di Samanta Di Persio disponibile sul blog
a prezzo libero.
"Quando ho perso il mio papà avevo 20 anni, mio fratello più piccolo 17 e il
maggiore 23. Non si è mai pronti alla scomparsa di un genitore, specie quando si
è giovani e soprattutto quando la persona cara viene a mancare in modo violento.
Domenico Bonan, mio padre, è morto dopo nove mesi dalla scoperta di un
tumore ai polmoni.
A ottobre del 1999, a seguito di una tosse che gli
toglieva il respiro, siamo andati da un medico pensando fosse una banale
bronchite, ma scoprimmo la tragica notizia del cancro. Gli furono diagnosticati
tre mesi di vita, ma se avesse accettato di fare la chemioterapia il dolore
sarebbe stato meno acuto e avrebbe vissuto un po’ più a lungo. La posizione del
cancro fra i due polmoni non permetteva un intervento chirurgico. Riuscirono a
tenerlo in vita altri sei mesi. A luglio del 2000 ci lasciò, all’età di 56 anni.
Dalla scoperta del cancro fulminante al decesso, tra i miei genitori e noi figli
non ci sono stati particolari confronti su ciò che si stava vivendo.
Bastavano gli sguardi. Questo era frutto anche del nostro carattere
alquanto schivo e riservato, ma soprattutto per non aggravare lo stato di
“serenità” familiare. Eravamo consapevoli di quanto ci stava succedendo e
altresì che stavamo facendo tutto quello che si potesse fare. Non nascondo,
eravamo speranzosi che si trattasse solo di un incubo.
Mio padre ha lavorato quasi trent’anni presso la Tricom, nel
reparto di cromatura. Prima di lui sono deceduti altri colleghi, una ventina.
Avevano cominciato tutti allo stesso modo, un po’ di tosse, sangue dal naso. Ma
mio padre pensava di salvarsi in tempo. Non faceva altro che ripetere: “Non vedo
l’ora di andare in pensione!”. Era convinto che andando via da quel posto
sarebbe stato salvo. Però le cose sono andate diversamente. Mio
padre amava il lavoro, trovava sempre qualcosa da fare. Se potessi
rimproverargli qualcosa vorrei dirgli che avrebbe dovuto trascorrere più tempo
con noi figli.
Dal giorno in cui è morto, ho preso la decisione di capire cosa c’era dentro
quella fabbrica. C’erano troppi segnali che inducevano a pensare “Qualcosa non
va”. Anche per il paese in cui vivo, la morte di mio padre per cancro era
scontata: lavorava alla Tricom! Ho iniziato a raccogliere testimonianze di
colleghi operai, a chiedere analisi ed è iniziata una causa dove la mia famiglia
si è costituita parte civile. Ho fatto diversi sopralluoghi. Mi sono reso conto
che i reparti non erano separati fra loro: un unico stanzone dove c’era il
reparto di imballaggio, di cromatura, di verniciatura, di pulitura ecc.
Chiunque poteva ammalarsi, nessuno utilizzava guanti, mascherine, non
c’erano sistemi di protezione. I dirigenti non fornivano niente di tutto ciò,
così come non fu mai detto a quali rischi effettivi si poteva andare in contro.
Perfino l’impianto di depurazione non era funzionante, o meglio lo era solo in
caso di controlli. Sì, perché nell’impianto era impiegato il sindaco che ha
governato per 25 anni, a qualche giorno dai controlli si cercava di nascondere
la polvere sotto il tappeto. Dalle testimonianze trovate, è emerso che in
prossimità dalle ispezioni, agli operai venivano fornite delle mascherine per
proteggesi dalle polveri (ma non idonee a ridurre l’esposizione a sostanze
chimiche), si riduceva la temperatura delle vasche affinché non uscissero i
fumi, si azionavano i pochi aspiratori presenti e si spalancavano tutti i
portoni per creare flusso d’aria.
