Che
il mondo del lavoro sia sempre più
precario è, purtroppo, un’ovvietà con cui
si è costretti a confrontarsi
quotidianamente. Oggi, in Italia, perdere
il posto significa rimanere per strada. Ma
la maggioranza dei lavoratori italiani un
posto di lavoro vero, a tempo
indeterminato, non l’ha mai conosciuto. E,
forse, non lo conoscerà mai. E’ una
situazione sempre più allarmante che ha
convinto il Presidente della Repubblica ad
intervenire, ancora una volta, su questo
fronte. Lo ha fatto sollecitando con forza
il Parlamento a perdersi meno in
chiacchiere affrontando con
determinazione, una volta per tutte,
quella che sta diventando la prima
emergenza nazionale al pari solo della
devastazione dei conti sociali: la
precarietà del lavoro.
Parlando davanti ad un folto numero di
studenti e docenti universitari che lo
sollecitavano sulle speranze tradite e
sull’inutilità di proseguire nella
valorizzazione della loro cultura e della
qualificazione professionale, visti gli
sbocchi del mercato, Napolitano non ha
usato mezze parole: “E’ un problema molto
serio, mi auguro che possa essere
affrontato al più presto nelle sedi
giuste, cioè in Parlamento”.
Ma la politica, in questo momento, sembra
impegnata a pensare ad altro come del
resto il governo e gli imprenditori. Il
presidente di Confindustria, Luca Cordero
di Montezemolo, principe degli industriali
senza aver mai prodotto niente, si dimena
contro la Finanziaria per proteggere le
rendite di quelli che una volta erano gli
imprenditori del Paese e oggi solo
finanzieri pieni di debiti. I dirigenti
dei partiti e le loro diramazioni
all’interno del governo spendono le
giornate a studiare alchimie e travasi
astrusi di ceti politici nello spasmodico
tentativo di allargare sulla carta il
bacino elettorale, ma senza che il minimo
pensiero corra alle reali esigenze di
quell’elettorato che vorrebbero blandire.
E che di questo passo, li rinnegherà senza
appello. Almeno si spera.
L’Italia ha fame di lavoro. E i cittadini
italiani sono stanchi di farsi
vampirizzare da imprenditori incapaci di
concepire il rischio d’impresa e abili,
invece, solo a far pesare i rischi sui
lavoratori. Il senso del messaggio di
Napolitano sta infatti tutto qui, nella
necessità oggettiva di creare una legge di
sistema che obblighi gli imprenditori
italiani alle loro responsabilità sociale
ed alla severa applicazione almeno di
quelle norme che già esistono, a partire
da quello Statuto dei Lavoratori di cui
gente come Berlusconi farebbe volentieri
carta straccia. La legge Biagi, d’altra
parte, ne è stato un esempio illuminante.
Ma la politica, anche a sinistra, sembra
assente, proclami del momento e di
convenienza a parte. Eppure i dati
dell’emergenza parlano chiaro. Il popolo
dei precari, in Italia, è un mare che si
ingrossa. E che va a sfiorare la cifra di
1 milione e 690.000 unità.
Un esercito di lavoratori, con scarsi
diritti e pochissime certezze, di cui ora,
grazie ad una duplice indagine condotta
dalla Cgil in collaborazione con
l'Università la Sapienza di Roma, é
possibile, finalmente, tracciare un
profilo più preciso. Secondo i dati, in
Italia sono 1.475.111 i lavoratori
parasubordinati attivi iscritti, nel 2005,
alla gestione separata Inps. A questi,
vanno aggiunti 209.960 lavoratori con
partita Iva individuale; un esercito, pure
questo, in crescita. Il totale parla
chiaro: 1.685.071 lavoratori sono
sostanzialmente precari, seppure con le
dovute differenze. Il vero zoccolo duro
degli atipici, infatti, é costituito da
964.436 lavoratori, il 65% del totale dei
parasubordinati, che ha un reddito che non
supera i 9mila euro l'anno e, dunque, vive
ai limiti della soglia di povertà. E in un
affresco così ignobile non poteva mancare
una ulteriore discriminazione: quella di
genere. Le donne guadagnano infatti la
metà degli uomini.
Il mondo del precariato è quindi un
piccolo esercito, composto da soggetti che
vanno dagli arcinoti co.co.co e co.co.pro.
(che sono il 77,38%) fino ai venditori
porta a porta, passando per i
collaboratori free-lance dei giornali. Di
questo zoccolo duro, sono 803.588 le
persone a rischio precarietà, cioè l'80%.
Sono lavoratori monoreddito, legati ad un
solo committente, che vengono reclutati
dalle aziende con contratti flessibili
dietro cui, però, tenuto conto degli orari
di lavoro e delle mansioni svolte, si
nasconde une vero e proprio popolo di
dipendenti, mascherati da collaboratori.
Lo zoccolo duro del precariato é composto
per lo più da donne, nel 57% dei casi,
che, peraltro, guadagnano la metà degli
uomini. La maggior parte di questi
soggetti hanno una media di 35 anni e
sono, anche in questo caso, per lo più
co.co.co e co.co.pro. (78,49%). Il
guadagno medio oscilla tra i 7mila e i
9mila euro. E, per zone di residenza, i
precari sono concentrati soprattutto al
Centro-Sud. Con picchi di presenze in
Calabria, Lazio e Molise, dove si supera
abbondantemente la soglia del 70%, mentre
la situazione migliora al Nord-Est. I
settori di maggior impiego? Poste e
telecomunicazioni (83,62%), servizi alle
imprese (77,46%), ricerca (74,06%) e
sanità (73,48). Un mondo fatto di
lavoratori privi di diritti elementari; un
mondo che perde, con il passare del tempo,
la fiducia in sé e nella possibilità di
migliorare. Forse anche per questo un
mondo senza figli (82%). E senza speranza.
Nemmeno quella di una politica diversa
dall’osceno spettacolo dell’indifferenza.
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