Ma oggi anche il sindaco è indagato
per i reati di omicidio colposo plurimo, lesioni colpose gravi, omissioni di
difese e cautele contro disastri ambientali e infortuni sul lavoro. Dalle
analisi chimiche, oltre al cromo esavalente e al nichel sono stati trovati ben
sette tipi di cianuro, piombo, soda e composti, acido solforico, ecc. Quando
vidi le condizioni in cui lavoravano degli uomini per poter far mangiare loro
famiglia, rimasi attonito. Dalle vasche, dove avveniva la cromatura, saliva su
una nebbia persistente, alla quale gli operai erano sottoposti per tutta la
durata della loro mansione.
Alcuni accusavano: bruciori agli occhi con
lacrimazione, bruciori allo stomaco, alla gola. I pannelli che erano posti sopra
le vasche per essere azionati imponevano di sporgersi sul bordo delle vasche,
vasche corrose, che si sgretolavano al tatto, ribadisco senza nessun tipo di
protezione che potesse evitare schizzi o fuoriuscite di liquido. Alcuni
testimoni hanno raccontato che quando un oggetto rimaneva dentro la vasca, gli
operai dovevano salire sopra il bordo e con delle pinze prelevavano l’oggetto.
Questa operazione doveva essere compiuta tempestivamente per non bloccare il
ciclo produttivo.
Ci sono stati lavoratori che sono addirittura caduti
nella vasca, ricordo che mio padre mi raccontò di quando successe a
lui, dovette tornare a casa a lavarsi e cambiarsi.
L’intera area lavorativa era un bagno di cromo esavalente, l’operaio camminava
in una fanghiglia, il pavimento in cemento era stato corroso ed i veleni sono
filtrati nel terreno inquinando perfino le falde acquifere. Tutti i familiari
degli ex operai ricordano i forti odori nauseanti con i quali
tornavano a casa.
Altro elemento inquietante emerso, riguarda lo smaltimento del liquido verdastro
prodotto. Invece di essere sottoposto a regolare depurazione, in gran parte
veniva disseminato attraverso autobotti nei terreni del comprensorio. Operazioni
condotte probabilmente di notte, visto che alcuni operai hanno raccontato di
vasche piene di sera e vuote al mattino. Si era pensato ad uno scarico in una
roggia adiacente all’industria, risultata altamente inquinata,
ma in realtà le uniche tubazioni a portare liquidi in quella roggia, erano
quelle dell’acqua piovana: la pioggia che scivolava dal tetto si impregnava,
vista l’assenza di aspiratori, di tutte le sostanze.
Purtroppo queste cose sono
emerse solo dopo la morte di un numero consistente di operai e di un
inquinamento alle falde acquifere da cromo esavalente. Risultavano esserci state
delle ispezioni da parte della USL, ogni volta nei verbali segnalavano carenze,
ma la copertura politica ha permesso di ovviare. Tutti sapevano ma nessuno
parlava. Basta pensare che l’agibilità alla ditta è stata notificata solo nel
1983, mentre era attiva già a partire dal 1975. Ricordi di
paese parlano di bambini che andavano a giocare nei campi e tornavano a casa con
le gambe macchiate di verde. Un infermiere che tentò di denunciare questa cosa
ricevette intimidazioni per non parlare.
Oggi la mia famiglia, insieme a poche altre, porta avanti questa battaglia per
veder riconosciuto il danno fatto ai nostri cari. Purtroppo non riceviamo molta
solidarietà, né dall’opinione pubblica, né dai giudici che vogliono archiviare
il caso. Se tutte le famiglie coinvolte facessero la loro parte, penso non ci
sarebbero problemi a chiedere un’imputazione per strage; ma
credo non se la sentono per due fattori. Il primo perché c’è sfiducia nelle
istituzioni ed il secondo perché c’è troppa indifferenza condita di paura. Ed
intanto chi dovrebbe essere altrove a pagare per i danni cagionati a vittime
innocenti, cammina indisturbato a testa alta."
Samanta Di Persio dal libro "Morti
Bianche".
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